giovedì 18 maggio 2017

LITTLE STEVEN Soulfire


Lo stesso Miami Steve Van Zandt ha definito Soulfire  il disco di una vita, quello che ripercorre tutta la sua storia di artista, performer, produttore, arrangiatore e compositore. Dodici titoli divisi tra cover, canzoni nuove, reinterpretazioni di quelli che l'autore ritiene i migliori brani scritti nella sua carriera. Ci sono canzoni che provengono dai dischi con Southside Johnny & The Asbury Jukes, un titolo di Gary U.S Bonds, cover di Etta James, James Brown, Electric Flag, "in quest'album ci sono io che faccio me stesso".

Erano ventanni che Little Steven non pubblicava un disco a suo nome, l'idea è nata l'ottobre scorso quando con la sua storica band, The Disciples of Soul, è stato invitato a suonare al BluesFest di Londra. "Sebbene in gioventù abbia avuto un periodo blues non ho mai registrato del vero blues urbano di Chicago, ho preso in seguito altre direzioni ma il BluesFest mi ha fornito l'occasione di rivedere alcune cose e riarrangiarle, Così ho fatto per The Blues Is My Business di Kevin Bowe e Todd Cerney registrata da Etta James nel 2003". E' uno dei titoli di Soulfire, il disco scaturito dall'apparizione londinese, una one night only performance che si è trasformata in un album e nella tournee estiva attualmente in corso.  A quel gruppo di disadattati, ladri e portuali che sono i Disciples of Soul ( sono parole sue) si sono aggiunte tre coriste ed una sezione fiati, tra cui Stan Harrison e Eddie Manion degli Asbury Jukes/Miami Horns, con quella ciurma Little Steven si è infilato nel suo studio di New York aiutato dal produttore Geoff Sanoff (Fountains of Wayne, Stephen Colbert) e dal chitarrista Marc Ribler. Mixato dallo specialista Bob Clearmountain (Springsteen, Who, Bowie, Rolling Stones) e da Bob Ludwig ne è uscito un disco potente, brillante, febbrile, eccitante, dove le trombe, i tromboni e i sassofoni del soul hanno incontrato le chitarre del rock n'roll come nei primi album di Southside Johnny prodotti dallo stesso Van Zandt, recentemente ristampati in un doppio CD col titolo di The Fever. Roba calda, trascinante, che rimanda a quel sound tipico del Jersey Shore pre-The River, un mix di torrido R&B, sanguigno soul e sguaiato rock chitarristico, uno stile che il tempo e le nuove mode hanno affossato e adesso Soulfire riporta  a galla.
 

Non ci vuole tanto per entrare in sintonia con un tale disco, bastano le note delle prime due tracce per ritornare giovani. La prima, che dà il titolo all'album, è stata scritta da Little Steven con Anders Bruus della band danese dei Breakers, uno dei tanti gruppi passati nel suo programma radiofonico, ed è un rock venato di garage soul incattivito da graffi chitarristici, arrangiato da una travolgente sezione fiati. Little Steven canta come non capitava da anni, si sente concettualmente coinvolto dal progetto e  ridà voce a quel mood che faceva del primo disco coi Disciples of Soul, l'ottimo Men Without Women, un manifesto di gioiosa liberazione maschile al suono del rhythm and blues. Quel fuoco soul e quell'anima ribelle la ritroviamo in I'm Coming Back, titolo di Better Days  altro album di Southside Johnny prodotto nel 1991  da Little Steven, quindici anni dopo l'esordio di John Lyon. E' un brano spudoratamente springsteeniano sebbene ci siano cori e fiati, Little Steven trascina e canta con la foga di un predicatore soul, sembra un miracolo averlo ancora così dopo tante pallide esibizioni con il Boss. Toni caldi e febbricitanti anche in The Blues Is My Business di Etta James, il rock è qui diluito, si fa per dire, da una dose di scalpitante e chiassoso R&B ma le chitarre urlano fameliche e la festa sembra ormai nel vivo via. Il tempo di una pausa, I Saw The Light originariamente scritta per Richie Sambora è solo un po' più smorzata, ma le voci femminili e diversi solo di chitarra le danno carica e anticipano il clou del party. Dal carnet di Southside Johnny arrivano altri quattro titoli. Due facevano parte di quel manifesto dell'Asbury Sound che è This Time It's For Real, anno 1977.

 
Some Things Just Don't Change è puro Motown sound, Little Steven l'ha scritta con in mente i Temptations, l'afflato è romantico, la voce è meno negroide di quella di Southside Johnny ma la sua disperata richiesta d'amore è commovente. Magnifico il finale, con Little Steven che urla e supplica come fosse Joe Tex. Coreografia wall of sound per Love On The Wrong Side of Town co-scritta con Bruce Springsteen, una ballad sontuosa zeppa di arrangiamenti orchestrali da boheme di New York, l'avrei vista bene in Return To Magenta di Mink DeVille. I Don't Want To Go Home dava il titolo all'album esordio di Southside Johnny and The Asbury Jukes ed è la prima canzone in ordine di tempo scritta da Van Zandt affascinato da quel suono e quel romanticismo che i Drifters avevano imposto tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio dei sessanta. La scrisse per Ben E.King ma non ebbe mai il coraggio di proporgliela. Aperta da una pomposa sezione fiati e da una chitarra acustica si tramuta in una ballad col cuore in mano, accorata, struggente come lo potevano essere quelle ballate che quel manipolo di pionieri della costa del Jersey portavano in giro in quegli anni. Little Steven pronuncia il celebre verso reach up and touch the sky con cui Southside Johnny titolerà il suo primo live ufficiale, i Persuasions fanno i cori, ce n'è a sufficienza per accompagnarvi sulla scala del paradiso. Decisamente sferzante e cruda è Ride The Night Away co-scritta con Steve Jordan per il soul-rocker australiano Jimmy Barnes e poi finita in Better Days. Rock di chitarre e di avventure, gli immancabili fiati, i cori, le voci redenti in cerca di una terra promessa, questo è quello che manca a Bruce Springsteen da almeno quindici anni ed invece Little Steven sa ancora trasmettere.
 

I Persuasions ci sono anche in The City Weeps Tonight, un doo-wop in salsa newyorchese che sa di passeggiate mano nella mano sulla boardwalk mentre sempre New York City è il cuore di Down and Out In New York City, cover di un James Brown del 1973 e tema del film Black Caesar. Intrisa di bassi slappati, rifiniture jazz, flauti, trombe, sonorità urbane, ritmo sincopato, orchestrazioni da Philly Sound, è puro soul nel segno della blaxploitation sullo stile di Shaft. Episodio anomalo, unico nella discografia di Little Steven, una sorta di colonna sonora influenzata dallo score di Lilyhammer, provata dal vivo al BluesFest londinese e riarrangiata nelle session del disco.
 

Le ultime due tracce di Soulfire riguardano la ripresa di Standing In The Line of Fire co-scritta per l'omonimo album di Gary U.S Bonds e qui rimessa a nuovo con una coloritura spaghetti-western, come se quest'ultimo avesse incontrato Ennio Morricone, e Saint Valentine Day scritta per Nancy Sinatra ma poi finita in un disco delle Cocktail Slippers. Little Steven canta ombroso un altro di quei pezzacci che sanno di rock alla Springsteen fino al midollo, ci sono però i fiati e i cori femminili a ribadire la natura profonda di Soulfire ovvero "soul horns meet rock n'roll guitars". Come dire un pezzo di musica americana dello scorso secolo rimessa a nuovo da un Sopranos. Dio benedica Miami Steve Van Zandt.

MAURO  ZAMBELLINI      MAGGIO 2017       








giovedì 4 maggio 2017

THE MARCUS KING BAND Legend, Milano 3 maggio 2017


Era nell'aria, il nome circolava tra gli appassionati di rock e blues, tra i chitarristi bramosi di assoli al sangue, tra chi non ha dimenticato che il rock n'roll è sostanzialmente una questione di energia, passione, coinvolgimento. E così il Legend, locale alla periferia di Milano, seppure non dotato di grande capienza, si è riempito di curiosi la sera del 3 maggio, accorsi alla prima nazionale di una delle band più promettenti di questo scorcio del 2017. Chi c'era non si è pentito di aver perso una delle semifinali di Champions perché il calcio sarà un divertimento ma il rock n'roll è altra cosa, viaggia ad altezze ben più nobili, è uno spirito che entra nella mente, nel sangue, nella chimica delle emozioni ed è in grado di farti partecipare ad una serata che ti porti a lungo nel cuore. Certo sul palco ci deve essere qualcosa di diverso dalla normale routine dei concerti standardizzati nei minimi particolari,  dove già prima dell'evento si conoscono  l'ordine delle canzoni, quale saranno i bis e le cover e cosa diranno i musicisti in scena. No, con la Marcus King Band niente di tutto questo accade e come ha proferito il sassofonista Dean Mitchell al termine dell'esibizione ad un mio amico sotto il palco che gli chiedeva la scaletta dello show, noi saliamo sul palco senza aver deciso nulla in proposito, ogni sera è diversa dalle altre, quello che viene fuori è dettato dall'istinto del momento, a ciò che capita nella serata.
 

Quindi non dannatevi a trovare le set list della Marcus King Band in rete, il loro spontaneismo è cosa che spiazza e a cui non si è più abituati nel circo di tanto rock programmato e studiato a tavolino. E la notte del Legend ha reso possibile vedere e sentire chi ancora suona con un vigore irrefrenabile, un'energia incontrollata e contagiosa, non cercando di essere perfetti ma seguendo l' istinto, non badando alle intemperanze e al caos sonoro che in qualche frangente ha sovrastato palco e pubblico ma assecondando la libertà di musicisti che creano al momento, che improvvisano il dettaglio e l'insieme mettendo la loro tecnica, in alcuni casi ineccepibile, al servizio di un crescendo bruciante, travolgente, inaspettato. Certo ci possono essere difetti nel loro show, come la difficoltà a scorgere  canzoni memorizzabili attraverso refrain e melodie oppure una insistente voglia di sorprendere con la propria bravura, attraverso  un assolo, sia di chitarra che di sax o trombe o un cambio di ritmo non previsto, spingendo sempre più in là oltre i margini estremi del rock-blues, verso ardite sonorità jazz che ricordano la furia jazz-rock del Miles Davis elettrico e le dissonanze funky dei Parliament Funkadelic.

 
Perché la musica della Marcus King Band non è niente di particolarmente definibile, ma è tutto, è un magma informe di rock sudista, qualche frammento sfuggito alle jam degli Allman e della Marshall Tucker Band, molto J J Grey & Mofro e un pizzico di Santana, diverso soul, in primis per i toni negroidi e vetrosi della stupenda voce del leader, bravo anche a maneggiare un falsetto non sempre facile, tanto R&B, focoso e arrabbiato, specie nel continuo lavoro del sassofonista ed una valanga di jazz distribuita nelle varie declinazioni del be-bop, con il sax affiancato dagli squarci veementi dell'unico afroamericano della band, il trombettista Justin Johnson. E poi il funky pompato dal bassista Stephen Campbell,  le doppie tastiere (piano elettrico e Hammond) del bravo Matt Jennings e lo stantuffo impenitente  di un batterista fuori dall'ordinario, uno spettacolo nello spettacolo di potenza e dinamismo quale è Jack Ryan. Infine lui, Marcus King,  figlio d'arte,  paffuto, sorridente,  capelli lunghi, cappellaccio da cacciatore di taglie con tanto di piume infilate nella cinta, entusiasmo da vendere, motore di una band come ne esistono solo nel sud degli Stati Uniti, qualche somiglianza con la Tedeschi-Trucks Band pur con le dovute differenze.  
 
Con la sua chitarra strapazzata allo spasimo nel tentativo di imitare Derek Trucks (peraltro irraggiungibile), con la sua voce roca e densa, espressiva da far paura, la sua animalità, il suo vigore, la sua gioventù, Marcus King è un enfant prodige che cavalca libero e selvaggio nelle praterie del rock-blues senza porsi limiti alla sua ispirazione. Irruente, con pochi momenti di quiete e nessuna pausa tra i brani, una ballata in acustico prima dell'encore ed una sola cover (Dear Prudence dei Beatles) Marcus King e la sua band hanno inscenato uno show torrido e vulcanico, saturando di note e suoni una esibizione che in qualche momento ha comportato uno sforzo fisico nel seguirla perché due ore e più in uno spazio stretto e caldo sono un tour de force specie se travolti da un tale scirocco. Ma al di la di questo, l'esibizione della Marcus King Band è la dimostrazione di quanto il rock n'roll o come diavolo volete chiamarlo sia ancora capace di infastidire le certezze ed il conformismo, scomodare sensazioni dimenticate, fare piazza pulita di tanto buonismo musicale che oggi rischia di relegare il rock nei musei e nelle tavole rotonde, oltre che mandare a quel paese il luogo comune per cui tecnica e virtuosismo non possano convivere con la spontaneità, l'istinto primitivo, il caos controllato.

 
Una colata di suoni ha rivoluzionato ciò che si conosceva di Soul Insight  e del secondo disco omonimo, le tracce tratte da quei due album ( tra le poche riconosciute Ain't Nothing Wrong With That, Devil's Land, Rita Is Gone, Virginia, Thespian Espionage)  sono state rivoltate come un calzino fino a cambiarne i connotati, signore (in realtà molto poche al Legend) e signori, c'è ancora in giro chi si diverte ad inventare ed inventarsi in un concerto.  Di strada ne devono ancora fare, sono giovani e a volte ingenui nella loro esuberanza, ma The Marcus King Band è una forza della natura, un vento caldo che soffia irresistibile e gaudente.
 
 
MAURO ZAMBELLINI    MAGGIO 2017
le foto sono di Maurizio Galli e Marcello Matranga