sabato 16 aprile 2016

PETER WOLF Una cura per la solitudine


Ci ha abituato bene Peter Wolf, nato nel 1946 come Peter W.Blankfield, ex leader e voce della gloriosa J.J Geils Band, la band che fu definita i Rolling Stones d'America, da quando si è messo solista sforna dischi preziosi che riescono a stare al passo col tempo pur rifacendosi alla musica del passato, quel romantico rock urbano di cui è specializzata la East Coast americana innanzitutto ma anche il R&B delle origini, il folk-rock alla Dylan, il blues.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Nativo del Bronx ma trapiantato a Boston, Peter Wolf si è costruito una carriera solista di tutto rispetto anche senza astronomiche cifre di vendita, ha cominciato nel 1984 con Lights Out  ed è arrivato a A Cure For Loneliness attraverso dischi che è un reato non possedere, l'uggioso Long Line del 1996, l'interessante Fool's Parade  del 1998, lo splendido Sleepless del 2002 in cui compaiono gli amici Jagger e Richards

e l'altrettanto bello  Midnight Souvenirs del 2010 contenente strepitosi duetti con Shelby Lynn ( Tragedy), Neko Case (TheGreen Fields of Summer) e l'appena scomparso Merle Haggard (It's Too Late For Me) ed una ballata, The Night Comes Down, dedicata a Willy DeVille, uno dei pochi artisti americani a ricordarsi di lui.
 

 

Peter Wolf è un rocker di razza, per la sua brillantezza  in fase di scrittura, una innata capacità nel creare canzoni di fine artigianato in cui la sua profonda conoscenza musicale è al servizio di un rock che taglia e rincuora, teso e scuro a volte, romantico e crepuscolare altre. Non è un nostalgico Peter Wolf anche se la sua vita lo consentirebbe, visto l'ingombrante passato alle spalle con avventure spesso sul filo del rasoio, e lo dimostra in questo incantevole A Cure For Loneliness dove si ritrova settantenne ad esaminare il punto in cui è arrivato senza rimpiangere i giorni andati. Lo fa in Some Other Time, Some Other Place , una dolce ballata scritta assieme a Will Jennings, co-autore di molti brani dell'album, quando attorniato dal violino, dalla lap steel e dalla chitarra acustica di Larry Campbell, canta in un'atmosfera che rasenta il folk : l'estate è andato e non c'è più nessuno attorno, la spiaggia è vuota e i negozi sono chiusi, per poi aggiungere quando qualcosa finisce, qualcosa incomincia. E allo stesso modo nei versi di Rolling On, un'altra ballata, ancora più malinconica, messa ad aprire l'intero album e segnata dal raffinato pianoforte dell'onnipresente Kenny White, co-produttore del disco, afferma non intendo scomparire e nemmeno lasciare che il mondo mi passi sopra. E' appropriato il titolo dell'album, una cura per la solitudine, perché queste dodici canzoni servono a far accettare la vita ed il tempo in modo più sereno sortendo l'effetto di quando si incontra un amico con cui nel passato si sono divise scelte e storie e adesso si è disposti ad ascoltarsi e ricordare, con amicizia e dolcezza.

C'è malinconia nelle canzoni di A Cure for Loneliness, come d'altra parte nei due dischi che lo hanno preceduto,  ma anche quella matura e disincantata accettazione del destino e del tempo che solo un settantenne che ha vissuto intensamente può avere. Brani come Some Other Time, Some Other Place e Rolling On sono insieme filosofici e agrodolci, non cedono alla rassegnazione, anche se oggi i modi musicali di Wolf sono più rivolti alla ballata intimista e ai toni morbidi del rock che alle parole taglienti e all'arrembante R&B di gioventù. E' subentrata la calma dell'età, espressa in ballate per nulla zuccherose, piuttosto memori di quanto facevano gli Stones tra gli anni 70 e 80 con le melodie, oppure la specialità di Willy DeVille quando parla d'amore nel ghetto o Boz Scaggs quando reinventa il soul o l'originalità che ha John Hiatt quando immerge le sue ciondolanti storie in un mood dove non si capiscono i confini tra soul, blues, country e rock. Il country è un po' una novità per Peter Wolf, anche se la presenza di Merle Haggard in un brano di Midnight Souvenirs

portava in quella direzione, ma solitamente il nostro ha avuto più  confidenza con le tensioni elettriche urbane, qui però pesca un hit country del 1974 di tale Moe Bandy, It Was Always So Easy (To Find An Unhappy Woman), aggiungendoci però una chitarra spudoratamente rock (il bravissimo Duke Levine) ed un organo ed un' armonica degna del Dylan di Highway 61 Revisited. E poi c'è Tragedy (nulla a che spartire con l'omonima canzone di Midnight Souvenirs) tenue country ballad di Thomas Wayne del 1959 e  pure Love Stinks, noto titolo della JJ Geils Band, qui rimpastato bluegrass e portato a nuova vita. La conoscenza enciclopedica di Wolf permette simili chicche, e lo stesso lo si può dire per It's Raining scritta con Don Covay, che nelle intenzioni avrebbe dovuta essere un duetto con Bobby Womack se il famoso soulman non fosse deceduto prima di entrare in studio di registrazione. La canzone è un'ode soul alla perseveranza, so che il sole arriverà dopo la tempesta, canta Peter Wolf accompagnato da una sezione fiati che fa molto Memphis anni sessanta.
 

Diversa è Wastin' Time che possiede lo stile della ballata rock da antologia, è romantica da morire tanto da sembrare la sorella di Waiting On A Friend degli Stones di Tattoo You. E' proposta in versione live, scelta strana per un album altrimenti di studio. In Fun For A While invece, Wolf assalito dalla malinconia, canta: nessuno ci poteva fermare allora, non voglio tornare indietro ma sarebbe bello farlo per un attimo, e attorno è un ricamo di lap steel, fisarmoniche, chitarre, tastiere. How Do You Know paga pegno al blues, grande amore di Wolf fin dagli inizi di carriera, ed è un boogie che porta John Lee Hooker nelle terre cajun mentre il pianoforte di White rallegra il viaggio. Peace of Mind è come il titolo, rappacifica con sé stessi e il mondo e Stranger chiude il disco in punta di piedi, solo voce e chitarra. Accompagnato da ottimi musicisti, oltre a quelli già menzionati mi va di segnalare il raffinato chitarrista Kevin Barry, Peter Wolf dimostra di saper invecchiare con dignità esponendo la sua personale cura per la solitudine, una cura che non ha effetti secondari perché anche se il suo rock si è fatto più crepuscolare e morbido non ha perso una virgola in passione, eleganza, romanticismo. Di dischi così non se ne trovano più.

 

MAURO ZAMBELLINI     APRILE 2014

 

martedì 5 aprile 2016

TELEVISION Trezzo D'Adda 31/03/16

 
 
Due anni dopo il loro passaggio milanese i Television sono tornati a riscaldare i cuori di chi non ha dimenticato una delle pagine più significative del rock newyorchese. Non erano in molti ad accoglierli, si e no duecento persone, al Live Club di Trezzo D'Adda ma la serata è stata di quelle che si ricordano perché Tom Verlaine e compagni hanno riconfermato, a 35 anni dal loro debutto, di essere l'aristocrazia del rock underground, quel rock  aguzzo e visionario che attraverso soli tre album, il terzo arrivato molto tempo dopo nel 1992, è assurto a storia. E loro non sono cambiati, non hanno perso lo spirito di una band sotterranea che in concerto rischia e sperimenta, senza sedersi sugli allori e tantomeno imponendo una parodia della loro musica come capita di vedere per band e artisti titolati con passati gloriosi alle spalle. Sono anziani e lo si vede dai capelli ingrigiti e dalle rughe ma suonano con una attitudine giovanile sebbene gli anni e la strada gli abbiano regalato esperienza, tecnica, misura, padronanza.


In particolare non ho mai visto Tom Verlaine così affabile come nel concerto di Trezzo D'Adda, artista schivo e umbratile che si è invece concesso a sorrisi, battute col chitarrista Jimmy Rip, l'attuale sostituto del membro originario Richard Lloyd, scambi col pubblico. Un leader ed una band in evidente stato di grazia, più in palla dell' esibizione milanese di due anni fa dove avevano presentato l'intero Marquee Moon, ancora oggi l'ossatura dello show visto che non hanno album recenti da promuovere e tantomeno merchandising da vendere. Sono una band fiera di essere underground anche nel 2016, pur nello spazio non certo angusto e ribollente come fu il CBGB dei loro esordi ma ampio e tranquillo come il moderno Live Club, ed il loro set è un concentrato di precisione, pulsione e sperimentazione, dove convivono Velvet Underground e Grateful Dead, Patty Smith e Talking Heads in modo del tutto originale ed irriconoscibile. Sono la quintessenza del suono della New York anni settanta resuscitata senza trucchi e fronzoli e senza che il tempo ne abbia scalfito l'importanza.


Fred Smith e Billy Ficca sono una sezione ritmica metronomica, insistenti, ossessivi nel creare una base ritmica che in qualche frangente rasenta il sincopato dei Talking Heads ed in altri diventa un martello pneumatico in azione. Jimmy Rip è un chitarrista dallo stile classico, meno funambolico di Lloyd ma è vivace, estroverso, ha scatti di blues e la sua Fender è una lama che girovaga tra assoli torcibudella che rammentano  lo stile del povero e grandissimo Robert Quine, il miglior chitarrista della New York underground degli anni 70 e 80, e stravaganze che permettono a  Tom Verlaine negli interplay di trasformarsi da chitarrista ritmico a solista. Cosa che succede in più di un momento nel concerto, quando vanno in scena Tom Curtain, ripescata assieme all'iniziale Prove It, alla magnifica e dolente Elevation, a See No Evil, alla sognante Guiding Light e a Venus da Marquee Moon, e soprattutto in titoli come The Sea e Persia estranei alla loro discografia ufficiale. Qui Tom Verlaine contrappone alla sua voce malinconica e lamentosa una chitarra famelica di note dissonanti, rumori e feedback, scale elicoidali. L'interplay tra lui e Rip è la cifra stilistica del sound dei Television, specie quando il brano si dilunga e diventa un assordante free-jazz da Knitting Factory che assalta le certezze dell'ascoltatore, oppure si dilata in una sorta di urbana psichedelia dove i Velvet Underground si tengono a braccetto con i Quicksilver Messenger Service. Magari lasciando trapelare una linea melodica arabeggiante come si ascolta in Persia o l' espressionismo visionario di 1880 or So, unico ripescaggio dal disco del 1992.


Di tempo ne è passato ma i Television paiono uscire ieri dalle immagini  di una New York scura e pericolosa ma fervida di creatività rock, ricordo condiviso dagli appassionati accorsi a rivivere quella sensazione. E la magia si ripete, come fossimo nel 1977 e non può che essere l'incipit geometrico ed ipnotico di Marquee Moon a suscitare l'entusiasmo generale.
E' l'ultimo pezzo dello show, prima dell'encore di Sapphire, dopo quasi due ore di concerto, ed il riff chitarristico di Jimmy Rip spinge gli ascoltatori a chiudere gli occhi ed imbarcarsi per New York o per la luna. La versione è splendida, maestosa, il magma sonoro cresce e sale, si amplia a macchia d'olio mantenendo comunque tensione e intensità, la sezione ritmica è un misto di rigore e brutalità, Tom Verlaine manda segnali dallo spazio e con la sua Fender si infila non appena Rip allenta il suo assolo, il caos controllato e potente di Marquee Moon è la celebrazione di un rock che è fantasia, controllo ed estasi, un rock che non esiste più ma che i Television l'hanno ibernato per l'eternità.
 
 

MAURO ZAMBELLINI   APRILE 2014  
Le foto sono di Rodolfo Sassano