
Magistrale, straordinario, sono i due aggettivi che mi vengono in mente dopo aver assistito al concerto di John Hiatt and the Combo all’Auditorium, una venue finalmente all’altezza delle esigenze acustiche degli appassionati e dei paganti, un teatro completamente rivestito di pannelli di legno dove le onde acustiche trovano la loro collocazione migliore sovrapponendosi, interferendo e riflettendo nel più armonico dei modi. Ci voleva un ambiente simile per premiare un set eccellente come quello di John Hiatt che col bassista Patrick O’Hearn, il bravissimo chitarrista Doung Lancio e l’amico di cordata, il batterista Kenneth Blevins ha dato vita ad un concerto intenso e romanticamente old time valorizzando con un sound asciutto e chitarristico il suo ricco songbook. Titoli ormai diventati dei classici estratti dai suoi album del passato (in particolare Bring The Family, Slow Turning e Walk On) e brani recenti, quelli dell’acclamato The Open Road hanno beneficiato di arrangiamenti che li hanno rivitalizzanti secondo una veste ora semiacustica con tanto di chitarra del leader e mandolino da parte di Lancio (ad esempio una Crossing Muddy Waters pregna di umori country-blues ed una Tennessee Plates tirata country-rock) oppure sono stati macerati in un denso schiumare di blues come nella scura Like A Freight Train e nella delirante Memphis in the Meantime, uno degli assoluti highlights dello show. Un suono bluesato ha caratterizzato l’esibizione di Hiatt reso ancor più evidente dalla sua voce negroide ma anche uno sferragliare di chitarre rock quando si è assistito ad autentiche improvvisazioni strumentali come il lungo alla U2 di Real Fine Love o il finale jammatissimo di una colossale Riding With The King dove sembrava di avere di fronte (look permettendo) gli Stones dell’era Sticky Fingers.
Hiatt e si suoi soci hanno saputo stravolgere le canzoni in senso positivo offrendo loro quella dimensione live che è poi quella che si chiede quando si va ad un concerto e non ci si accomoda in poltrona ad ascoltare il disco in studio. Fenomenale l’intreccio delle chitarre, l’ acustica e la Telecaster di Hiatt e le numerose usate da Doug Lancio, un vero mago delle sei corde che si è sbizzarrito ora con le Gibson, ora con le Fender, ora con anonime e colorate cheap guitars, ora con una meravigliosa Gretsch di color arancio dal suono fifties, ogni volta aggiungendo sapori e delizie a canzoni che già di per sé sono dei capolavori. Perché la bravura di Hiatt al di là della sua voce forte, profonda, espressiva che si alza e abbassa di tonalità in un gioco di chiaro scuri sorprendenti che consente di passare dalle confidenza da crooner all’urlo del R&B e poi alle profondità del blues e della sua capacità di stare in scena come performer è proprio la ricchezza del suo scrivere, una serie impressionanti di storie, immagini e personaggi che da sole potrebbero raccontare l’avventura dell’animo umano. Canzoni diverse l’una dall’altra, ognuna riconoscibile, memorizzabile, tutte ricche di anima e sentimento. Sia che siano ballate del cuore come l’uggiosa Feels Like Rain, come la forte Cry Love, come la bucolica Walk On e come una riveduta Have A Little Faith con la chitarra, sia che siano quelle scoppiettanti cavalcate di Drive South, Perfectly Good Guitar, The Open Road, Slow Turning che offrono il lato più selvaggio e stradaiolo di Hiatt.
Tanti gli applausi ricevuti dall’artista e dal suo combo e tanti i ringraziamenti dell’artista verso un pubblico niente affatto numeroso, unico neo di una serata indimenticabile.
Mauro Zambellini Ottobre 2010