venerdì 21 marzo 2025

NON LO DIREI SE NON FOSSE VERO Steve Wynn


 

Una volta Bruce Springsteen disse che aveva imparato più da una canzone di tre minuti che da cinque anni di scuola, più modestamente potrei rispondere che ho appreso di rock n’roll più da questo libro di Steve Wynn che da decine di dischi ascoltati del genere. Non lo direi se non fosse vero, edito dai tipi di Jimenez, è un libro piacevolissimo da leggere in cui si apprendono molte cose riguardo la nostra musica, scritto con una prosa fluida e semplice ma non banale, che acchiappa il lettore come fosse un romanzo da cui non si riesce a starne lontani. Racchiude memorie di musica, vita, aneddoti, storie e soprattutto l’avventura dei Dream Syndicate, uno dei gruppi americani più importanti degli ultimi quaranta anni, fino al loro temporaneo scioglimento nel 1989 (si sarebbero poi riuniti nel 2012 per una seconda vita che dura tutt’ora). Mai come in questa occasione Steve Wynn, che sarà ad aprile in tour dalle nostre parti, si mette a nudo e con una onestà incredibile racconta un periodo importante della sua esistenza umana e artistica, dai giorni dell’infanzia, figlio unico e felice di una madre single (si era comunque sposata quattro volte, come il padre) nel distretto Pico/La Ciniega di Los Angeles negli anni sessanta, al suo approccio alla musica, prima come bambino invaghito dei filmati di Beatles, Who, Monkees, Cream, Creedence che sfrecciava con la sua bicicletta per i saliscendi di Hollywood bramoso di raggiungere il negozio di dischi più vicino e comprarsi con la paghetta l’ultimo Lp o 45 giri dei suoi beniamini. Ragazzino solitario, attorniato da nuovi fratelli avuti dai nuovi coniugi in matrimoni precedenti e dai vicini di casa, ciò che importava veramente a Steve erano i dischi, la radio e la chitarra. Da lì le prime lezioni con lo strumento, la prima canzone, la prima band. Se si considera che  aveva solo dieci anni si capisce come realmente fosse un predestinato. Si fa assumere come impiegato in un negozio di dischi, il Rhino di Los Angeles, dove promuove i dischi autoprodotti dei gruppi underground locali che glieli portavano a mano, diventa musicista dilettante, vive una parentesi come giornalista di cronache sportive, specie di baseball la sua seconda grande passione, nel campus universitario dove presto abbandona gli studi, e poi il grande salto nel rock dopo essere stato fulminato da un concerto di Springsteen. Ma sono i Roxy Music, i Clash gli Stooges, i Ramones e i Talking Heads a portarlo sulla strada della musica registrata, nonché l’incontro a Memphis con uno dei suoi miti, Alex Chilton leader dei Big Star, altra sua grande passione.



 Nel 1978 è all’università di Davis, località vicino San Francisco dove con Russ Tolman, Gavin Blair e Kendra Smith forma i Suspects, torna a Los Angeles e dà vita ai 15 Minutes, ma è l’incontro col batterista Dennis Duck, un veterano della scena della città, il chitarrista Karl Precoda (con cui più tardi avrà forti divergenze) e la bassista e cantante Kendra Smith a far emergere dall’underground della Città degli Angeli i Dream Syndicate. Crea l’etichetta Down There per pubblicare l’Ep d’esordio, registrato nella cantina della casa del padre, ma è la Slash, l’intraprendente label della nuova scena californiana dell’epoca, a permettere l’uscita di quel The Days of Wine and Roses che a parere del sottoscritto è il più vicino parente di White Light, White Heat dei Velvet Undergound per lungimiranza stilistica e sonora. I Dream Syndicate si imposero immediatamente in quella California desiderosa di archiviare Eagles e Fleetwood Mac e non ci volle molto affinché aggregassero ai loro concerti la fauna inquieta dei club del Sunset Boulevard .Seguono i tour, gli spostamenti da una città all’altra, da uno stato all’altro, l’euforia e i pochi soldi, le bottiglia di Bourbon scolate come fossero acqua minerale, lo speed, il plauso dei critici musicali e la nascita del Paisley Underground, il movimento che andava controcorrente rispetto al dilagare della musica sintetica ed iperprodotta degli anni 80. Ne fanno parte anche gli amici Green On Red, gli X, Thin White Rope, Long Raiders, Rain Parade e a margine, pubblicati dalla stessa Slash, anche Los Lobos e Blasters. Un paradiso per le orecchie di chi non voleva saperne di Culture Club, Duran Duran, Spandau Ballett e robaccia del genere. Wynn racconta nel libro senza nascondere nulla, compreso vizi e peccati, neppure la delusione per le vendite non sempre pari all’impegno e alla tenacia dei musicisti, oltre ai problemi interni al gruppo creatisi nello studio di San Francisco col produttore Sandy Pearlman (uno che aveva lavorato con Clash e Blue Oyster Cult) e col chitarrista ed ex-amico Karl Precoda nella realizzazione di Medicine Show, pubblicato nel 1984 e caposaldo del rock americano di quel decennio, e non solo. E’ Wynn a liquidare Precoda, nonostante quello che si è sempre narrato mentre Kendra Smith se ne va di sua volontà per formare gli Opal, sostituita da Dave Prevost. Entra in scena il nuovo chitarrista Paul Cutler che già era nel giro dei Dream Syndicate al momento del loro esordio come ingegnere del suono, il nuovo lavoro Out of The Grey non è all’altezza dei due precedenti e anche Wynn ammette con schiettezza il calo d’ispirazione e soprattutto un suono troppo mainstream per la loro natura outsider. Ma per chi scrive contiene almeno tre brani, Boston, Now I Ride Alone e 50 in a 25 Zone che sarebbero in tanti a fare carte false per averle scritte loro. Wynn racconta il momento di sbando ma anche la crescente popolarità in Europa, in Scandinavia, in Spagna e in Italia dove passano più volte, anche le dinamiche cambiate dei promoter  nell’organizzare concerti ed in generale il circo della musica. Il gruppo vive un calo di consensi anche tra il pubblico, Wynn si sente appartenente ad un’altra era del rock, più eroica e spontanea, intuisce che il paesaggio è cambiato e comincia a pensare a una carriera solista, esibendosi talvolta da solo o con qualche sparuto accompagnatore. Ma nel 1988 c’è ancora tempo per un grande disco dei Dream Syndicate prodotto da Elliott Mazer (uno che con Young, Dylan e The Band ha esplorato tutto l’universo della ballata elettrica) ed è Ghost Stories .  Dice l’autore del libro “ quando ci siamo formati nel 1982, è stato soprattutto perché volevamo fare quel tipo di musica che all’epoca non si sentiva da nessun’altra parte. Stavamo riempiendo un vuoto per noi stessi, e abbiamo scoperto rapidamente che stavamo riempiendo un vuoto anche per un gruppo selezionato di altri appassionati di musica, siamo diventati la band che forse avevamo sognato di essere. Eravamo una band che probabilmente sarebbe stata la nostra band preferita nel 1982”. Ma con lo scenario cambiato i Dream Syndicate non volevano diventare un fenomeno patetico dopo essere stati i pionieri di un certo tipo di rock underground. Wynn si è ormai accasato e ripulito e con consapevolezza, nello stesso modo in cui faranno qualche anno più tardi gli amici REM, per decisione comune i Dream Syndicate staccano la spina dopo aver dato alle stampe il glorioso Live at Raji’s.


Wynn se ne andrà per una fortunata avventura solista e tante invenzioni musicali, con Danny&Dusty (di cui è raccontata la simpatica vicenda, specchio dei glory days di un tempo che fu) con i Gutterball, i Miracle 3 e il Baseball Project, per poi riunire nel 2012 la vecchia band e far uscire cinque anni dopo How Did I Find Myself Here, primo album dell'avvenuta rinascita. Ma questa è un’altra storia che l’autore racconterà nel volume 2 di Non lo direi se non fosse vero. Libro che si chiude con questa confessione: Alla fine dei conti posso guardare indietro alle migliaia di concerti che ho fatto, alle diverse decine di dischi che ho inciso, agli amici che ho incontrato lungo la strada, ai pasti che ho consumato, alle storie che ho imparato, vissuto e ripetuto, e non cambierei nulla, nemmeno un singolo momento. Tutto ciò che so è che quando sto compilando un modulo e vedo uno spazio vuoto per ‘occupazione’, posso scrivere onestamente e con orgoglio ‘musicista’. E questo mi basta” .

MAURO ZAMBELLINI   MARZO 2025

 

giovedì 23 gennaio 2025

THE ALLMAN BROTHERS BAND Final Concert 10-28-14




Concerto storico della Allman Brothers Band non fosse altro perché è il finale della loro lunga, controversa, altalenante, esaltante avventura musicale. La sede è quella a loro più congeniale, ovvero il Beacon Theatre di New York, la loro seconda patria, la data quella del 28 ottobre 2014 per il 45esimo di carriera. C’erano stati seri problemi di salute negli anni appena precedenti, Gregg Allman si era sottoposto a un trapianto di fegato e poi aveva sofferto gravi problemi respiratori che lo avevano invalidato, Dickey Betts era già fuori dal giro da diverso tempo e nel 2012 l’ annuale residency primaverile degli Allman al Beacon era saltata. Mai come in quel periodo la band sembrava appesa ad un filo ma il 7 marzo del 2014 i sette (oltre agli storici Gregg, Jaimoe, Butch Trucks c’erano i due condottieri Warren Haynes e Derek Trucks, il bassista Oteil Burbridge ed il percussionista Marc Quinones) si presentarono sul palco dello storico locale al numero 2124 di Broadway per  dare inizio ai concerti in cartello, come ogni anno.  Durante la seconda data Butch Trucks se ne andò prima dell’encore di Southbound, una improvvisa perdita di memoria non gli permise di continuare, non aveva idea di cosa stesse facendo, era completamente smarrito. Fu sostituito da suo nipote Duane, fratello di Derek, e dal percussionista Bobby Allende. Trucks rimase tre giorni in ospedale  e gli diagnosticarono una TIA ma prima della serata del 21 marzo i  Brothers dovettero fare a meno anche di Gregg, ospedalizzato per una nuova crisi respiratoria. La band corse ai ripari ingaggiando i tastieristi Kofi Burbridge e Rob Barraco, il sassofonista Bill Evans e Susan Tedeschi nelle vesti di cantante e chitarrista. Si aggiunse alle voci il figlio di Gregg, Devon e per il concerto seguente fu convocato da Nashville il cantante di Wet Willie, Jimmy Hall, ma per le serate successive Warren Haynes fu lapidario: non si potevano tradire i fans che avevano acquistato biglietti, prenotato alberghi e pagato voli, presentando una band senza il proprio cantante. Gli ultimi quattro show newyorchesi furono quindi posticipati a data da stabilirsi e dopo alcune apparizioni estive la band si ripresentò al Beacon nell’ottobre dello stesso anno. Il rush finale iniziò il 21 ottobre, il concerto finale avvenne il 28 (ma si concluse che già era il 29, nello stesso giorno in cui 43 anni prima moriva Duane) e, dato che era l’ultimo atto, invitarono anche Dickey Betts ma il tentativo andò a vuoto. La storia è raccontata compiutamente nel libro della Shake The Allman Brothers Band-I Ribelli del Southern Rock (2021),  per la festa conclusiva del 28 arrivarono da tutti gli Stati Uniti parenti ed amici a dimostrazione del grande affetto che legava una comunità che né i lutti, i dissidi, i processi, le droghe e l’alcol, le malattie aveva scardinato. Seppure acciaccati, già dalle prime note di Little Martha si capisce che la serata avrebbe lasciato in eredità qualcosa di speciale. Non poteva essere diversamente . La fine della strada era cominciata da un poetico e nostalgico riavvolgimento del nastro dei flashback che ogni secondo di quella straordinaria storia riportava alla memoria Duane Allman. I sospiri languidi e acuti dell’emozionante brano di Duane, suonato dall’acustica di Derek in armonia elettrica con Haynes, confluiscono in un’esplosiva Mountain Jam per poi aprirsi alle due canzoni di apertura del loro primo album: Don’t Want You No More e It’s Not My Cross To Bear.  Finalmente, seppure di non facile reperibilità e a un costo non propriamente economico, almeno per quanto riguarda il supporto fisico  quella straordinaria serata è ora disponibile in un triplo CD che testimonia come la band fosse ancora in grado di ricreare la grandeur di un tempo e avere numeri da novanta nel proprio carnet, tanto che sulla rivista Rolling Stone David Fricke scrisse che quella serata non sembrava proprio un addio. Basta ascoltarsi i dieci minuti di Blue Sky per capire che la  nuova generazione ovvero i chitarristi Trucks e Haynes  non soffriva rispetto ai titolari Duane e Betts e nei tanti blues della set list il drumming di Butch Trucks stantuffava come un pistone di un bicilindrico, il percussionista Marc Quinones metteva carbone alla caldaia e Gregg, commovente nel recuperare le ultime forze a sua disposizione (nella tenera Melissa  affiora la stanchezza di una vita on the border) cantava come nelle grandi occasioni, ricavando dal suo Hammond un suono stagionato, rotondo, pastoso. Ventinove titoli sparsi su tre CD, tutta la loro carriera riassunta in una serata grazie ad uno show stratosferico, tra i migliori della loro sterminata produzione live. Assoli e jam, gioco di squadra e individualismi da fa far accapponare la pelle, blues, rock, psichedelia e soul, Final Concert 10-28-14 è la degna conclusione di una delle avventure musicali americane che hanno fatto storia.  Superfluo fare l’elenco di ogni traccia di questa grazia divina, mi limito nel segnalare i brani più lunghi, i tredici minuti e mezzo del medley You Don’t Love Me/Soul Serenade/You Don’t Love Me,  gli undici minuti di una personalissima Good Morning Little Shoolgirl di Sonny Boy Williamson, i tredici minuti di una vigorosa Black Hearted Woman,  i nove della The Sky Is Crying di Elmore James,  gli undici e passi della cosmica Dreams, i diciooto di una Elizabeth Reed mai cosi rilassata, jazzata, intervallata dal tribale numero di percussioni e batteria di JaMaBuBu,  i sedici e oltre  di una delirante Whpping  Post messa nell’encore ed una Mountain  Jam  divisa in tre momenti, quattro minuti all’inizio di concerto poi altri nove minuti nel finale e, dopo l’intermezzo della corale e celebrativa Will The Circle Be Unbroken, ulteriori undici minuti e passa. Una volta concluso l’encore di Whipping Post,  i sette membri del gruppo si schierarono di fronte al pubblico con un inchino, poi Gregg, spinto avanti dagli altri, tenne un breve discorso in quello che qui viene riportato come Farewell Speeches, ricordando il giorno in cui, per la prima volta, cantò con la formazione originale della Allman Brothers Band, in una jam session nella loro Jacksonville. Gregg citando la data precisa, il 26 marzo 1969, afferma, con voce bassa e logora: “Non avevo idea che si potesse arrivare a questo”. Fra gli applausi aggiunge: “Ora... faremo la prima canzone che abbiamo mai suonato”, ed il tributo a Muddy Waters di Trouble No More , il brano che aveva dato inizio a tutto  esce dalle voci dell’intero Beacon Theatre.

Un rammarico non aver potuto assistere a un evento del genere, una festa della musica  pur contrassegnata dalla malinconia di un addio, ci sono occasioni nella vita che non andrebbero perse anche a costo di sacrifici e altre rinunce. Relegati nella periferia dell’Impero non possiamo che accontentarci di ciò che la storia lascia dietro di sé ovvero questo irrinunciabile e fantastico documento, una miseria al confronto di poter essere stati realmente sotto quel palco. Baratterei una ventina di concerti del Boss (dei trentatrè visti) per uno dei loro ma il tempo non aspetta nessuno. 

Prodotto dalla ABB con Bert Holman, pubblicato dalla Peach Records, qualità audio di prim’ordine, se c’è un live degli Allman che porterei sull’isola deserta assieme al Fillmore East è questo.

MAURO ZAMBELLINI    GENNAIO 2025