sabato 5 giugno 2010

Tom Petty and the Heartbreakers > Mojo


Il nuovo disco di Tom Petty è all’insegna del blues. Il titolo non mente, mojo è termine che entra nella leggenda del blues fin dalle esplicite allusioni sessuali di Got My Mojo Workin’ di Muddy Waters. Dopo la pubblicazione nel 2009 del monumentale The Live Anthology e del rockumentario Runnin’ Down A Dream di Peter Bogdanovich nel 2007, Petty torna ad un album di studio vero e proprio. Erano otto anni che non succedeva, da Highway Companion anche se di mezzo c’è quel piccolo capolavoro di rock d’annata chiamato Mudcrutch, nome della prima band del rocker seminole.
Mojo è diverso sia da Mudcrutch che da Highway Companion, è un disco molto influenzato dal blues, da suoni e chitarre che ricordano a tratti J.J Cale ed Eric Clapton se non addirittura il British Blues. Ci sono pezzi molto riusciti, ballate accattivanti ma anche qualche traccia ripetitiva e routinaria, con l’aria stanca. Non c’è il Petty dei suoi album classici ma neanche gli arrangiamenti orchestrali di The Last D.J.

Mojo è un disco abbastanza sobrio nel sound alla Heartbreakers perché poi, come lunghezza complessiva, siamo oltre l’ora, alcuni brani sono molto lunghi ed elaborati ed in qualche episodio fa capolino quel rock californiano che negli anni settanta contraddistingueva i Fleetwood Mac post-blues. Insomma Mojo è un disco da sentire parecchio perché non è di immediata fruibilità, diverso dall’usuale clichè di Tom Petty con gli Heartbreakers.
Si apre con Jefferson Jericho Blues ed è subito chiaro che l’armonica e le chitarre spingono verso Chicago ma il seguente First Flash of Freedom rimpiazza il blues con l’aria californiana di una ballata crepuscolare che sta tra i Mac e i Black Crowes di America.
Running Man’s Bible è uno dei pezzi più accattivanti dell’album, gran lavoro di Hammond, ritmo incalzante e continue esplosioni, rock n’roll e blues, un po’ di J.J Cale ed il gran gioco delle chitarre. Più melenso Pirate’s Cave 5 che tra suoni rarefatti e laid back rivanga il Clapton della Florida di primi anni ’70. Ancora J.J Cale in No Reason To Cry ma forse è ancora Clapton visto che il titolo è rubato ad un suo disco del 1976 mentre un po’ routinarie suonano (almeno al primo ed unico ascolto) sia I Should Have Known It sia Takin’ My Time che Don’t Pull Me Over.
Di tutt’altra pasta US 41 dove la voce filtrata, una chitarra acustica che sembra uscire da un 78 giri ed un sound di country-blues sporcato di acqua di paludi fa molto John Hiatt.
Di prima qualità anche Let Yourself Go con l’organo sixty ed una armonica alla John Mayall, relaxin’ and bluesy al punto giusto e pure Lover’s Touch, lenta, notturna, bluesy. Con High In The Morning si sente il true classic Petty sound mentre Something Good Coming è una slow song triste degna di uno Springsteen intimista.
Chiude un album lungo e complesso, per nulla scontato, ricco di alti e (qualche) basso, Good Enough, chitarre loud alla Zeppelin e Hammond in sottofondo, ennesima riprova di un disco che non si accontenta di accondiscendere un clichè collaudato e fortunato ma coraggiosamente tenta nuovi itinerari, come al tempo fece Southern Accents, più apprezzato poi che al momento dell’uscita.

Il 6 maggio è iniziato il 2010 North American Tour che vedrà Tom Petty e gli Heartbreakers toccare le più importanti città americane e canadesi, supportato a seconda delle date da Joe Cocker, Drive By Truckers, Crosby Stills Nash e My Morming Racket. Chi può vada a vederlo, l’8 giugno è a Vancouver, il 17 luglio a Chicago, il 28 luglio a New York, il 26 settembre a Phoenix e il 1 ottobre a Los Angeles. Oltre a tutto il resto.

Mauro Zambellini Giugno 2010

5 commenti:

Fabio Cerbone ha detto...

Caro zambo, ma sai che questo Mojo a me non dispiace affatto...sono solo ai primi due ascolti, ma quest'aria da jam anni 70, un po' California, un po' Chicago, un po' southern felling, è quello che ci vuole per l'estate :-))

Paolo Bassotti ha detto...

Ai primi ascolti mi sembra pieno di riempitivi e a tratti un po' soporifero. Lo salva la statura di chi c'è dietro. Molto blues, da parte di chi con il blues ci sa fare. Con un produttore severo in grado di ridurre il tutto a una quarantina di minuti potevamo avere un album solidissimo.

PS: A me certe pagine leggerissime di The Last DJ non dispiacevano affatto!

Paolo Bassotti ha detto...

PPS: Pirate's Cove mi sembra davvero molto simile a Slobo Days di Peter Green, dall'album con Snowy White "In The Skies".

Paolo Bassotti ha detto...

PPPS (sperando di non disturbare!): se può interessarti - e interessare chi visita il tuo blog - nel frattempo ho scritto il mio articolo su Mojo: http://www.gibson.com/it-it/Stile-di-Vita/Novita/tom-petty-0614/

zambo ha detto...

Paolo, ho letto la tua recensione, sono d'accordo in termini generali ma sui brani no. Quelli che piacciono a te a me piacciono meno, al contrario first flash of freedom, running man's bible e the trip to private's cave mi piaccino molto