lunedì 7 marzo 2011
Lucinda Williams part 2
(continua)
LUCINDA WILLIAMS si esibì per la prima volta dal vivo come folk singer a Città del Messico nel 1970 , si presentò come Cindy Williams & Clark Jones assieme ad un compagno di scuola che suonava il banjo. Il “turning point”della sua carriera avvenne però a New Orleans dove Lu si trovava in vacanza. Venne ingaggiata in un bar di Bourbon Street come folk singer per esibirsi tre o quattro sere la settimana, fu la fine della sua avventura scolastica e l’inizio di una faticosa carriera musicale. Da New Orleans raggiunse San Francisco dove sembrava che il mondo dovesse cambiare da un giorno all’altro ma arrivò quando la summer of love era chiusa da un pezzo e circolavano più menti bruciate dalla droga che idee. Delusa, nel 1974, si rifugiò nella più tranquilla Austin. “Era tutto magico e meraviglioso ad Austin, forse era come San Francisco negli anni sessanta ma più bluesy. Si viveva con poco, era economica e confortevole, abitavo con dei ragazzi che mi ospitavano a casa loro, bevevamo latte, mangiavamo cibi naturali, fumavamo marijuana e prendevamo funghi allucinogeni. Suonavamo per gli spiccioli all’angolo della strada e poi lavoravo come cameriera in un bar. Una band chiamata Uncle Walt’s Band mi prese sotto la propria protezione e mi diede la possibilità di aprire i concerti per loro. Avrei potuto stare lì per sempre ma poi ad Austin la scena cambiò in quello che venne chiamato cosmic cowboy sound. Andavano di moda le band e per i cantautori fu scelta obbligata trasferirsi ad Houston dove gente come Lyle Lovett, Nancy Griffith, Eric Taylor e Vince Bell stavano creando qualcosa di nuovo. Erano dei folk singers molto hippy chic e non era facile inserirsi nel loro giro. Io avevo problemi a trovare un contratto discografico perché la mia musica era più ruvida, si dibatteva tra country e rock e non era chic come la loro”.
Nel 1978 Lu si sposta ancora e va a Jackson nel Mississippi dove registra finalmente il suo primo album per la celebre etichetta folk Smithsonian/ Folkways, Ramblin’On My Mind poi ribattezzato semplicemente Ramblin’ a cui tre anni dopo fa seguito , Happy Woman Blues.
L’avventura di Lu sembra destinata a quell’anonimato che contraddistingue l’epopea di tanti (bravi e sfigati ) alias Dylan americani quando qualcosa succede. Dopo otto anni di false partenze e una miriade di piccole esibizioni, nel 1984, l’artista si ritrova nel posto giusto al momento giusto ovvero a Los Angeles in pieno Paisley Underground. Band come Lonesome Strangers, Rain Parade, Dream Syndicate e Rank&File vedono di buon occhio che una cowgirl del sud apra i loro concerti con una chitarra acustica e tanta rabbia. Il nome di Lucinda Williams comincia a fare il giro della città e della nazione e nel 1988 l’etichetta inglese di orientamento punk Rough Trade le offre l’occasione di incidere un nuovo disco. L’omonimo Lucinda Williams non fa sfracelli ma le regala “un biglietto di prima classe a Nashville” dato che Patty Loveless porta nelle top twenty delle classifiche country The Night’s Too Long e Mary Chapin Carpenter si prende un Grammy con la versione di Passionate Kisses, due canzoni di quell’album. Qualche anno più tardi Emmylou Harris “coprirà” Crescent City e Sweet Old World e il seminole rock Tom Petty offrirà una robusta rilettura di Changed The Locks, grintosa canzone sulla fine di una relazione amorosa che nella versione originale consentì alla Williams di entrare nella heavy rotation delle radio nazionali.
Con la strada in discesa, Lu non pensa però minimamente di smussare il suo temperamento tempestoso e anticonformista e non scende a patti col mondo discografico. Troppo rock per essere country e troppo country per essere rock sceglie una indie, la Chameleon per pubblicare Sweet Old World, un disco triste e per nulla nashvilliano, con meditazioni sulla morte, sul rimpianto e la fine delle relazioni. Temi da sempre cari al suo bagaglio emotivo e culturale ma che all’inizio degli anni novanta stridevano negli induriti paesaggi del rock e nello zuccheroso mondo country. In pratica gli stessi contenuti che daranno anima a Car Wheels On A Gravel Road, apprezzati in quel disco nella loro sincerità sentimentale anche per via di un netto miglioramento a livello musicale e vocale, con canzoni di oscura bellezza che parlano di persone ordinarie che fanno cose ordinarie ma rendono questi momenti straordinari.
L’album riceve grandi lodi dalla critica e viene premiato con un Grammy come best contemprary folk album del 1998, oggi ristampato in una elegante edizione deluxe è unanimemente riconosciuto come il capolavoro dell’artista.
Con l’introspettivo Essence del 2001 Lu dà fondo al suo approccio lirico minimalista cercando l’ “essenza” della canzone in una semplicità melodica che lascia attoniti. Disco interiore e plumbeo, spartano nei suoni e negli arrangiamenti, Essence è permeato dagli umori profondi del sud e da una religiosità che vede Dio ed il diavolo incontrarsi sulle miserie di una sottocultura sottoproletaria che sembra uscita dalle pagine de La Bibbia ed il Fucile lucido libro di Joe Bageant che mette a nudo le miserie e la desolazione dell’America profonda.
Decisamente più elettrico dal punto di vista del sound è invece World Without Tears del 2003, un disco in cui ancora abbondano le sue intense e crepuscolari ballate ( Ventura, Fruits of My Labor, Overtime, Minneapolis) ma in più ci sono chitarre degne dei Rolling Stones (Real Live Bleeding Fingers and Broken Guitar Strings), battute boogie alla John Lee Hooker (Atonement), distorsioni elettriche e un talking blues che suona come una recitazione da poeta della Beat generation (American Dream ) anche se sono in molti a confonderlo in un rap.
Live @The Fillmore del 2005 è un doppio album live di quelli che si facevano negli anni 70 ovvero chitarre a palla, suoni crudi ed una voce che è rabbia e dolcezza, estasi e furore, grinta e abbandono. Spettacolare il chitarrista Doug Pettibone, un animale della sei corde capace di dare alla Williams un sound rock degno dei migliori Rolling Stones, intensa la Williams che canta come se fosse una questione di vita o di morte. Ma il viaggio della Williams non finisce sullo storico palco del Fillmore perché altre rivelazioni e emozioni sono contenute in West forse il suo disco più innovativo a livello sonoro. West nasce dalla disillusione di un amore andato a rotoli, una relazione importante finita e dal dolore per la morte della madre. Eventi cupi che l’artista metabolizza in un lavoro che qualcuno potrebbe definire catartico se non addirittura liberatorio. Ci sono armonie bucoliche, flash visionari degni del Neil Young più desertico ( Unsuffer Me), ritmi ipnotici (Wrap My Head Around That) costruiti attorno alla serpentina chitarra dell’eclettico Bill Frisell, meditabondi girovagare intorno a melodie che diventano una ossessione (Rescue), suoni rarefatti ed eterei (What If) che sembrano usciti da una produzione di Daniel Lanois , c’è Hal Willner (Costello, Lou Reed) come produttore e ci sono canzoni che sono di una malinconica bellezza senza scampo.
Il seguente Little Honey del 2009 con il nuovo produttore Eric Liljestrand sterza verso roots-rock disincantato e libero, meno elegante rispetto al precedente lavoro ma spartano e diretto, con decise puntate hard-rocking che richiamano lo stile senza fronzoli di World Without Tears. Affiora il rumore di una band che è la quintessenza di quelle strade impolverate del sud tanto decantate dalla Williams, poco avvezza alle raffinatezze ma in sintonia con quel misto di folk, blues e rock che costituiscono le radici dell’artista : Bob Dylan e Lightin Hopkins, i Cream e i Rolling Stones, Robert Johnson e Memphis Minnie.
Per la prima volta la Williams sembra aver lasciato da parte quelle sue ballate di oscura introspezione che l’hanno resa famosa, per rivolgersi all’esterno, ai temi delle relazioni umane e dell’amore con un ottimismo mai provato prima Come afferma la stessa autrice, Little Honey è più luminoso rispetto ad altri suoi lavori ed il suo blues qui irradia una luce diversa. Ciò non toglie che l’introspezione e le ballate siano nel dna della sua musica, basta aspettare Blessed per ritrovarli in quella che è l’opera di maggior equilibrio dell’artista, ennesima conferma di un autrice e rocker degna di sedersi a fianco di Dylan, Springsteen, Young, Petty, Mellencamp e Steve Earle.
MAURO ZAMBELLINI
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