Sono girate moltissime recensioni, riflessioni e
commenti a riguardo di Western Stars, ultimo disco di Springsteen che ha mosso
le acque attorno alla sua musica come non succedeva da tempo. Ne è stato
investito anche il mio piccolo blog che da una media di 5/10 commenti per post
si è passati a più di 60 commenti a margine della mia recensione del disco,
tutti improntati ad opinioni e punti di vista critici o emotivi, spesso
divergenti ma sempre civili ed educati. Grazie di cuore a chi vi ha partecipato.
C'è comunque un secondo tempo, è con mio piacere che pubblico la seguente
riflessione scritta dall'amico MARCO DENTI, redattore part time del Buscadero e free
lance a 360 gradi, che reputo tra le più approfondite, analitiche e circostanziate
lette in questi giorni sui media nazionali. Buona lettura.
M.Z
Come i
personaggi che cerca ancora di raccontare, Springsteen è incastrato in un
meccanismo da cui non sa o non vuole uscire. Questione di status, più che di
soldi, ma Springsteen non è soltanto il troubadour che viene a raccontarci le
sue storie, è un onesto lavoratore con scadenze e impegni da rispettare. Un
argomento di cui è vietato parlare, ma che ha un peso specifico non relativo
sull’esistenza di Western Stars , e anche sulla sua peculiare natura. Di
fatto dopo il famigerato contratto da cento milioni di dollari del 2005,
Springsteen ne ha rinegoziato un altro (con un anticipo di trenta milioni) che
prevede, dal 2015 al 2027 13 album (esattamente uno all’anno) di cui 4 di
inediti in studio. La tabella di marcia è stata rispettata per quanto riguarda
i box retrospettivi (il primo era The Ties That Bind: The River Collection
, seguiranno in ordine sparso Born In The USA , Nebraska e
qualcosa di molto simile a Tracks 2 ) e i dischi dal vivo (saranno
cinque, il primo è stato Broadway , con risultati non esaltanti) con il
fuori programma di Chapter & Verse . Per inciso, e per avere una
vaga idea delle dimensioni del patteggiamento totale, Springsteen ha ottenuto
di poter continuare a pubblicare i “live” digitali, a sua discrezione, e ha
imposto una rigorosa verifica delle royalties da tutti i paesi in cui è
distribuito al netto delle tasse e della fiscalità di ogni nazione. Immagino le
parcelle degli avvocati, ma questo (e non un altro) è il mondo in cui vive
Springsteen. Un mucchio di soldi, e un sacco di dischi da mettere
insieme. Quelli in studio dovevano arrivare alla media di uno ogni tre
anni (i calendari non sono un’opinione), ma già il primo, Western Stars, salta
il turno, arriva in ritardo e segna una sorta di linea di demarcazione. Nei
prossimi otto anni, Springsteen dovrà incidere altri tre album in studio,
partorire tre box e quattro dischi dal vivo. È qualcosa in più di un album
all’anno: è una catena di montaggio. Questa, con un pizzico di realismo, è la
condizione di Springsteen, oggi. Lasciamo perdere le questioni personali e
autobiografiche. Non facciamo finta che Springsteen sia il profeta che viene a
raccontarci cosa sta succedendo in America (e comunque non lo sta facendo). In
tutta onestà, Springsteen gioca in un ruolo che si è scelto e questo, per dirlo
con le sue parole, è il prezzo di pagare. La libertà ha un altro valore, e
chiedete a John Mellencamp che negozia disco per disco (e i risultati sono lì
da vedere). Western Stars è il primo album di inediti del nuovo
contratto, proprio come High Hopes (ricordate?) era l’ultimo tassello
della precedente trattativa. È un disco montato ad arte attorno a un concept
(attenzione, non a un concept album) che è stato sviluppato per sommi capi,
seguendo delle indicazioni altalenanti e qualche falsa pista. C’è stato un
grande lavoro (persino eccessivo) nel creare attorno a Western Stars
un’aura che ha generato commenti con un’enfasi pari soltanto a quella del
disco, ma è tutto frutto di quel concept che Springsteen ha prima annunciato
come un album di “pop californiano” (qualsiasi cosa significhi) e poi, grazie a
una sottile e pervicace campagna di marketing, ha indirizzato verso il West in
generale. Quando sono apparse le prime foto su Instagram, pensavo fossero le
testimonianze di un bel viaggio (necessario) dopo la routine di Broadway e,
invece no, erano già le avvisaglie di una serrata campagna promozionale che,
passando per i videoclip, il ridondante comunicato della Columbia (che ha
dettato la linea), le interviste/confessioni le sta provando tutte per
“posizionare” il disco (una catena di centri commerciali ha persino riempito
gli scaffali di finti Western Stars in attesa dell’uscita). Lo stesso
Springsteen si è prestato a interpretare il concept di Western Stars con
ogni ammennicolo del caso (cappello, stivali, giaccone), ma qui l’abbaglio è
plateale, se lo si vuol vedere. Già dal titolo, Springsteen gioca con uno dei
grandi miti americani, il West, ma la sua visione è da cartolina, limitata, e
anche un po’ troppo patinata (in questo molto legata alle sonorità scelte con
Ron Aniello). Una svista non da poco, che pare fare il bis con quella, a suo
tempo, della location di Broadway. Già il West in sé è stato prima un
ladrocinio brutale nei confronti dei nativi americani, poi una truffa
conclamata ai pionieri, per non dire della corsa all’oro. Oggi è una una terra
devastata a livelli apocalittici nell’ambiente (la California) e nell’umanità
(i confini con il Messico). Di quale West parli Springsteen non è chiaro, di
sicuro non è quello di Cormac McCarthy o di Larry McMurtry. L’unico nome che
affiora, e proprio nella stessa Western Stars , è quello di John Wayne,
perfetto interprete di un West posticcio, e se un indizio non fa una prova,
rimane pur sempre un bel punto di domanda. Tutto lì? Restano i contorni
paesaggistici, l’alone dei panorami al tramonto che dovrebbero e/o potrebbero
coincidere con una condizione esistenziale, ma è un West del tutto arbitrario
che purtroppo altri hanno saputo sviscerare in modo molto più convincente, dai
Wall of Voodoo di Call Of The West a King Of California di Dave
Alvin per non dire di un qualsiasi album di Tom Russell. In Western Stars
, l’effetto, grazie anche alla colonna sonora cinematica, è quello di una serie
di fotogrammi in technicolor, affascinanti, ma un po’ sgranati, dove si possono
cogliere brevi e intensi momenti strumentali, ma la visione d’insieme, per
quanto si tratti di un disco uniforme e coerente come non capita da tempo a
Springsteen, non è per niente approfondita ed è limitata a piccoli dettagli che
dovrebbero costruire le singole storie, ma che si limitano a essere particolari
sparsi. Suggestioni, impressioni, frammenti: le canzoni reggono a forza di
cliché e di luoghi comuni e il principio narrativo “kick the stone”, ovvero
prendi un personaggio, mettilo sulla strada e guarda un po’ cosa succede, a
volte funziona, a volte no. Ma non è quello il punto: le caratteristiche dello
stuntman ( Drive Fast ), dell’autostoppista ( Hitch Hikin’ ), del
viandante ( The Wayfarer ), dell’attore ( Western Stars ) e, buon
ultimo, del songwriter ( Somewhere North of Nashville ) sono un’altra
cosa rispetto all’America blue collar di Springsteen dove, bene o male,
magari non si arrivava a nessuna terra promessa, ma un approdo comunque lo si
trovava. Se non altro, anche nei momenti più cupi, restava una “reason to
believe”. Questa è la vera differenza, e forse anche la vera novità: Western
Stars è frequentato da gente che non torna a casa, che è molto distante da
se stessa e che, in definitiva, si è arresa. Un’umanità che avrebbe richiesto
uno sfondo più accurato e un ritratto meno romantico. Il capolinea di Moonlight
Motel , elegiaco nella forma, evanescente nella sostanza, è forse l’emblema
della desolazione di Western Stars che è popolato, sì, di loser come in
ogni altra canzone di Springsteen, ma dove sono stati accuratamente rimossi i
conflitti che li hanno generati. Da cosa dipende questa scelta non è chiaro. La
soluzione, in prima istanza, ha una sua efficacia consolatoria, ma vuoi per
l’assonanza con il titolo, vuoi perché Sam Shepard “il vero West” l’ha
scandagliato davvero, torna in mente quello che diceva in Motel Chronicles ovvero
qui “la gente qui è diventata la gente che fa finta di essere”. Quello di Western
Stars è uno Springsteen epico, piuttosto che drammatico: un cambio di
prospettiva sensibile che ricorda quel momento in cui John Grady Cole, il
protagonista di Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy “guardava il
paesaggio con certi occhi incavati come se il mondo esterno fosse stato
alterato o messo in dubbio da altri aspetti che aveva scorto altrove. Come se
non riuscisse più a vederlo nel modo giusto. O peggio, come se lo vedesse
finalmente nel modo giusto. Lo vedesse come era sempre stato e sempre sarà”.
Sembra proprio il ritratto dello Springsteen di Western Stars, e il
fatto di essersi affidato a un tono spogliato di ogni urgenza scorre in
parallelo con i risvolti narrativi che si risolvono in struggenti sprazzi
musicali o ampie orchestrazioni, e in una voce mai così curata, accorta,
levigata e corretta, persino nella dizione (per non dire dell’intonazione).
L’impianto sonoro è funzionale allo scopo: molte decorazioni, un sacco di strumenti
stratificati uno dentro l’altro, nessuna vera funzione specifica se non quella
di ricordare, con una dose letale di nostalgia, le colonne sonore di vecchi
film o rendere omaggio a Roy Orbison (l’unico, valido motivo per ascoltare There
Goes My Miracle ). Niente di nuovo o di sorprendente sul fronte
occidentale: tanto assemblaggio e riciclaggio, ovvero molto mestiere che porta
a canzoni buone per ogni stagione ( Tucson Train, Sundown, Hello Sunshine
) ma tutto sommato innocue, per quanto perfettamente inserite nel contesto di Western
Stars. E nessuna sorpresa anche per le reazioni a caldo che, come già per Broadway
, sono state dettate e guidate dall’emotività, fonte di una prosopopea ricca di
elogi e superlativi, ma spesso del tutto priva di attinenza al merito, e alla
sostanza. Il motivo è molto semplice: Western Stars è un disco di una
malinconia indicibile perché è fin troppo evidente che inquadra con
un’istantanea impietosa uno Springsteen che ha ancora qualcosa da dire, non sa
bene come farlo, ma lo deve fare. Lo dovrà fare. E lasciamo stare l’età, che
ognuno ha quella che ha. Il prossimo concept, già annunciato (a riprova che gli
ingranaggi girano a tempo pieno) diventa inquietante (tour compreso): non sia
mai che l’album con la E Street Band si risolva in qualcosa di simile alla
reunion di Graham Parker & The Rumour: grandi (grandissimi) rock’n’roller,
ormai un po’ attempati, che sfornano della buona musica, ma la scintilla, il
brivido, la scossa sono ormai alle spalle. Almeno in questo, per quanto a livello
inconscio, Western Stars è molto più sincero. Addio al miracolo.
All’ovest, l’orizzonte è quello del declino. Ci arriveremo a tappe forzate.
