mercoledì 24 marzo 2010

Willie Nile #1


Willie Nile (parte 1)
di Marco Denti e Mauro Zambellini

L'11 settembre 2001 Keith Neudecker, sopravvissuto agli attentati, torna a casa dalla moglie da cui si era separato un anno prima. La valigetta che ha con sé non è la sua, ma di Florence, un'altra sopravvissuta con cui stringerà una relazione. Attorno a loro cresce l'enigma di Bill Lawton e di un artista che cerca di riprodurre i corpi nel loro ultimo e disperato volo dal World Trade Center. Forse proprio per questo approccio indiretto, a tratti persino dadaista, nella trama dell’Uomo che cade, un romanzo di Don DeLillo la sua visione degli eventi storici dall'11 settembre 2001 in poi è tra le analisi più lucide di come e quanto quegli stessi eventi abbiano inciso sulle nostre vite, sul nostro modo di pensare. A New York City, dopo l'11 settembre 2001, le risorse dell'immaginazione e dell'immaginabile sembrano non bastare, ma ai bambini, che sono protagonisti di un percorso parallelo e contiguo che scorre nell'underworld dell’Uomo che cade, basta deformare un nome preso dall'aria nera della realtà per ottenere Bill Lawton, l'emblema di tutte le paure, degli allarmi, delle paranoie, dei mostri nascosti nel buio e nella coscienza. Sono quelle le piccole soluzioni, cambiare un nome per cambiare una percezione, che servono ad arrivare a tracciare “una piega profonda nella trama delle cose, nel modo che hanno le cose di attraversare la mente, nel modo che ha il tempo di oscillare nella mente, che è poi l'unico posto in cui esiste in maniera significativa”. Mettere in gioco le parole o il proprio corpo, come fa l'uomo che cade, dall'11 settembre 2001 non è più e non è soltanto un'arte o un modo per non “sprofondare nelle nostre piccole vite”, ma è un esorcismo per salvaguardare quello che ci portiamo dentro, che poi è tutto quello che conta. Il senso di smarrimento nelle strade di New York di Don DeLillo o Patti Smith o Bruce Springsteen per citare altri due artisti che si sono spesi nel cercare di sviscerare quei drammatici e lugubri momenti non è soltanto personale (come si legge nell’Uomo che cade: “Continuo a ripetermi che sono proprio qui. Non ci si crede. Trovarsi qui e vedere tutto questo”) o storico (è lapidario Don DeLillo quando scrive: “Presto verrà il giorno in cui nessuno più penserà all'America, se non in virtù dei pericoli che crea. Sta perdendo la sua centralità. Sta diventando il centro della sua stessa merda. E’ l'unico centro che occupa”). Dovrebbe essere anche filosofico e in modo pungente quando dichiara che “la verità era condannata a un lento e inevitabile declino”, ma questa, dentro un romanzo denso di riflessioni e mappe mentali, è soltanto un'amara e incondizionata resa davanti a un mondo in cui gli aerei entrano nei palazzi e i “cellulari suonano nelle tasche dei cadaveri”. New York, “tempi duri in America”, all'inizio di un nuovo secolo di morte. Essere cresciuti con Bob Dylan e con la Beat Generation e ritrovarsi a vivere lì l’11 settembre 2001 deve essere stata un’esperienza traumatizzante, paragonabile soltanto allo stress post-traumatico degli shock da combattimento. Non c’è solo il vuoto dove prima c’era il World Trade Center. C’è il vuoto alle spalle, il vuoto in cielo, il vuoto ovunque. “C'è l'evento, il fatto specifico. Misurare quello. Lasciare che ci insegni qualcosa. Vederlo. Porsi sul suo stesso piano” scrive Don DeLillo ed è qui che certi arcani vanno sviluppati. E Don DeLillo sa che anche di fronte alla peggiore catastrofe “Noi vogliamo trascendere, vogliamo oltrepassare i limiti della comprensione innocua, e quale modo migliore di farlo se non tramite la creazione di fantasia”.
Il senso è questo, qualcuno l’ha fatto costringendo le parole a uscire da una chitarra elettrica.
Willie Nile, un cantautore che da sempre vive a New York, ha saputo descrivere i giorni che viviamo in una canzone tagliente, dura e dolorosa il cui titolo, Cell Phones Ringing (In The Pockets Of Dead) è tanto surreale quanto esplicito. Lo stesso effetto, quello di raccontare quella strana cosa che ormai è diventata la realtà con uno sguardo obliquo, sghembo, quasi onirico come fa L'uomo che cade di Don DeLillo, diventa il suono sferragliante di una città, l’urlo di chi legge nei titoli delle ultime notizie qualcosa che è incredibile, terrorizzante, brutale e macabro nello stesso tempo. “Cellulari suonano nelle tasche dei morti” e benvenuto ventunesimo secolo. Non c’è via di fuga, se non attraverso quell’esorcismo che è il rock’n’roll e allora la crudele constatazione diventa una canzone e la canzone finisce nel cuore del disco più intenso e coraggioso di Willie Nile, quello che non a caso s’intitola Streets Of New York perché come direbbe William Carlos Williams “un uomo è egli stesso una città”. L’uomo, in cima a trent’anni di su e giù in una carriera ammirevole, è proprio Willie Nile. La città, aggredita e mutilata, è pur sempre New York. L’uno e l’altra, indivisibili.
C’è un aspetto cosmopolita nelle canzoni e nella musica di Willie Nile che non ostenta le differenze e/o le influenze, ma tende a sintetizzarle, a renderle uniche (come succede a NYC, come succede in quell’ibrido fenomenale che è il rock’n’roll). Una parte essenziale delle sue radici è alla base di questa disposizione, la fonte per cui gli viene naturale essere considerato una voce essenziale della città. Una tensione persino romantica nel coltivare la passione per le “strade di New York”, per gli aspetti più complessi e affascinanti di una città di cui è parte, che ha radici ben più profonde, nonostante sia nato a Buffalo. Cresciuto in una grande famiglia irlandese e cattolica in cui i fratelli più grandi compravano dischi e mandavano rock’n’roll a tutto volume così come i genitori ascoltavano musica classica, Willie Nile non solo si è formato in un denso humus musicale, ma anche in una naturale condizione cosmopolita. Gli ospiti della sua famiglia (da ogni parte del mondo) gli insegnavano, anche soltanto con la loro presenza, che esistono abiti, usanze, lingue, cibi differenti che magari vale la pena di scoprire, se non proprio di conoscere e condividere. Quell’educazione spontanea, insieme al fatto che il padre era un naturale e appassionato storyteller, spinse ben presto il giovane Willie Nile verso la scrittura. All’inizio sono piccole poesie, ma non appena imparò a suonare la chitarra la trasformazione in canzoni fu inevitabile e il background musicale, cosmopolita e letterario cominciò a fermentare. D’altra parte l’attrazione verso New York era un’ossessione crescente anche perché la città è una delle ultime isole della Beat Generation, che appassionava Willie Nile quanto e più del rock’n’roll. Sull’onda della passione per quei sognatori (Allen Ginsberg e Gregory Corso in particolare), si trasferì a New York, ma anche perché le etichette discografiche sono lì e New York è più vicina a Buffalo di Los Angeles o Nashville.
Così ricorda lo stesso Willie Nile: “Avevo un mucchio di canzoni e volevo farne un disco. Facevo l’autostop da Buffalo in estate e dormivo nel parco. Pensavo fosse un posto magico: in città mi sentivo libero”.
Non se ne andrà più, anche perché la città gli svelerà il suo destino: “E’ stato un periodo fantastico. Ho vissuto nel Village fin dal 1972 e c’erano parecchi fantasmi dei Sixties nell’aria. C’era anche una certa pretestuosità nei quartieri attorno che ho sempre trovato ridicola. Un giorno stavo cercando sul giornale nuovi posti dove suonare e vidi un annucnio per il CBGB OMFUG. Era sulla Bowery e non era molto lontano da dove vivevo, così presi la chitarra e ci andai a piedi. All’epoca era un posto frequentato soprattutto dagli Hell’s Angels con un sacco di personaggi della Bowery”.
Oltre al CBGB’s, che resterà nella storia per essere diventato l’epicentro del sound di New York, Willie Nile sarà di casa anche al Songwriter’s Exchange del Cornelia Street Café e al Kenny’s Castaways. Sono le tappe del suo provare a “crescere in pubblico”, per dirla con Lou Reed. Le sue canzoni lasciano il segno: non cerca di imitare Bob Dylan, come verrebbe spontaneo a chiunque, non cerca il numero a effetto o la sorpresa dei fuochi d’artificio. E’ soltanto un songwriter che, quando sale su un palco, ha un’energia particolare. Senza essere aggressivo o caotico, ma è chiaro che nella sua testa non c’è solo il suono della voce e della chitarra del folksinger, ma quello di una vera e propria rock’n’roll band.

Diventerà chiaro al momento del suo esordio, nel 1980: Willie Nile rimane ancora oggi un cardine fondamentale per i songwriter urbani, quelli che hanno eletto New York capitale del loro mondo. L’immagine immediata è romantica e misteriosa nello stesso tempo e tale resterà perché Willie Nile vive sul confine tra giorno e notte, come lui stesso ha ammesso: “Il mondo è metà innocente e metà folle. In alcune giornate vuoi il rock’n’roll; in altre vuoi l’amore. Quando sei fortunato li ha tutti e due nello stesso tempo. La più grande gioia per me è comporre canzoni, trovare qualcosa di bello in un posto dove non potrebbe essere, combinare parole e melodie che parlano a quella parte dell’anima che è stata nell’ombra troppo a lungo”. L’esordio di Willie Nile è stato, in un certo senso, l’apoteosi di quel gusto per la ballata elettrica che era cominciato con Bob Dylan e che aveva poi trovato in Darkness di Bruce Springsteen la sua essenza. All’inizio è Bob Dylan, naturalmente. E’ da lì che è cominciato tutto, ma Willie Nile ha avuto l’accortezza, se non proprio l’originalità di aver imparato la lezione, e di aver cercato una strada personale, pur partendo da quell’indiscutibile punto di riferimento. Willie Nile, il disco, e Willie Nile, il musicista, focalizzavano e lucidavano quella forma, quella disposizione verso il rock’n’roll e la poesia che non aveva la dimensione artistica a tutto tondo di Patti Smith o la drammatica e lacerante visionarietà di Jim Carroll o Richard Hell, ma che aveva tutta l’aria di essere un trait d’union tra il sotterraneo e il superficiale, tra il centro e la periferia, tra words & music. Viene spontaneo il paragone, fatte salve le differenze stilistiche, con gli esordi di Elvis Costello. Sebbene la visione comune lo identifichi come l’alfiere del romanticismo, Willie Nile, proprio come Elvis Costello sul versante inglese della rivoluzione, ha partecipato all’ultima svolta elettrica del rock’n’roll, con la grazia che è propria degli storyteller e dei songwriter.
La copertina, il bianco e nero è di rigore, la fotografia di un giovane di bell’aspetto con giacca, camicia scura e sigaretta tra le labbra: Willie Nile è un disco che trasuda New York da tutti i solchi e mette in fila una sequenza di canzoni capaci di catapultarvi in un film sotto una luna vagabonda, dietro la cattedrale mentre qualcuno sing me a song. Scampoli di romanticismo springsteeniano, espliciti fino nel titolo di Across The River e riminiscenze di linguaggio stonesiano (She’s So Cold) mischiati con crudi scatti di vita urbana come gli Old Men Sleeping On The Bowery e accorate preghiere (Dear Lord), il tutto all’insegna di un rock n’roll diretto, tagliente e senza fronzoli, che sapeva di Fender, di ritmi nervosi e di riff degli Who. Allora la stampa americana gli era corsa attorno gridando al “nuovo Dylan”, l’ennesimo, il solito, ma era solo l’inizio.

1 - continua

5 commenti:

sergio ha detto...

ho già prenotato i biglietti del concerto a BS il mese prossimo .

zambo ha detto...

mi sembra la cosa migliore da fare in questa Pasqua anche se penso che nella band che lo accompagnerà non ci sarà il chitarrista Andy York, artefice del sound delle sue ultime ottime uscite discografiche.
Ci accontenteremo

SoloDinamo ha detto...

analisi perfetta...conosco poco purtroppo Willie Nile, in compenso ho la mia bella copia di STREETS OF NEW YORK con l'autografo e la dedica (tutto grazie ad un'amica che è andata neli USA a suo concerto e me l'ha fatta autografare). Bellissimo disco, da ascoltare in spiaggia :)

beppe il pignolo ha detto...

bell'articolo, tutto torna...ma da come la racconta willie qui - http://www.puremusic.com/63willie4.html - la canzone "Cell phones ringing" sarebbe stata scritta dopo gli attentati alla stazione di Madrid del 2004 quando dall'interno delle sacche delle vittime allineate lungo i binari cominciarono ad arrivare le chiamate dei loro cari...non ho potuto fare a meno di notarlo,ricordavo l'intervista..., e comunque ciò non cambia il senso del tuo articolo, potrebbe essere madrid o londra o n.y.
la vita sa essere agghiacciante,a volte..

saluti

zambo ha detto...

beppe, tu hai ragione ma la cosa viene spiegata più avanti. il pezzo è molto più lungo e come vedi questa è solo la prima parte