martedì 27 settembre 2011

Israel Nash Gripka > 2011 Barn Doors Spring Tour, Live In Holland


Nel giro di qualche anno è passato da benemerito sconosciuto a fulgida promessa della canzone d’autore rock. Figlio di un pastore battista, Israel Nash Gripka è prima emigrato dalle scure Ozark Mountains alle luci di New York dove ha debuttato discograficamente nel 2009 con l’album New York Town disco acerbo ma contenente un paio di ballate da brivido come Evening e Pray For Rain.  E’ stata però la disastrata vecchia Europa ad adottarlo pubblicandogli grazie alla piccola ed indipendente Continental olandese i suoi tre dischi tra cui questo 2011 Barn Doors Spring Tour, Live In Holland.
Israel Nash Gripka è un talento di razza ed il suo stile non si discosta molto da quello dei vecchi rocker della lost generation (Murphy, Nile, Forbert...) ovvero una solida base folk necessaria per scrivere ballate convincenti e romantiche che arrivano dirette al cuore ed una voce che mischia disperazione, rabbia e voglia di riscatto. La tonalità della sua voce non passa inosservata, se poi ci aggiungete la caparbietà di chi, giovane, se ne infischia dei rumori di moda e di cosa piace ai propri coetanei ma segue solo il proprio istinto e le proprie passioni beh allora avrete uno di quegli storyteller elettrici capaci di farvi perdere la testa per un po’ di tempo.
Israel Nasha Gripka esce dal nulla della profonda provincia americana con un pugno di sogni fatti della stessa pasta di cui erano fatte le canzoni che insonorizzavano una New York di serenate al neon e di vagabondi stregati dalla luna. Non è però né un clone né un passatista Gripka,  già nella sua opera d’esordio metteva in mostra canzoni di una freschezza straordinaria, roba da far roteare le emozioni come quando la prima volta ascoltai Heartbreaker di Ryan Adams.  Adesso dopo l’esordio di New York Town arriva Live In Holland trasposizione dal vivo del secondo disco Barn Doors and Concrete Floors’, estratto di un suo concerto olandese e consacrazione di un talento non comune, uno show schietto, sanguigno, teso  che conferma la regola principe del rock n’roll ovvero se hai una canzone che funziona e l’attitudine giusta tutto il resto sono panzane. Qui c’è quello che serve per amare un disco “minore” di rock n’roll  ovvero brani nervosi e tirati, ballate romantiche, chitarre acustiche e rasoiate elettriche, una voce che si distingue ed una sezione ritmica cattiva. Basta ascoltare l’iniziale Fool’s Gold, un titolo che mi rimanda nostalgicamente al Graham Parker di Heat Treatment  per capire che 2011 Barn Doors Spring Tour, Live In Holland è un disco che rimarrà a lungo nel lettore e si finirà per cantarlo in macchina a squarciagola, soli o in compagnia. Le emozioni si agitano immediatamente, il battito cardiaco accelera,  l’armonica è quella di Dylan, la voce è arrabbiata e solenne, il suono è il prodotto di quarantanni di ballata elettrica urbana, dietro la chitarra acustica c’è l’assolo di chitarra tanto grezzo quanto necessario perché prove it all night  non è solo il titolo di una canzone ma una scuola di pensiero. Antebellum è younghiana più di Young ma la voce è catrame che ti si appiccica addosso e le chitarre elettriche suonano come i Green On Red nei loro giorni di gloria. Four Winds ha il refrain per diventare un cult,  Sunset, Regret  occhieggia a Steve Earle ma ha la leggerezza della gioventù, Evening è un canto folkie che si apre come fosse farina dei Mumford and Sons ma poi soggiace ai colpi di una band cresciuta nell’heartland del rock n’roll,  Pray For Rain è un incanto.  L’ossatura dello show è  costituito dai brani di Barn Doors and Concrete Floors,  da lì arrivano la stoniana Louisiana  e la nostalgia anni ’70 di Baltimore  dove Israel Nash Gripka e i suoi punksters ovvero  il chitarrista Joey McClellan, il bassista Aaron McClellan, il batterista Josh Fleishman,  Eric Swanson(mandolino)  e l’altro chitarrista Chris Holston preparano il vibrante finale ovvero una acida e sferzante resa di Revolution Blues di Neil Young, il grande vecchio che aleggia dietro ai suoni di questo giovane ribelle urbano.

MAURO ZAMBELLINI        SETTEMBRE 2011


domenica 18 settembre 2011

Come il Rock ci ha salvato la vita


Come il rock ci ha salvato la vita è un libro che si legge come un long playing, c’è il lato A ed il lato B e raccoglie una serie di scritti di autori diversi aventi come comune denominatore il grande potere consolatorio ed emotivo della musica, in particolare del rock. E’ stato ideato e curato da Fabio Fedrigo e Roberto Muzzin per la piccola e coraggiosa editrice L’Ippogrifo di Pordenone e conta sui contributi offerti dai più disparati autori:  giornalisti, musicisti, cantanti, bluesmen, cantastorie, social rocker, ristoratori anarchici, periti metal(rock)meccanici, studentesse, artigiani, storici, psicoanalisti, tutti rigorosamente poco noti ma ricchi di spirito.
Il libro è stato realizzato nel 2010 ma l’idea viene da lontano, dalla metà degli anni ’80 quando in Italia, paese refrattario a simili fenomeni, si cominciò a formarsi un insieme di individui che ben presto diventò un popolo che non era semplicemente fruitore di musica e consumatore di dischi come lo potevano essere collezionisti e puristi maniacali del vinile ma un popolo che si  identificava emotivamente nella musica che ascoltava, in particolare il rock n’roll. Non era il gesto ribellistico e spesso ingenuo al conformismo degli anni ’50 consumato con i jeans e il ciuffo di capelli dei rockabilly e nemmeno i capelli lunghi dei beat e i fiori e le collanine degli hippies, identificazione estetica con gli artisti del sex and drugs and rock n’roll degli anni ‘60//70, no, era qualcosa di nuovo e più profondo che avrebbe costituito una piccola e sotterranea rivoluzione culturale tanto che dalla musica si passò a  collegamenti con la letteratura e con il cinema, specie quello americano crepuscolare della new-Hollywood  che non faceva apologia di american dream ma rovistava nelle pieghe di quel sogno in cerca di eroi che erano losers and loners. Qualcuno non colse, altri capirono benissimo : mai prima o perlomeno non in modo così netto e radicale era stato riconosciuto al rock un esplicito valore culturale tale da poter rispondere, non tanto o solo d’un influenza artistica, bensì di una formazione soggettiva. I testi delle canzoni avevano la loro importanza, come fossero messaggi di filosofia del vivere o poesie ma non era questo il nodo perché si potevano anche non capire le parole e come scrisse Wim Wenders “ascoltare per anni i Rolling Stones senza sapere di cosa parlassero. La loro forza evocativa era insuperabile.”
Si cominciò a usare il NOI, una moltitudine di individui si riconosceva in una comunità in cui i sogni facevano da legame, contava l’emozione che si provava per un disco, un concerto, un film, ritmo e letteratura divennero nutrimento per corpo e mente. Si formava un modo di vedere il mondo, veniva a crearsi una idea della vita in cui il rock n’roll era un modo di vivere la vita, di avvicinarsi alle cose, dare un senso al diventare adulti, crearsi una realtà parallela non artificiale, salvarsi la vita con la mente e perché no, quando le corde della Fender tremavano di eccitazione, anche coi sensi. Corpo e mente, niente di meglio e di più definitivo. Il paradiso qui in terra, adesso, con una band che suona rock n’roll, un songwriter che sussurra amore e dolcezza ed un ragazzo della porta accanto che urla no surrender.
Molti artisti vennero presi ad identificazione di questa nuova emotività collettiva, l’ascesa di Springsteen coi suoi dischi, le sue canzoni e i suoi concerti fu il simbolo, per qualche tempo, di questo rinascimento e ci furono giornali, in particolare il Mucchio Selvaggio e poi qualche tempo dopo il Buscadero, che fecero da catalizzatore di questo nuovo soggetto culturale con articoli appassionati nel quale chi scriveva si sentiva appartenere a questo popolo e si identificava, qualche volta a scapito della obiettività di giudizio, nelle parole e nei suoni della musica per cui scriveva. Era la consapevolezza che il rock poteva salvarci, rendere sopportabile il quotidiano e la realtà, legittimare i sogni e portare luce nella nostra esistenza. Non era fede, ma quella laica spiritualità del vivere che nel bene e nel male, nelle sconfitte (tante) e nelle vittoria (poche) ci ha mantenuto giovani dentro.
Come il Rock ci ha salvato la vita lo potete richiedere alla Libreria al Segno Editrice (tel.0434 520506) ed è stato presentato in via “ufficiale” il giorno 15 settembre al Festival Pordenonelegge. Erano circa duecento le persone accorse alla vivace ed informale presentazione/dibattito che ha visto coinvolti giovani (tanti) e meno giovani in un dibattito sul rock, i sogni  e le emozioni che ha spaziato dagli albori del beat ai giorni nostri. In veste di moderatori ( e di veterani di quel popolo del rock) erano presenti il fondatore del Mucchio Selvaggio Max Stefani, il giornalista del Gazzettino Veneto e musicista Gio Alajmo, il sottoscritto e naturalmente i due curatori Fabio Fedrigo e Roberto Muzzin, instancabili depositari di una cultura di strada diventata letteratura.

MAURO ZAMBELLINI

mercoledì 14 settembre 2011

Counting Crows > August And Everything After Live At Town Hall



E’ sempre più raro imbattersi in un live degno di tale nome forse perchè circolano in rete tanti concerti che gli artisti hanno perso la voglia di fare dei live ufficiali come una volta. Si differenziano i Counting Crows che buttano sul mercato in formato CD, DVD e Blue Rays questo sfavillante Live At Town Hall con cui in tempi recenti hanno omaggiato il loro album d’esordio, quel August and Everything After che conteneva alcune delle più belle canzoni degli anni novanta, pezzi come Mr. Jones, Omaha e Rain King. Il gruppo si è ritrovato a New York e ha eseguito per intero quel disco seguendo quasi pedissequamente la scaletta originale dell’album con la sola eccezione di unire in medley l’iniziale Round Here con la strepitosa Raining In Baltimore. Il risultato è un disco a dir poco eccezionale, intenso, lirico, forte, vissuto fino all’ultima nota, poetico, con un Adam Duritz che inizia parlando e finisce travolto dalla musica dei Counting Crows in una delirante versione di A Murder of One dove la band dimostra contemporaneamente di essere una grande rock n’roll band e di avere qualità per competere coi grandi autori di canzoni della scuola Dylan/Springsteen/Young. Sebbene il loro disco d’esordio, August and Everything After, vivesse soprattutto per il successo radiofonico di Mr. Jones  questa resa dal vivo conferma la bontà dell’intero album con versioni allungate, rivisitate, jammate, pregne di quel pathos che la voce messianica di Duritz  le conferisce. Una delle dimostrazioni più evidenti è la lunga esecuzione di Rain King otto minuti di ballata rock con echi irlandesi e roots con i versi della canzone originale che si sovrappongono e si fondono ad un certo punto con una personale ripresa di Thunder Road di Springsteen in quello che è uno dei momenti migliori di simbiosi tra due generazioni di rockers, un momento altamente significativo ed intenso  dove è facile farsi trasportare dall’enfasi e rabbrividire per tanta bellezza. Il rock è lungi dal morire perché Adam Duritz e i suoi Crows con questo disco affermano che non ci sono barriere di età e di genere quando le canzoni funzionano, le chitarre mordono, il piano intona la sinfonia, la ritmica pesta duro ed una voce urla rabbia e sussurra dolcezza in quella che è la nostra musica lirica, la nostra boheme, la  soundtrack di un sogno iniziato tanto tempo fa. Che siano i Counting Crows a tenere in vita questo sogno non è una novità perché la loro discografia ha messo in evidenza una qualità eccelsa sia nella scrittura delle canzoni sia nel calore e immediatezza delle loro performance (si ascolti l’ottimo New Amsterdam del 2006) magari non perfette e calibrate ma in grado di trasmettere tutta l’urgenza e la poesia del rock n’ roll. Anche in questo Live At Town Hall la loro macchina non è cromata e lucidata come una fuoriserie da museo ma un mezzo solido, potente, affidabile per far viaggiare a mille canzoni che sono cuore e sensi, sangue e lacrime, estasi e passione, luce e oscurità. Difficile dire cosa sia meglio in questo live, certo è che Sullivan Street con la lunga introduzione di Adam Duritz sembra quello che faceva Springsteen nel tour del ’78, assolo di chitarra compreso e Anna Begins è un talking sincopato con il divino mandolino di David Immergluck, uno dei tre chitarristi della band assieme a Dan Vickrey e David Bryson, che rivela di una band a proprio agio anche con liriche tortuose e ritmi frammentati, per non dire di una rockata e allucinata Ghost Train che mette a riposo anni di REM con Charles Gillingham impazzito all’organo e Duritz che viaggia nel suo delirio  vocale e la conclusiva  A Murder Of One nella quale ognuno, Duritz, Crows e pubblico, ha lasciato andare i freni verso quella che è una discesa nella più pura apoteosi del rock n’roll.
Naturalmente ci sono anche Omaha e Mr. Jones.

MAURO ZAMBELLINI