venerdì 20 giugno 2025

BRUCE SPRINGSTEEN LOST AND FOUND 1983-2018



 



 

Esattamente quaranta anni fa, nel giorno del solstizio d’estate, il 21 giugno 1985 sbarcava per la prima volta in Italia Bruce Springsteen con la sua E-Street Band, fu un concerto leggendario che diede il via ad un culto che si è protratto nelle decadi successive assumendo in qualche caso contorni se non di fanatismo almeno di fede. Di anni, di storia, di musica e concerti ne sono passati da quel giorno, oggi Springsteen è una star che non ha paura di dire ciò che pensa ma che, comprensibilmente, per via dell’età ha perso quell’aura eroica che aveva a quel tempo. Poco male, saperlo ancora sui palchi di mezzo mondo a cantare le sue canzoni e suonare rock con la sua band è un inno alla vita e alla resistenza, considerate poi le morti che hanno funestato il suo entourage, musicisti, amici, collaboratori e tutto il resto. Quaranta anni dopo, quasi in contemporanea, esce un box che raccoglie alcune canzoni che in molti conoscono per essere entrate nelle scalette di molti concerti e nei bootleg che sono circolati negli anni, ma anche degli interi album inediti che Springsteen ha tenuto nel cassetto ed in qualche caso avrebbero ampliato la sua discografia ufficiale di aspetti diversi rispetto all’usuale, consolidato e riconoscibile formato del suo rock n’roll. Quella che segue è una disamina dei sette CD che compongono Lost&Found 1983-2018.



Sette CD diversi l’uno dall’altro, si parte con antiche session del 1983 per arrivare a registrazioni di qualche anno fa, impossibile quindi dare un giudizio d’insieme del materiale qui in questione se non addentrandosi nei singoli dischi perché il raggio d’azione si estende dalle cantine al deserto, dal ribelle rockabilly al crooner in astinenza d’amore, da Philadelphia alla California, dal suono E-Street Band a ridondanti sinfonie di tastiere. Qui c’è lo Springsteen parallelo e nascosto che ha accompagnato la sua discografia ufficiale con composizioni ancora incomplete e altre che avrebbero meritato la pubblicazione, non tutto ciò che Tracks II propone è memorabile ma se vi interessa il caro vecchio  rock n’roll andate da qualche parte a Nord di Nashville, lì c’è qualcosa che  ancora fa vibrare i sensi.

Non entro nel merito dell’operazione commerciale, per il sottoscritto il costo di questo box è poco giustificabile, mi limito ad analizzare il contenuto, una selezione di sette album perduti e ritrovati, per la maggior parte registrati in studi casalinghi, spesso in solitario o con l’unico aiuto del produttore Ron Aniello. Si va dalle session del lontano 1983 risalenti al periodo intercorso tra la pubblicazione di Nebrsaka e Born In The Usa fino al recente 2018 con le dieci canzoni di Perfect World  passando per le registrazioni che accompagnarono l’uscita di Streets of Philadelphia servita per l’omonimo film di Jonathan Demme , una fantomatica colonna sonora, Faithless, per un film mai uscito ed una sorta di racconto in canzoni sul border intitolato Inyo. Ma ci sono anche i brani raccolti per Somewhere North of Nashville ispirati al country e al rockabilly e Twilight Hours presumibilmente registrato a ridosso di Western Stars. Non valgono i confronti col precedente volume di Tracks pubblicato nel 1998 che rispettava un ordine cronologico preciso, da Mary Queen of Arkansas del 1972 fino a Brothers Under The Bridge nel 1995, le epoche dei due box sono diverse, così come diverso è l’artista Bruce Springsteen, per età, motivazioni e ispirazione, e pure il mondo della musica ( e non solo quello) è cambiato. Tracks II raccatta cose molto diverse tra loro rivelando un processo creativo non lineare e altalenante, ci sono idee, ricerche, scarti, prove, abbozzi, cose non finite, il tutto all’insegna di un’ inquietudine artistica (probabilmente anche esistenziale) che ha portato l’autore in territori del tutto diversi tra loro e di cui solo ora, con questi 7CD, se ne ha piena conoscenza, almeno per la grande maggioranza degli ascoltatori. Non mancano titoli già noti, soprattutto nel caso del primo CD del box ovvero LA Garage Session ’83, canzoni apparse sia nei tour, sia nei bootleg che nelle B side dei singoli pubblicati all’epoca. Ne sono esempio Follow That Dream, titolo fino troppo noto per gli amanti di Elvis e del Boss, la bellissima Shut Out The Light, qui offerta in una versione da brivido, scarna e sofferente, col controcanto femminile, leggermente diversa da quella inserita nel precedente Tracks, Johnny Bye Bye scritta in onore di Presley, presentata più volte nei tour di The River e BITUSA, e poi Sugarland espressione della sensibilità dell’autore nei confronti dell’America rurale e contadina, e una meravigliosa County Fair  che tratteggia un ipotetico ponte tra la livida atmosfera di Nebraska ed il suono più ampio dell’album seguente. C’è pure il prototipo di My Hometown, ancora più delicata e con una voce tentennante che non ne scalfisce l’intimità. Il primo CD del box, diviso tra il sound scarno e minimale del suo album acustico e alcune aperture immediatamente seguenti, non ospita comunque l’agognato Nebraska elettrico ma brani come Fugitive’s Dream (ripresa in due versioni) che sarebbero diventati canzoni con altri titoli, oppure Black Mountain Ballad la cui linea melodica ricorda vagamente Mansion on the Hill con l’armonica finale che aggiunge un dolce sapore western. La stessa armonica introduce Jim Deer, incrocio di Woody Guthrie e il Dylan degli esordi pur con il forte impatto che Springsteen sa creare quando canta il folk. L’amore per il country emerge nella scoppiettante Don’t Back Down On Our Love mentre più spiazzanti sono The Klansman e One Love il cui drive ritmico appartiene agli anni ottanta di Cure e Feelies, un segnale dell’attenzione di Springsteen verso suoni diversi dal suo. Al polo opposto Richfield Whistle ci riporta grazie al mandolino e all’arpeggio di chitarre acustiche negli umori in bianco e nero di Nebraska. Alla luce di quanto qui riportato mi permetto di affermare che il menù scelto per gli originali Nebraska e BITUSA sia stato il più azzeccato, fermo restando che escludere Shut Out The Light  per chi scrive rimane inspiegabile.

La scelta di Blind Spot come primo brano da far girare in rete per anticipare l’uscita di Tracks II riassume il mood dominante delle Streets of Philadelphia Sessions. E’ una canzone, che come afferma l’autore, esplora i dubbi e i tradimenti in una relazione d’amore, tema caro in quel periodo a Springsteen anche se con Patti Scialfa stava vivendo un periodo particolarmente felice in California. “ Ma se a volte chiudi quei pensieri in una canzone, poi questa ti segue e si infila dentro. Avevo Blind Spot e ho seguito quel filo del discorso per il resto del disco”. Registrate a ridosso dell’uscita del film di Jonathan Demme tra il 1993 e il 1994, le canzoni di quelle sedute rispecchiano il sound di musica contemporanea anni novanta con loop, sintetizzatori e una ritmica hip hop di matrice West Coast. Bruce aveva cominciato a scrivere la canzone per il film di Demme pensando a qualcosa di rock ma si trovò in difficolta nel far combaciare le liriche con la musica pensata, per cui si mise a cincischiare  con il sintetizzatore suonando sopra un beat di derivazione hip-hop. Programmò i loop con una drum machine nella sua casa di Los Angeles intuendo come fossero necessari accordi in tonalità minore per quelle canzoni; poi l’ingegnere Toby Scott rimise a posto la base ritmica su cui innestare tastiere di vario genere. Nelle stesse session fu registrata Secret Garden, un brano dalle sfumature erotiche incentrato sui misteri che permangono tra i partner all’intero di una relazione anche quando questa è consolidata nel tempo, e come Blind Spot rappresenta il cuore di quel disco del 1994 mai pubblicato. Con Springsteen lavorarono la moglie Patti Scialfa, Soozie Tyrell e Lisa Lowell, le session completate e mixate furono pronte per la primavera del 1995 prima che Bruce rimettesse insieme, dopo sette anni, la band. “Quelle sedute mi sono rimaste nel cuore e mi sono sempre promesso di farle uscire prima o poi”. Se ne capisce la ragione perché pur accettando il generale mood sinfonico orchestrato con le tastiere, di ottime canzoni ce n’è più di una a cominciare dalla bella e intensa Something In The Well, da One Beautiful Morning, rockata e carica di pathos, dall’intimistica Between Heaven and Heart  sussurrata come una ninna nanna, dalla stessa Secret Garden pubblicata a suo tempo come singolo e da Farewell Party, una di quelle ballate dal senso  epico che nobilitano il lirismo del suo songbook. Dieci tracce con una malinconia di fondo dettata  dallo stato d’animo di Bruce in quel periodo, discograficamente parlando un coraggioso cambio di stile  in anni contrassegnati da repentini cambi di direzione, prima lo scioglimento della band, poi l’approccio verso il discutibile pop-soul losengelino di Human Touch e successivamente l’affondo sociopolitico minimalista di Tom Joad. Quel mood sinfonico presentò uno Springsteen diverso che a molti non piacque ma fu una necessaria tappa di passaggio verso il ripristino dell’ E Street Band sound, cosa che fece di lì a poco col Tour della riunione.

Faithless è il titolo di una soundtrack composta da undici tracce per un film mai uscito, un western spirituale come lo ha definito lo stesso autore sulle intenzioni, il credo e l’accettazione. Registrato tra la fine del Devils & Dust Tour nel novembre del 2005 e la pubblicazione di We Shall Overcome, è la visione di Springsteen della spiritualità nella mitologia del West americano, una collezione di canzoni e frammenti sonori composti nel giro di due settimane finalizzati a tradurre l’atmosfera del film. Per quel lavoro fu aiutato dal produttore Ron Aniello, Soozie Tyrell e Lisa Lowell, Curtis Knight Jr., Michelle Moore e Ada Dyer ma ci furono anche contributi da parte della moglie e di Evan e Sam Springsteen. Alcune tracce sono puramente strumentali, spadroneggiano armoniche e violini e un’aria tipicamente western in un contesto di folk desertico. Si respira la desolazione di Tom Joad pur con qualche gagliardo colpo in avanti nello spirito delle Seeger Sessions, lo testimoniano tracce come All Gods Children, uno spiritual cantato con voce rabbiosa alimentato da un coro da Chiesa Battista e il gospel Let Me Ride, mentre nell’accorata e pianistica God Sent You e nel tema di My Master’s Hand divisa tra preghiera ed echi messicani, emerge un afflato religioso. Going To California preserva il fascino dei viaggi on the road e Where You Going Where You From si perde nel grande mistero della vita con una preghiera benedetta dal delicato coro femminile. Visionario e spirituale Faithless rimane la soundtrack di un film mai visto come si conviene a una ghost story del deserto.

L’amore mai nascosto per la musica country a cominciare da Hank Williams e Johnny Cash ha costituito una parte dell’educazione musicale di Springsteen manifestandosi dapprima in episodi isolati e poi emersa significativa in età adulta. Avvisaglie erano alcune B side del periodo The River, l’ambientazione nella profonda provincia di Nebraska, l’eredità tradizionale su cui fu impiantato diverso materiale di Seeger Session, i paesaggi persi nel nulla di Devils & Dust  fino alla consacrazione estetica di un West  cinematografico in Western Stars, più una cartolina che un sentito approccio ai codici stilistici del genere. Con le canzoni di Somewhere North of Nashville si entra in un universo profondamente americano ma non dalla porta principale, piuttosto, come suggerisce il titolo della strepitosa Poor Side of Town, dalla porta di servizio. Tutto il fascino del country quando si impolvera di perdenti e outsiders, l’eccitante ritmo del rockablly, le calde pulsazioni dell’ honky-tonk e l’eco dello western swing texano ma senza la coreografia hollywoodiana delle stelle dell’Ovest, solo belle canzoni, a volte commoventi, il suono asciutto delle radici, qualche colpo d’armonica, una produzione mirata all’essenziale, le storie e i motel delle Blue Highway e delle Silver Mountain, una malinconia che è più una carezza che un abbandono. Fosse uscito al tempo un tale disco avrebbe accontentato pubblico e critica per il tiro rock n’roll, i personaggi e la credibilità delle storie, la grinta di Bruce e la sua sensualità come si evince nella dolce You’re Gomma Miss You When I’m Gone, la sincera condivisione con quel mondo. Fu realizzato non a caso simultaneamente a The Ghost of Tom Joad nell’estate del 1995 con Danny Federici, Garry Tallent e Gary Mallaber, Soozy Tyrell e il tocco sopraffino della lap steel di Marty Rifkin e dimostra quanto fosse creativo Bruce in quei metà anni novanta con progetti diversi l’uno dall’altro: sinfonici, folkie e rock n’roll. Questo materiale fu registrato dal vivo in studio da una full band, dodici canzoni compresi due prelibati scarti di Born in The Usa ovvero la scatenata Stand On It e la magnifica e melodica Janey Don’t You Lose Heart  impreziosita dal sublime lavoro di Rifkin con la lap steel e Soozy Tyrell col violino. In tutti i brani prevale il suono di un combo che mira al sodo bilanciando energia ed elegia da grandi spazi, da una parte gli stivali che battono i tacchi in Detail Man, Repo Man e Delivery Man, dall’altra gli orizzonti di Silver Mountain e Under a Big Sky e in mezzo le melodie che  fanno innamorare. Anche il lussureggiante country di Tiger Rose interpretato da Sonny Burgess nel 1996 e baciato dal tocco di Marty Rifkin, più tardi anche lui nella Seeger Sesssion Band, e Somewhere North of Nashville, che con un taglio alla Charley Crockett ed il titolo colloca questo country al di fuori del riconosciuto mainstream del genere. Affermò Springsteen: “ scritte nello stesso periodo di Tom Joad cantai Repo Man nel pomeriggio mentre di notte mi concentrai su The Line. Fu però Streets of Philadelphia a ricollegarmi alla coscienza sociale ritornando ad approfondire il songwriting grazie alla minuziosa cura dei personaggi e all’uso diverso della voce, è così che venne fuori Tom Joad; ma nello stesso tempo dentro mi ruminava quel feeling country che trovò sbocco in queste session, e così finii per fare un disco country”. La carriera del Boss, troppo consenziente a obblighi contrattuali, ha lasciato ai margini lavori che meritavano di vedere la luce, se volete trovare lo Springsteen dei giorni migliori andate da qualche parte a Nord di Nashville.

Se Faithless è la colonna sonora di un film mai uscito, le dieci canzoni che compongono Inyo sono il frutto di scritture che Springsteen fece negli anni novanta durante viaggi in moto nel Sud-Ovest degli Stati Uniti immergendosi nella cultura e nel paesaggio locale. Inyo'è un disco che ho scritto durante i lunghi viaggi lungo l'acquedotto della California, attraverso la contea di Inyo, diretto a Yosemite o alla Death Valley", ha ricordato Springsteen. "Mi piaceva moltissimo quel tipo di scrittura. Durante il tour di The Ghost Of Tom Joad] tornavo in albergo la sera e continuavo a scrivere in quello stile perché pensavo di dare  un seguito a quel disco  con un lavoro simile, ma non l'ho fatto. È da lì che è nato Inyo, è uno dei miei preferiti."

Sono canzoni del border con suoni “localistici” immaginati per un ipotetico concept sul tema della diaspora messicana e le perdite culturali che ne sono derivate, ragione per cui l’atmosfera è dolente e dolorosa. Ma ci sono momenti in cui il quadro si tinge di colori romantici come in Adelita, un’ode alle donne soldaderas messicane che hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza, oppure quando viene narrato di The Last Charro nella festosità di una piazza messicana con le trombe mariachi che si fondono coi violini e la gente canta, o ancora nella delicata coralità di When I Build My Beautiful House. Al contrario, in Ciudad Juarez le stesse trombe sanno di morte e fuggiaschi, una tristezza che pervade Indian Town, The Aztec Dance, One False Move, catapultando l’ascoltatore in quell’universo di confine argomento di tanta cronaca giornalistica e politica. Canzoni come Our Lady of Monroe e El Jardinero (Upon The Death of Ramon) sono storie bruciate dai ricordi e nostalgia tenute insieme da suoni in punta di piedi, violini,  un’armonica, il costante lavoro delle tastiere sullo sfondo. Sebbene registrato principalmente come disco solista , Springsteen si ritrova a lavorare con diversi musicisti mariachi responsabili dell’inconfondibile mexican flavour che si respira nell’intero lavoro.

 

Non so se il titolo Twilight Hours, le ore dell’imbrunire, faccia riferimento al disco del 1955 di Frank Sinatra, In the Wee Small Hours, nelle prime ore del mattino, tanto Springsteen pare coinvolto nel vestire i panni del crooner languido e confidenziale, ma il risultato suona piuttosto come il delirio di un vecchio playboy immalinconito dal trascorrere del tempo. La sequenza inziale di Sunday Love /Late in the Evening/Two of Us è piuttosto imbarazzante per il modo in cui la voce sgocciola melassa dolciastra e gli archi sono lì a creare una messainscena di solitudine e amori sfuggiti che in Lonely Town e September Kisses assume toni  più patetici che drammatici. Lo stile Bacharach di alcune tracce non basta a salvare atmosfere che l’autore ha definito noir-industriali ma che infarcite di tutti quegli archi e arrangiamenti diventano un tedioso feuilleton musicale sui dolori dell’amore. Probabilmente registrato nelle vicinanze di Western Stars, possiede la stessa ridondante coreografia sonora non collocata negli spazi aperti dell’Ovest ma in una scenografia d’interni che, dopo l’ascolto di High Sierra, richiede una salutare ossigenazione per non soffocare in tale tortuoso (e torturante) tunnel of love. Qualche spunto vitale lo si trova nella canzone-titolo, nel falsetto di Sunliner la cui lap steel la spedisce dalle parti di Lyle Lovett, nella ridente Follow The Sun che al sottoscritto ricorda qualcosa di Raindrops Keep Fallin’ On My Head, tanto per stare in clima Bacharach. Ma in generale più che l’imbrunire, qui è notte fonda.

 

Il rock torna di scena nelle dieci canzoni di Perfect World a cominciare dai titoli con cui viene introdotto: le chitarre urlanti e l’E Street sound di  I’m not sleeping, il roots-rock rauco di armonica dylaniata e distorsioni alla Dream Syndicate di Idiot’s Delight, scritta negli anni novanta con Joe Grushecky e poi incisa con la E-Street Band nei duemila, e l’altrettanto elettrica  Another Thin Line con quella bella linea di tastiere sopra il feedback chitarristico. Il suono del disco è in parte parente a quello del recente Letter To You, specie in pezzi saturi di suoni come Rain in the River  ma c’è spazio per ariose ballate (The Great Depression) e qualche dichiarazione d’amore (If I Could Only Be Your Lover) oltre e quella Perfect World ceduta a John Mellencamp per lo struggente Orpheus Descending. In questo CD ci sono ottimi spunti e idee da approfondire ma non l’omogeneità di un album finito, in Cutting Knife la voce pare sospesa in un magma sonoro che rinuncia veramente a tagliare di netto e You Lifted Me Up sfoggia un ritornello sopra un mare di arrangiamenti e tastiere dove si smarrisce il filo conduttore della canzone. Curato in qualche particolare e smagrito nella sovra-produzione, Perfect World avrebbe potuto essere un album oscillante tra il suono espresso in Magic e quello di Letter To You. C’è Ron Aniello dietro tutto ciò, un ruolo importante nella recente produzione del Boss, che sia stata la miglior scelta possibile, questo è un altro discorso.

MAURO  ZAMBELLINI     31 MAGGIO 2025 (data da dimenticare)

p.s articolo completo con il contributo di Marco Denti e foto su BUSCADERO in uscita a luglio