martedì 21 febbraio 2017

THE OLD AND THE YOUNG

 
 
Giovani e vecchi insieme, nella musica non conta l'età ma il sentimento, il rispetto, la coerenza. Prendete Joe Henry, musicista, produttore e autore di area folk americana che ha saputo rivitalizzare all'inizio del nuovo secolo un semi dimenticato Solomon Burke (1940-2010) attraverso un disco, Don't Give Up On Me che ha portato il Re del Soul a confrontarsi con canzoni di Van Morrison, Bob Dylan, Elvis Costello, Tom Waits, Nick Lowe, Brian Wilson offrendo versioni di una ricchezza e freschezza incredibili. Così possiamo dire di Jeff Tweedy di Wilco che ha ridato lucentezza e reso accessibile ad una platea rock la cantante gospel Mavis Staples  (classe 1939)  producendole i due formidabili You Are Not Alone  e One True Vine, e ancora, per citare i casi che mi vengono in mente, Patterson Hood dei Drive By Truckers produttore e musicista dell'espressivo affondo noir di Bettye Lavette (classe 1946) in The Scene Of  The Crime. Per non dire di Rick Rubin, produttore a tutto campo e di larghe vedute, che ha regalato una seconda carriera a Johnny Cash con la sequenza dei memorabili American Recordings.  Quando il giovane incontra il vecchio spesso sono miracoli, specie se fuori dai calcoli del marketing.

L'ultimo in ordine di tempo riguarda l'attenzione che il giovane folk-rocker americano Steve Gunn ha rivolto al veterano del folk-progressive inglese Michael Chapman (classe 1941), autore di una sequenza interminabile di dischi alle spalle a partire dall'esordio nel 1969 (Rainmaker) ma finito nel circuito di nicchia se non ci fosse stato Gunn ed un pugno di artisti "contemporanei" (Lucinda Williams, Maddy Pryor, William Tyler, Hiss Golden Messanger, Thurston Moore) a rendergli omaggio nel 2012  col tributo Oh Michael, Look What You've Done: Friends Play Michael Chapman  per la specializzata etichetta Tompkins Square. Ancora di più ha fatto Steve Gunn, giovane promessa del nuovo folk-rock americano con una militanza nei Violators di Kurt Vile, che come racconta lo splendido video di Ancient Jules se ne va con una moto BMW assolutamente vintage tra le strade silenziose della campagna inglese a casa di Michael Chapman per chiacchierare con lui sul passto ed il presente, sorseggiare un te e duettare insieme con le chitarre. E'un video illuminante oltre che romantico, non solo l'incontro di due musicisti, ma una pillola di saggezza musicale, due mondi che si incontrano, il vecchio e giovane folk, la provincia inglese e quella americana, un artista dimenticato sebbene di culto ed uno sulle pagine delle riviste specializzate, sebbene di nicchia. Certe volte conta di più il rispetto che tutto il resto. Il rispetto Steve Gunn di Lansdowne, Pennsylvania ma di base a Brooklyn, se lo è conquistato con una discografia improntata alla sperimentazione e all'eclettismo, vedendolo collaborare oltre che con Kurt Vile, con Mike Cooper, con gli Hiss Golden Messenger, con Mike Gangloff e con i Black Twin Pickers con cui ha realizzato il clamoroso Seasonal Hire  nel 2015 .

 L'essere all'avanguardia non gli ha impedito negli anni di solidificare, pur in una libertà esecutiva di prim'ordine, una forma canzone che trova la sua esuberante e per certi versi innovativa tecnica chitarristica sposarsi con la scrittura, le armonie e la melodia che necessitano per qualificarsi come songwriter. Il risultato è l'ultimo disco del nostro, l'eccellente Eyes On The Lines  pubblicato lo scorso anno dalla Matador, nove canzoni che parlano di maree e pleniluni, passeggiate notturne e panchine nel parco dove la voce particolare tra baritono e mormorio trasognato di Gunn si appoggia ad un suono che intreccia senza margini folk progressive di natura english cn echi degli Appalachi, visioni cosmiche e riverberi garage, acidità west-coast e feedback da costa orientale proprie dei Feelies.

Un disco dove è facile e piacevole perdersi (ascoltarsi Ark e cercare di non smarrire la strada di casa) e le narrazioni sono ispirate alla scrittrice contemporanea Rebecca Solnit, mentre un nugolo di musicisti di grande presa sonica, oltre alle chitarre acustiche ed elettriche di Steve Gunn ci sono Nathan Bowles con percussioni, banjo e organo, Hans Chew col piano, James Elkington e Paul Sukeena con le chitarre, Mary Lattimore con l'arpa, Jason Meagher col basso ed il flauto, Justin Tripp con le tastiere e John Truscinski con la batteria, rende moderno un folk-rock che ha il cuore nel passato e i piedi nel presente.

 
 Alcuni di questi musicisti si sono ritrovati pochi anni fa con Michael Chapman a provare il nuovo Black  Dirt Studio di Jason Meagher a NY e da lì sono nate le base per la registrazione di 50  il recente lavoro dell'artista inglese. L'amicizia tra Chapman e Gunn risale al 2006 al festival della chitarra di Portland nel Maine, perché se Gunn è uno dei chitarristi più originali tre le nuove generazioni, Chapman ha un curriculum sullo strumento di provata esperienza pur rimanendo esiliato nel limbo degli outsider. Chitarrista sopraffino, elegante ed originale il cui stile è stato influenzato da Big Bill Broonzy e Django Reinhardt, oltre che songwriter di un taglio unico assimilabile a John Martyn, Chapman all'inizio degli anni settanta fu in procinto di entrare nella band di Elton John e nella sua lunga discografia, che per prolificità potrebbe competere con quella di Willie Nelson, diversi sono  gli episodi solo strumentali testimonianti del suo lavoro sullo strumento tanto da essere considerato il padrino della chitarra rock sperimentale. Ma è il feeling che si è instaurato tra il maestro e quei ragazzi ad aver reso possibile 50 , che personalmente reputo uno degli episodi discografici imperdibili di questo inizio 2017, un disco magico dai colori invernali con squarci di luce cristallina ed una voce profonda e grave che si infila nel cuore e non vi lascia più andare.
 Registrato senza troppa programmazione ma lasciando scorrere strumenti ed emozioni secondo l'istinto del momento, 50  (gli anni di attività di Chapman nella musica) è un disco di poesia e immagini, un disco visionario in cui l'autore rivisita con una nuova prospettiva americana qualche classico del suo repertorio ed una manciata di canzoni inedite, accompagnato da una band che rappresenta l'elite più cool dell'attuale scena alternativa statunitense (Nathan Bowles, il prodigioso James Elkington, il bassista Jimy SeiTang, Jason Meagher e la folksinger Bridget St.John ai cori). Lo stile circolare chitarristico di Steve Gunn si innesta sugli arpeggi di un Chapman sfoderante estro e dilatazioni tanto da trasformare un tessuto che originariamente potrebbe essere etichettato come folk in aperture di rock psichedelico, di progressive, di dawg-jazz, di bluegrass e di virtuosismi alla John Fahey e dove la malinconia latente in tutto il disco suona ammaliante e confortevole, come fosse riscaldata da un camino in un casolare perso tra le nevi. Disco suggestivo con storie di strada (Spanish Incident), di città (Memphis In Winter), di sciagure ambientali (Sometimes You Just Drive), di boschi e lavoro (I Don't Mind Working As A Beast of Burden?)  nel quale le emozioni sembrano sospese in uno spazio senza tempo in cui il vecchio ed il nuovo si fondono con adamantina bellezza. Magia di altri tempi con il tratto distintivo di oggi.
MAURO    ZAMBELLINI    FEBBRAIO 2017









5 commenti:

Bartolo Federico ha detto...

Un disco che ho ascoltato con stupore, in un genere musicale(americana) che sta diventando almeno per me, parecchio noioso. Qui è come vedere una nuova luce.Ciao Zambo.

bobrock ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
armando ha detto...

Seguirò come sempre i tuoi "consigli per gli acquisti" sperando che quest'anno possa essere florido e foriero di bei dischi come quello appena passato. Certo nessuno qui grida al miracolo...difficile inventare qualcosa di nuovo e bisogna pur sperimentare per riuscire a trovare il centro. Sono comunque felice ed ottimista quando escono dischi onesti e fatti con il cuore. Concordo con Roberto verso il folk che a volte nelle intenzioni è buono ma i risultati spesso deludono (ad esempio l'ultimo di Bragg ed Henry) almeno per me e quindi ripongo la fiducia in lavori di questo tipo.

Armando Chiechi

Zambo ha detto...

Roberto e Armando, avete ragione, spesso quando si parla di folk bisogna andare coi piedi di piombo. Il disco di Henry/Bragg è moscio e risaputo da morire, difatti me ne sono tenuto a distanza, nemmeno per un attimo mi è venuto voglia di acquistarlo. Ma i dischi di Steve Gunn e Michael Chapman di cui si parla qui sono altra cosa, è folk contaminato da rock, psichedelia, improvvisazione, ballate di una bellezza ammaliante, con chitarre che sono una goduria per le orecchie. Ho usato la parola folk ma è un folk centrifugato con fantasia e spregiudicatezza, un folk progressivo.

bobrock ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.