Concerto
storico della Allman Brothers Band non fosse altro perché è il finale della
loro lunga, controversa, altalenante, esaltante avventura musicale. La sede è
quella a loro più congeniale, ovvero il Beacon Theatre di New York, la loro
seconda patria, la data quella del 28 ottobre 2014 per il 45esimo di carriera.
C’erano stati seri problemi di salute negli anni appena precedenti, Gregg
Allman si era sottoposto a un trapianto di fegato e poi aveva sofferto gravi
problemi respiratori che lo avevano invalidato, Dickey Betts era già fuori dal
giro da diverso tempo e nel 2012 l’ annuale residency primaverile degli Allman
al Beacon era saltata. Mai come in quel periodo la band sembrava appesa ad un
filo ma il 7 marzo del 2014 i sette (oltre agli storici Gregg, Jaimoe, Butch
Trucks c’erano i due condottieri Warren Haynes e Derek Trucks, il bassista Oteil
Burbridge ed il percussionista Marc Quinones) si presentarono sul palco dello
storico locale al numero 2124 di Broadway per dare inizio ai concerti in cartello, come ogni
anno. Durante la seconda data Butch Trucks se ne andò
prima dell’encore di Southbound, una improvvisa perdita di memoria non gli permise di continuare, non aveva idea di
cosa stesse facendo, era completamente smarrito. Fu sostituito da suo nipote
Duane, fratello di Derek, e dal percussionista Bobby Allende. Trucks rimase tre
giorni in ospedale e gli diagnosticarono
una TIA ma prima della serata del 21 marzo i
Brothers dovettero fare a meno anche di Gregg, ospedalizzato per una
nuova crisi respiratoria. La band corse ai ripari ingaggiando i tastieristi
Kofi Burbridge e Rob Barraco, il sassofonista Bill Evans e Susan Tedeschi nelle
vesti di cantante e chitarrista. Si aggiunse alle voci il figlio di Gregg,
Devon e per il concerto seguente fu convocato da Nashville il cantante di Wet
Willie, Jimmy Hall, ma per le serate successive Warren Haynes fu lapidario: non
si potevano tradire i fans che avevano acquistato biglietti, prenotato alberghi
e pagato voli, presentando una band senza il proprio cantante. Gli ultimi quattro
show newyorchesi furono quindi posticipati a data da stabilirsi e dopo alcune
apparizioni estive la band si ripresentò al Beacon nell’ottobre dello stesso
anno. Il rush finale iniziò il 21 ottobre, il concerto finale avvenne il 28 (ma
si concluse che già era il 29, nello stesso giorno in cui 43 anni prima moriva
Duane) e, dato che era l’ultimo atto, invitarono anche Dickey Betts ma il
tentativo andò a vuoto. La storia è raccontata compiutamente nel libro della
Shake The Allman Brothers Band-I Ribelli
del Southern Rock (2021), per la
festa conclusiva del 28 arrivarono da tutti gli Stati Uniti parenti ed amici a
dimostrazione del grande affetto che legava una comunità che né i lutti, i
dissidi, i processi, le droghe e l’alcol, le malattie aveva scardinato. Seppure acciaccati, già
dalle prime note di Little Martha si capisce che la serata avrebbe lasciato in eredità qualcosa di
speciale. Non poteva essere
diversamente . La fine della strada era cominciata da un poetico e nostalgico
riavvolgimento del nastro dei flashback che ogni secondo di quella
straordinaria storia riportava alla memoria Duane Allman. I sospiri languidi e
acuti dell’emozionante brano di Duane, suonato dall’acustica di Derek in
armonia elettrica con Haynes, confluiscono in un’esplosiva Mountain Jam per poi aprirsi alle due
canzoni di apertura del loro primo album: Don’t Want You No More e It’s Not My Cross To
Bear. Finalmente, seppure di non facile reperibilità
e a un costo non propriamente economico, almeno per quanto riguarda il supporto
fisico quella straordinaria serata è ora
disponibile in un triplo CD che testimonia come la band fosse ancora in grado
di ricreare la grandeur di un tempo e avere numeri da novanta nel proprio
carnet, tanto che sulla rivista Rolling Stone David Fricke scrisse che quella serata non sembrava proprio un addio.
Basta ascoltarsi i dieci minuti di Blue
Sky per capire che la nuova
generazione ovvero i chitarristi Trucks e Haynes non soffriva rispetto ai titolari Duane e
Betts e nei tanti blues della set list il drumming di Butch Trucks stantuffava
come un pistone di un bicilindrico, il percussionista Marc Quinones metteva
carbone alla caldaia e Gregg, commovente nel recuperare le ultime forze a sua
disposizione (nella tenera Melissa affiora la stanchezza di una vita on the border) cantava come nelle grandi
occasioni, ricavando dal suo Hammond un suono stagionato, rotondo, pastoso. Ventinove titoli sparsi su
tre CD, tutta la loro carriera riassunta in una serata grazie ad uno show
stratosferico, tra i migliori della loro sterminata produzione live. Assoli e
jam, gioco di squadra e individualismi da fa far accapponare la pelle, blues,
rock, psichedelia e soul, Final Concert 10-28-14 è la degna
conclusione di una delle avventure musicali americane che hanno fatto storia. Superfluo fare l’elenco di ogni traccia di
questa grazia divina, mi limito nel segnalare i brani più lunghi, i tredici
minuti e mezzo del medley You Don’t Love
Me/Soul Serenade/You Don’t Love Me, gli undici minuti di una personalissima Good Morning Little Shoolgirl di Sonny
Boy Williamson, i tredici minuti di una vigorosa Black Hearted Woman, i nove
della The Sky Is Crying di Elmore
James, gli undici e passi della cosmica Dreams, i diciooto di una Elizabeth Reed mai cosi rilassata,
jazzata, intervallata dal tribale numero di percussioni e batteria di JaMaBuBu, i sedici e oltre di una delirante Whpping Post messa
nell’encore ed una Mountain Jam divisa
in tre momenti, quattro minuti all’inizio di concerto poi altri nove minuti nel
finale e, dopo l’intermezzo della corale e celebrativa Will The Circle Be Unbroken, ulteriori undici minuti e passa. Una volta concluso l’encore
di Whipping Post, i sette membri del gruppo si schierarono
di fronte al pubblico con un inchino, poi Gregg, spinto avanti dagli altri,
tenne un breve discorso in quello che qui viene riportato come Farewell Speeches, ricordando il giorno
in cui, per la prima volta, cantò con la formazione originale della Allman
Brothers Band, in una jam session nella loro Jacksonville. Gregg citando
la data precisa, il 26 marzo 1969, afferma, con voce bassa e logora: “Non avevo idea che si potesse arrivare a
questo”. Fra gli applausi aggiunge: “Ora...
faremo la prima canzone che abbiamo mai suonato”, ed il tributo a Muddy
Waters di Trouble No More , il brano che aveva dato inizio a tutto esce dalle voci dell’intero Beacon Theatre.
Un rammarico non aver
potuto assistere a un evento del genere, una festa della musica pur contrassegnata dalla malinconia di un
addio, ci sono occasioni nella vita che non andrebbero perse anche a costo di
sacrifici e altre rinunce. Relegati nella periferia dell’Impero non possiamo
che accontentarci di ciò che la storia lascia dietro di sé ovvero questo
irrinunciabile e fantastico documento, una miseria al confronto di poter essere
stati realmente sotto quel palco. Baratterei una ventina di concerti del Boss
(dei trentatrè visti) per uno dei loro ma il tempo non aspetta nessuno.
Prodotto dalla ABB con Bert
Holman, pubblicato dalla Peach Records, qualità audio di prim’ordine, se c’è un
live degli Allman che porterei sull’isola deserta assieme al Fillmore East è
questo.