mercoledì 20 luglio 2016

LUCINDA WILLIAMS PUSIANO 19 luglio 2016


Suonare pochi giorni dopo che si sono esibiti Bruce Springsteen e Neil Young è partecipare ad un altro campionato, Come se subito dopo Real Madrid-Barcellona andasse in scena Sassuolo-Empoli, due squadre che giocano bene ma stanno su un altro pianeta rispetto alle prime due. Lucinda Williams ha avuto la sfortuna di suonare il giorno dopo Neil Young a Milano e tre giorni dopo Bruce Springsteen a Roma ma non ha sfigurato, ha solo giocato una partita diversa, di umiltà, di coraggio, di onestà, andando per la propria strada accompagnata da una sequenza di canzoni che sono tra le più belle scritte nella letteratura americana del rock da vent'anni a questa parte.

 Lei è soprattutto una songwriter e forse le dimensioni del teatro o di un club le sono più propizie anche se nella splendida ambientazione di Pusiano in un parco immerso nel verde con vista sul lago e luna piena che illuminava un cielo chiarissimo ( a proposito un grazie al sindaco tifoso di rock e ad Andrea Parodi che nonostante le difficoltà e perfino un lutto hanno reso possibile vedere per la prima volta in Italia l'artista di Lake Charles) la Williams ha dato vita ad un concerto sofferto e sincero, a tratti commovente per come si è immersa con quella voce dolente, malinconica, triste nelle sue storie di solitudine e mancanze, a tratti barcollante quando doveva vestire i panni della rockeuse che il migliaio di presenti desideravano vedere ed invece avvertivano una certa fragilità, avvalorata dalle sue presentazioni a bassa voce, misurate, parche ma coerenti col suo universo di perdenti e di fantasmi. Piuttosto timida, fasciata da jeans neri e camicia a quadri slacciata su un reggiseno nero, con cappello da cowboy in testa, crocifisso al collo e abbondanza di bracciali, la signora Williams non maschera gli anni ed un phisique in cui la bottiglia ha lasciato il segno ma proprio per questo è amabile, nelle sue imperfezioni, nelle sue incertezze, nel suo non essere quello che l'immaginario del rock richiede. E' vera da morire, capace di creare momenti di grande intensità e pathos e magari dopo apparire svogliata e stanca, come volesse sbrigare la pratica della canzone nel più breve tempo possibile. Ma dentro quelle sue ballate che non sai se sono più dolorose che rassegnate e quelle cantilene che sono una specie di country-rap che paiono dilungarsi senza fine e ti immergono in quei luoghi che sembrano uscire dalla prima serie di True Detective o in qualche B-movie del profondo sud, volitiva quando incita la  band, dolce quando parla di sé stessa, c'è quello che ancora oggi amiamo dell'America, libertà, paura, mistero.


Va detto che c'è una notevole differenza tra i suoi album in studio, a cominciare dal sublime rarefatto The Ghosts Of Highway  20  di cui si è potuto ascoltare Dust , Bitter Memory e la canzone che dà il titolo all'album,  ma pure il magnifico Down Where The Spirit Meets The Bone  di cui ha presentato Burning Bridges, la toccante West Of Memphis  uno degli apici del concerto e quella Foolishness ,  che assieme a Righteously,, ha il potere di catapultarti in un' ipnosi, dove la cantante ripetendo a cantilena ed in sequenza quasi ossessiva le parole alimenta un ritmo che sale e progressivamente ti coinvolge in una folle elicoide in cui ci si bea di questo trance quasi parlato, dove i musicisti si chiamano Bill Frisell, Greg Leisz, Ian Mc Lagan, Val McCallum, Doug Pettibone, e la trasposizione dei suoi album con l'attuale band dal vivo, i Buick Six, onesti e poco più, dove la sezione ritmica del bassista David Sutton e dell'arzillo batteria Butch Norton, fa il proprio sporco dovere ma il chitarrista Stuart Mathis pare perfino scolastico nei suoi assoli come nemmeno in Italia si usa più.


Qualche mese fa, visti nello spazio chiuso dell'Ancienne Belgique di Bruxelles, i tre avevano sciorinato una grinta rock-blues ben maggiore, a Pusiano si sono limitati ad un compito ben fatto pur con le fantasiose escandescenze di Norton ed il diligente lavoro di Sutton. E così la performance di Pusiano conferma le caratteristiche della Williams, una sopraffina autrice di canzoni meravigliose ed una performer con le fragilità di chi sente quasi a disagio davanti ad un pubblico numeroso, non è insomma una performer da stadio piuttosto una rocker da club, intima se si considera che a brillare tra i brani migliori del concerto sono stati l'acustica ed in solitario  Ghosts Of Hwy 20  ed una struggente Lake Charles  esibita col solo  Mathis, che è arrivata dritta al cuore dei presenti (un pubblico  preparato e rispettoso) con quei riferimenti autobiografici e confessionali.

 Uno dei momenti topici ma non il solo di una scaletta perfetta, perché se è vero che la Williams è regina delle ballate che corrono tra la Louisiana e il Texas ed il meglio di sé lo dà nei toni caduchi, bluesati e malinconici, e al riguardo hanno strappato applausi sia Dust, sulla scomparsa del padre, sia la sofferta Unsuffer Me  sia la lontana (discograficamente parlando)  Essence  e sia Drunken Angel , è vero anche che il rock n'roll scorre caldo nel suo sangue e allora quando imbraccia la chitarra elettrica e diventa una della band è un piacere sentirla incazzata in Changed The Lock,  aprire con Protection, mandare a farsi fottere Donald Trump in Foolishness, chiudere con una selvaggia Joy.

  Che vada per la sua strada e non sia un animale da palcoscenico che cerca l'applauso facile ma che il suo low profile sia una cosa assolutamente da preservare nel rock dei giorni nostri, lo testimonia il bis con cui Lucinda Williams  chiude il bel concerto di Pusiano del Buscadero Day, non sceglie una sua canzone, come in tanti vorrebbero invece che sia, ma si appella allo sferragliare Clash di Should I Stay or Should I Go prima di infilarsi in una Rockin' In The Free World  di imbarazzante confronto con quello che si era sentito la sera prima da Neil Young + Promise of The Real  a Milano. Ma Lucinda Williams la sia ama  per questo, donna dignitosa, senza trucchi, furbizie e rifacimenti,  coerente all'inverosimile nel vivere in un rock più grande di lei con la sincerità di chi scrive, canta e suona col cuore. E l'intelligenza. 

MAURO ZAMBELLINI   20 luglio 2016

 








lunedì 4 luglio 2016

BRUCE SPRINGSTEEN and The E Street Band San Siro 3 luglio 2016

 
Qualche mese fa, quando venne annunciato il nuovo tour, scrissi sulla mia pagina di facebook che questo sarebbe stato il mio ultimo concerto di Springsteen. Ho cominciato a vederlo nel 1981, a Zurigo, nel tour di The River e dopo 35 anni col The River Tour Revisited mi sembrava l'occasione giusta per chiudere un cerchio, anche perché gli ultimi show a cui avevo assistito, in particolare quello di Udine del 2009 e Milano 2013, quando presentò l'intero Born In The Usa, mi avevano lasciato un po' l'amaro in bocca. Quaranta concerti visti del Boss nel corso degli anni, con la E Street Band, solo e con quella stramba band del 1992/93 potevano bastare, i sogni non durano all'infinito, ma dopo il concerto visto ieri sera a San Siro, 3 luglio, non sono così sicuro di mantenere fede alla mia affermazione. E' stato emozionante, tanto emozionante, ancora una volta, ancora adesso che ho più del doppio degli anni che avevo nel 1981,  ho vissuto una serata in cui un cantante, un rocker e la sua band hanno investito una folla di sessantamila persone di una gioia collettiva indescrivibile, ignota a coloro che non hanno mai visto un concerto di Bruce, ragione per la quale la stragrande maggioranza di chi la prova ritorna a suoi concerti, ragione per cui il sottoscritto mette in discussione l'affermazione fatta. Si è vissuto un'altra volta una comunione generale di felicità, allegria, coinvolgimento, una magia che viene trasmessa dagli artisti e recepita dal pubblico in maniera biunivoca, trasformando un semplice evento musicale in qualcosa di trascendentale pur con le connotazioni squisitamente terrene del rock n'roll, come se la spiritualità si fondesse con un piacere fisico e sensuale. Non si va più, almeno per chi lo conosce da tanto, ad un suo concerto per cercare una reason to believe ma per gioire, far festa, liberare corpo e mente in un sabba collettivo di suoni elettrici e ballate da far accapponare la pelle.
 

Devo ammettere che prima del concerto avevo qualche perplessità, alimentate da qualche ascolto su youtube delle esibizioni precedenti e un po' condizionato dal turbinio di cose lette sui social, qualcuna sensata, molte ingiustificate, altre fastidiosamente devozionali da rasentare una sottomessa fede religiosa, altre pretestuose come quelle che, giustificate dal caro-biglietto (non esclusivo comunque di un concerto del Boss) si inoltravano in analisi marxiste-leniniste della sua vita borghese arrivando a bollare l'artista un venduto al capitalismo della società dello spettacolo, un prezzolato. Altre ancora che, rimanendo nell'alveo di com'era verde la mia valle lo accusavano , con la messa inscena degli spettacolini dei recenti tour con bambini sul palco e il karaoke dei cartelli, un clown, una sorta di scoppiato come Elvis Presley a Las Vegas. E' pur  vero che in Italia la prassi di chi fluttua da una barricata all'altra con identica foga è ben diffusa in molte manifestazioni sociali, ma l'astio nei confronti dell'artista e del suo concerto mi sono parsi esagerati e anche ridicoli, specie per un ambito musicale. In più si erano messi i tanti che si sentivano traditi dal fatto che il nuovo The River Tour 2016  avesse perso per strada molte canzoni di quel disco e così gridavano alla truffa. Tutto ciò a Milano il 3 luglio non è avvenuto perché di quel disco sono state eseguite ben 14 canzoni (su 20). Qualche perplessità la nutrivo anch'io e l'ho tuttora, perché se è vero che il concerto nel suo insieme mi ha emozionato oltre ogni previsione, e alla fine coinvolto, è  pur vero che la resa vocale di Springsteen specie nei brani più strillati e focosi di The River, e mi riferisco a Jackson Cage, Two Hearts, Crush On You, Out In The Street, I'm Rocker, è piuttosto sofferente e mostra i limiti degli anni, che alcuni classici come The River, The Promised Land e Born To Run non siano stati all'altezza delle esibizioni migliori, che la stecca all'inizio di Drive All Night  è parsa imbarazzante e che Spirit In The Night, canzone che amo alla follia, sia stata trattata quasi con una sufficienza da crooner privandola di quell'enfasi notturna e soul-blues che possiede. Ma con tre ore e quarantacinque minuti di show ed una scaletta record di 36 titoli, perché di show si tratta anche se non ci sono luci e trucchi da avanspettacolo, queste sono cose non solo perdonabili ma secondarie, specie per un'artista che ha sulle spalle 67 anni e da una band, che a parte Jakob Clemons, è abbondantemente over sixty.

 
Il circo rock? il karaoke?, beh se circo si tratta, ci faccio l' abbonamento stagionale perché un circo cosi divertente e travolgente non ce ne sono in giro, il rock n'roll continua a girare a manetta, le chitarre urlano e la band, "ridotta" ad otto senza il caravanserraglio degli ultimi anni, si è rimessa in riga ed è tornata ad essere una rock n'roll band. Little Steven è più credibile, sia nei duetti che con la chitarra, Nils Lofgren fa le sue giravolte e dovrebbe, comunque, essere usato di più visto le sue qualità tecniche, le due tastiere si passano la palla tra organo, piano ed elettronica varia, Max è rimasto il solito picchiatore, Soozie Tyrrell il tocco femminile che ci vuole ed il bassista Garry Tallent un bassista che meriterebbe molti più elogi di quanti ne ha visto la precisione, l'essenzialità, il taglio rocker del suo stile.  Jakob ce la mette tutta, è fin tenero nel suo sforzo di imitare lo zio, quando l'assolo di sax è secco, conciso, shouter è brillante, quando, nella Jungleland da brividi con cui si è aperta la parte finale della prima esibizione milanese, deve enfatizzare l'epica sinfonia di un film in bianco e nero, è bravo, volenteroso ma gli manca quel romanticismo e quel lirismo che il sax dello zio sapeva infondere al brano. E poi c'è Springsteen che ha allentato il suo lavoro chitarristico forse per via di un gonfiore alla mano, come si poteva vedere dallo schermo, ma si prodiga come uno showman totale, cantando, presentando, agitandosi, buttandosi tra il pubblico, passeggiando sulle pedane laterali, urlando a squarciagola, ballando e abbracciando le ragazze raccolte dal pit in Dancing In The Dark, uno dei pezzi leggeri del suo repertorio che il sottoscritto immancabilmente si ritrova a ballare spensierato come fosse la Miss You della E Street Band. E poi si immerge nel pathos di ballate che, per chi scrive, sono state la parte più struggente e significativa del concerto. Indipendence Day e Point Blank un tuffo al cuore e mi hanno ributtato indietro negli anni, allo Springsteen dell'81 a Zurigo e a quello imparato a memoria nei bootleg del '78, quest'ultima rallentata a narrazione per aumentarne il taglio drammatico, e così Drive All Night lenta, malinconica, cupa fino alle lacrime, impreziosita dalla citazione di Dream Baby Dream, e Jungleland la sinfonia newyorchese che ogni vecchio fan di Springsteen vorrebbe sentire. E ha sentito, ha applaudito, ha chiuso gli occhi e vissuto fino all'ultima nota, assieme all'incredulità del numeroso pubblico giovane presente, un ricambio generazionale così ampio che nessun altro grande nome del rock vanta in questi anni . Certo questo pubblico del pit, "nato" con e dopo The Rising, brano accolto con un ovazione pari a quella di The River e Born In The Usa, è anche quello un po' invadente della cartellonistica e del karaoke perché mi faceva specie vedere Bruce catapultarsi tra il pubblico tra cartelli piazzati a pochi centimetri dal viso, ma fa parte del circo ed il 3 luglio le richieste hanno permesso Lucky Town e ad una strepitosa versione nuggets fifties di Lucille di Little Richard, uno dei tanti momenti rock n'roll dello show. Indimenticabile, allo stesso modo dello scatenato rockbilly-blues di Working On The Highway, di Ramrod, di You Never Can Look (But You Better Not Touch) e di My Love Will Not Let You Down dove si è sentito un crescendo nella parte strumentale da togliere il fiato .

Un pubblico unico quello di Milano, the best public in the world come ha sottolineato Bruce, una festa collettiva che ha avuto l'apoteosi quando tutto lo stadio illuminato a giorno si è alzato in piedi e ha ballato sul tema funky-soul di Tenth Avenue Freeze Out, e sullo schermo sono comparse le immagini della E-Street Band e dei suoi defunti, e su una lunghissima e caracollante Shout nella quale Bruce con un brano degli Isley Brothers ha portato 60 mila persone "a vedere la luce"  dal reverendo James Brown e dato fondo alla sua ultima goccia di sudore dopo una titanica performance di 225 minuti (certo come capitalista lavora più di Stakanov), prima di zittire San Siro in una commovente versione in solitario di Thunder Road, ultima magia di un concerto non perfetto ma emozionante, corale e con una scaletta da favola. Questo è Bruce, una volta ancora.

MAURO ZAMBELLINI  4 luglio 2016

le foto sono di Lorenza Inquisizia Maggi