giovedì 30 maggio 2019

BRUCE SPRINGSTEEN WESTERN STARS




Non assomiglia a nessun precedente album di Bruce Springsteen Western Stars, nemmeno a quelli fatti senza la E-Street Band perché questo non è un disco di rock e nemmeno di folk ma la  colonna sonora cinematografica del West visto con gli occhi e col cuore da un innamorato dei grandi spazi, delle praterie, delle nuvole che corrono veloci nei cieli blu, delle assonnate cittadine di provincia, dei tramonti rosso sangue e dei cavalli. E' un disco californiano non perché come scritto ovunque si rifà ai cantautori pop californiani degli anni settanta ma perché c'è una percezione cinematografica dal primo all'ultimo brano che rimanda a John Ford, ai film western di John Wayne, a Hollywood, alle colonne sonore dei film americani degli anni quaranta. Dal punto di vista sonoro è un disco che risente di un massiccio uso di archi e violini, una orchestrazione che si ripete in quasi tutti i brani e combacia con l'immagine della copertina, una visione oleografica ed un po' troppo patinata del West. Non certo quello ruvido e polveroso dei romanzi di Cormac McCarthy e Larry McMurtry per rimanere negli stessi scenari.  Un disco atipico nella discografia di Springsteen, a suo dire influenzato dai songwriters pop californiani, in primis Glen Campbell e Jimmy Webb (che peraltro californiani non sono essendo nati il primo a Nashville ed il secondo in Oklahoma) ma anche "minori" quali Bill LaBounty e Terence Boylen, molto distante dall' uomo che ci ha riempito cuore e mente di sogni  e di rock ( e quando era solo folk suonava come fosse il più devastante dei rockers) tanto che sorge il dubbio che  se un lavoro del genere l'avesse fatto chiunque altro lo si sarebbe liquidato con sufficienza, a meno di non essere interessati  alla discografia di Burt Bacharach, con tutta la stima che  riconosco a quest'ultimo in termini di partiture e arrangiamenti. Western  Stars  è il frutto di un pomposo  lavoro in sala regia che si traduce in un suono artefatto tanto è studiato e orchestrato, una pompa magna di archi e violini che finisce col soffocare le canzoni. Le storie raccontate sono tutte collocate sotto le stelle dell'Ovest : cowboy alla deriva e  bar per cuori solitari , autostrade che non portano a nulla e uno stuntman che sbarca il lunario in un B movie con la clavicola rotta ed una placca di metallo nell'anca, città vuote e isolamento umano, voglia di comunità e spazi desertici, Springsteen sa essere malinconico come la sceneggiatura richiede ma è l'invadenza orchestrale e l' enfasi melodica a togliere realismo al quadro, rischiando di renderlo stereotipato. La sua voce, finalmente serena pur con quelle ombrose tonalità alla Roy Orbison,  non aiuta a dare cuore al film tanto gli arrangiamenti predominano. Ci sono episodi come Chasin' Wild Horses  e There Goes My Miracle  di difficile digestione per chi conosce e ha amato la discografia di  Springsteen, si tratta nel migliore dei casi di musica leggera americana ma Western Stars  non so se per contratto o per reale ambizione, è un disco fortemente voluto dall'artista e come tale bisogna accettarlo, dimenticandosi che sia lo stesso uomo di The River,  anche se un più basso profilo sonoro avrebbe certamente giovato alle canzoni.

Registrato principalmente nello studio casalingo di Springsteen nel New Jersey, con l'aggiunta di alcune session in California e a New York, ci sono voluti più di venti musicisti per realizzarlo, tra cui Patti Scialfa che ha contribuito alle voci e agli arrangiamenti vocali di quattro tracce, Jon Brion  (Kanye West, Fiona Apple) che suona la celesta, il moog ed il Farfisa, David Sancious  con le tastiere, Charlie Giordano  con l'organo e  Soozie Tyrell col violino, oltre al produttore Ron Aniello che ha suonato basso, tastiere e altri strumenti. Se qualche riferimento al passato è concesso,  il ricordo va a taluni arrangiamenti di Tunnel Of Love ( ma là le canzoni erano di ben altro livello) e al pasticcio  di Outlaw Pete in WOAD,  anche se qui il carico orchestrale è imponente. Nell'iniziale Hitch Hikin' serve al coinvolgente crescendo accompagnato dalla voce di Bruce che ripete come un mantra I'm hitch hikin' all day long ma in diversi momenti è davvero eccessivo e stucchevole.  In The Wayfarer   sembra che la chitarra, il pianoforte ed una batteria metronomica aspettino l' arrivo puntuale dell'orchestrazione, mentre la melodia intona "sono un viandante che vaga di città in città, alcune persone traggono ispirazione stando davanti ad un fuoco con le pantofole infilate sotto il letto; quando tutti dormono e le campane suonano mezzanotte le mie ruote sibilano sull'autostrada".

La malinconia della canzone che dà il titolo all'album  è sottolineata dalla lap steel, ci sono stivali, canyon, coyote, tramonti, whiskey bar e John Wayne oltre all'immancabile cascata di archi e violini.  Tucson Rain è una road song costruita sul verso" il duro lavoro pulirà la tua mente ed il tuo corpo", e Sleepy Joe's Cafè  possiede l'afflato country di un viaggio tra San Bernardino ed il confine messicano  incrociando truckers, bikers e trombe mariachi.

"Guidare veloce, cadere rovinosamente, non pensare al domani, non preoccuparsi delle cicatrici, ho due chiodi nel mio tallone, una clavicola rotta ed una placca nella gamba ma riesco lo stesso a portarmi a casa". Pare Junior Bonner nel film  l' Ultimo Buscadero trasportato nel mondo delle auto ma è Drive Fast (The Stuntman), lenta e nostalgica pur con un sobbalzo a metà, inficiata dal solito carico orchestrale.
In Chasin' Wild Horses  la lap steel  evoca grandi spazi e sembra di essere capitati in una canzone dei Richmond Fontaine ma poi la grandeur da colonna sonora di un film degli ani 40 prende il sopravvento,  cosa che si ripete in There Goes  My Miracle  con " le strade sono diventate dorate, sto cercando il mio amore, ecco che il mio miracolo si allontana, l'amore, dà l'amore prende". Non pensavo di sentire tali versi in una canzone di Springsteen ma l'atmosfera Hollywoodiana lo richiede. 

I tramonti fanno parte della scenografia "anche se non è il tipo di posto in cui vuoi stare da solo. Giornate calde e notti fredde, vado da un bar all'altro qui nella città solitaria desiderando solo che tu sia qui al tramonto". Sundown è l'ulteriore immagine western di questo film, al pari di Somewhere North of Nashville, il brano più corto dell'album con un'aria vagamente Devils and Dust. C'è un violino in solitudine e ci si immagina Bruce cantarla ad occhi chiusi. Una storia di incomprensione è il motivo di Stones, "lui si sveglia al mattino come se avesse delle pietre in bocca, il vento soffia attraverso gli alberi", la ballata volutamente non decolla ma si infrange sulle bugie di lei. Il finale di Moonlight Mile lascia l'amaro in bocca per cosa avrebbe potuto essere e non è. Lenta e dolente con arrangiamenti finalmente leggeri ed una pedal steel che è dolce malinconia lambisce i confini del folk, la voce di Bruce mai così umana fa la radiografia dell'anima. Può essere che un unico, o quasi, ascolto in anteprima non permetta un giudizio più approfondito ma fossero state tutte così le Western   Stars  non si avvertirebbe una palpabile sensazione di imborghesimento pop.

 

MAURO  ZAMBELLINI    MAGGIO 2019  

 
 
 
 
 
 

sabato 4 maggio 2019

THE DREAM SYNDICATE THESE TIMES


Poteva essere un episodio a se il potente ritorno dei Dream Syndicate di How Did I Find Myself Here? ma evidentemente non è stato così, l'ottima accoglienza del disco e i concerti che sono seguiti hanno rimesso in moto una delle macchine migliori del rock californiano passato e recente. Mai pago di se e della sua musica, costantemente alla ricerca di qualcosa di nuovo, il vulcanico Steve Wynn, l' autentico regista della reunion, ha riportato i compagni di ventura ai Montrose Studio di Richmond in Virginia e con la produzione del fidato John Agnello ha registrato These Times, album che presenta  differenze sostanziali rispetto al precedente acclamato lavoro. In primis Steve Wynn ha scritto i testi dei brani dopo che la band aveva finito di registrarli, in questo modo le liriche sono state dettate dai suoni ed un attento ascolto del disco conferma come le parole siano dipendenti dal sound e non viceversa, come spesso invece succede per l'opera di un songwriter. Ma qui, in campo, c'è una rock n'roll band e la cosa è evidente perché se da una parte Wynn è il maestro di cerimonia, dall'altra c'è un collettivo in grado di creare un sound che in questo frangente ha imposto uno scatto in avanti rispetto al proprio  standard stilistico. Come ha affermato lo stesso Wynn, These Times è un disco profondamente diverso da How Did I Find Myself Here? e se quello era un album per le ore serali, tutto spacconerie ed esplosioni catartiche, questo These Times è l’album gemello per le 2 del mattino, più malinconico e variabile, con la band che si muove come fosse il dj di una trasmissione notturna, mentre l’ascoltatore si lascia andare ai sogni chiedendosi, il giorno dopo, se qualcuno di questi fosse reale". Steve Wynn ha aggiunto  di essere stato influenzato da Donuts del dj, polistrumentista e rapper di Detroit J Dilla e dal modo con cui questi si è approcciato alla musica, come un collezionista che vuole distorcere e fare sua la musica da lui preferita. Acquisito tale atteggiamento, Wynn si è cimentato con oscillatori, sequencer, drum machine, loop, qualsiasi aggeggio potesse essere utile per deviare dal suo usuale modo di comporre musica ,"facendolo sentire come se stesse lavorando ad una compilation piuttosto che alla medesima stessa cosa ".

 
Il risultato è un disco che impone uno scarto rispetto al consolidato e apprezzato all guitars rock dei Dream Syndicate ed introduce variabili che pur non entrando in contrasto con il riconosciuto stile della band, occhieggiano verso un suono più futuristico e spaziale dove l'elettronica, comunque ben dosata e controllata, crea un immaginario proiettato ben oltre il crudo realismo rock urbano delle opere precedenti. Già in passato in qualche suo lavoro solista, Wynn aveva "aperto" a tali innovazioni, qui il lavoro è più ampio, già dall'inizio con The Way Inn e Put Some Miles (non perdetevi lo splendido video di quest'ultima con quei riferimenti jazzistici in contrasto con gli echi alla Wall of Voodoo del brano), il suono riverberato, distorto e atmosferico rende l'idea di cosa siano Questi Tempi per la band di Los Angeles.  Ovvero un flusso inarrestabile di immagini e flash, versi e parole su tutto ciò di cui si parla e si pensa oggi, un'opera moderna su un mondo che sta rapidamente precipitando, evolvendosi (?) e cambiando in modo così celere e brusco, lasciando però alle spalle anche macerie e miserie. I testi dell'album sono uno specchio del terrore, del panico, delle ossessioni, della speculazione, della malinconia ed in ultima analisi della follia umana che segnano i nostri tempi, These Times suona come un disco di rock apocalittico con il coraggio di guardare in faccia ai cambiamenti, Per questo i Dream Syndicate sterzano di quel tanto per rinnovare il loro abituale format e raccontare in modo pur frammentario e atomizzato questa deriva. Se ballate come Bullet Holes ci consegnano il vecchio e consolante romanticismo insito nel loro rock, pur con le oscurità di un pessimismo che Wynn non ha mai nascosto, Recovery Mode sembra uscire da uno dei  dischi solisti di Wynn e Speedway è una forsennata corsa sulle strade del vivere e morire a Los Angeles, con quella carica anfetaminica che contraddistingueva l'anomalo punk dei Dream Syndicate.
 

Still Here Now, specie nell' inizio, evoca la grandeur del loro rock epico, quei brani che ci hanno fatto innamorare di un America hard-boiled zeppa di peccato, in particolare qui il ricordo va alla grandiosa Merrittville, ma altri titoli del disco spingono verso un suono  che ricorda nelle innovazioni gli War On Drugs e nel passato lo space rock degli Hawkwind. Così gli oscillatori caratterizzano i toni dark e post-rock di Black Light mentre, lo sperimentalismo kraut di Treading Water Underneath The Stars, in realtà il pezzo più debole dell'album, serve ad un racconto su un futuro angustiato dalla guerra per l'acqua. L'incalzante Put Some Miles si avvale invece di una batteria ( Dennis Duck) mai  così metronomica e di un basso ( Mark Walton) a diro poco ossessivo, sessa ritmica della magnifica The Whole World il cui intro prepara ad un rock atmosferico in cui è facile lasciarsi irretire dal brillante lavoro di tastiere (Chris Cacavas), le quali per tutto l'album hanno un ruolo importante e si amalgamano al feedback e al riverbero delle chitarre di Wynn e alle svisate psichedeliche di Jason Viktor componendo un  sound meno chitarristico che in passato, un sound che testimonia della volontà dei Dream Syndicate di essere nel presente. Ancora una volta loro non devono niente a nessuno e cavalcano i These Times con una coerenza da far paura, mettendo le loro chitarre, i loro ritmi e la loro poetica visionaria a contatto con lo stridore e la confusione di un mondo che ha davanti a se più nebbia che speranze. Tanto di cappello.

 

MAURO ZAMBELLINI     APRILE 2019