mercoledì 30 giugno 2010

the Faces #2


Quattro album in sei anni di vita di cui uno, A Nod Is As Good As A Wink… datato 1971, entrato nelle Top Ten oltre ad una inesauribile attività concertistica che li vide suonare in ogni angolo del mondo, dall’Europa all’America, dall’Oceania al Giappone con il record di sei tour in un solo anno (1970) negli Stati Uniti dove divennero una sorta di cittadini “onorari”. Questo è il curriculum della band londinese.
I Faces furono una macchina da guerra del rock n’ roll ma non raccolsero quanto seminarono, pur non privandosi dello stile di vita proprio delle rockstar con tutto quanto ciò comportava in termini di alberghi, limousine, parrucchieri, sarti, vestiti attillati, pailettes, groupies e bevande ma questo stile di vita veniva filtrato da un atteggiamento irriverente, scanzonato, goliardico.
I Faces hanno incarnato il vero spirito del rock n’roll, hanno cantato il boogie col gusto pesante della feccia cockney, hanno inscenato una parodia rock del maschilismo come e qualche volta meglio degli Stones, cogliendo il ritmo dell’attrazione e repulsione tra i sessi con una tensione ed una spregiudicatezza che “il trasgressivo” glam, allora di moda, manco si sognava. Hanno avuto la spudoratezza di mettere la purezza del blues ed il candore del soul dentro la sporcizia di un rock n’roll di periferia pieno di stacchi duri, di accelerazioni nervose, di piani ed organi da bordello, di urlacci e riff, eccitando con il ritmo e commuovendo con un pugno di ballate che ancora oggi sono una stretta al cuore.
Pur essendo degli ottimi musicisti non si presero mai troppo sul serio, preferendo il ghigno beffardo, la battuta e l’ alzata di spalle alla pompa magna del circo del rock, in quegli anni particolarmente tronfio.

La loro storia comincia quando il leader degli Small Faces, Steve Marriott alla fine del 1968 annuncia di voler costituire una nuova band, gli Humble Pie, con il chitarrista Peter Frampton. I tre ex compagni ovvero Ian McLagan, Ronnie Lane e Kenney Jones seppure demoralizzati non fanno drammi e dopo aver declinato l’offerta di diventare la band di Donovan, nella primavera del ’69 si mettono a provare assieme a Rod Stewart e a Ron Wood, i quali si trovano in un momentaneo break della loro avventura con il Jeff Beck Group. Sia Stewart che Wood erano fans degli Small Faces quindi l’unione non fu cosa difficile. Gli ex Small Faces non potevano che guadagnarci da una simile unione visto che non erano mai stati negli Stati Uniti, a contrario di Stewart e Wood che col Jeff Beck Group ci avevano già suonato e sapevano com’era fatto il pubblico americano. Un approccio non sempre easy visto che Rod Stewart fu talmente terrorizzato dal pubblico del Fillmore East di New York che preferì cantare dietro il mucchio degli amplificatori.
Quando il pianista dei Rolling Stones Ian Stewart, grande amico di Ronnie Lane, offre loro gratis uno scantinato per suonare in Bermondsey Street nella zona sud di Londra, l’embrione del nuovo gruppo prende forma anche se Rod Stewart per il momento non è ancora della partita e gli altri quattro si divertono a jammare scambiandosi ruoli e strumenti ed invitando alle loro sedute il batterista del JBG Mickey Waller e l’ex chitarrista dei Blue Cheer Leigh Stephens.
Ronnie Lane canta e suona sia il basso che il piano Wurlitzer, Ian McLagan è un tastierista di ampie vedute e Wood può finalmente tornare alla chitarra dopo che nel JBG aveva rivestito il ruolo di bassista. Una notte Ron Wood si porta appresso Rod Stewart che, lasciato il JBG, ha firmato un contratto solista con la Phonogram/Mercury e pur imbarazzato è interessato a quello che gli altri stanno suonando e cantando. Quando l’ iniziale diffidenza dei tre ex Small Faces verso il cantante (non volevamo un altro egocentrico alla Steve Marriott) svanisce, Kenney Jones chiede a Stewart di prendere il microfono e cantare, in men che non si dica la nuova band comincia a scalpitare e bastano poche session perché si senta pronta a lasciare Bermondsey e prendere il largo.
“Non so se quella sera feci la cosa giusta - afferma Jones - ma a quel tempo quella era la differenza tra il tentare di avere successo o fallire”.

Viene tolto lo small dal nome, primo perché i due arrivati erano sensibilmente più alti dei tre Faces originari, secondo perché la nuova avventura richiedeva un nome diverso che facesse capire il cambiamento avvenuto. Una delle più incisive e dinamiche sezioni ritmiche del beat inglese poteva adesso contare sulla voce roca, corrosiva e “negroide” di Rod Stewart mentre la forza liberatrice dei riff chitarristici di Ron Wood aggiungevano note di spavaldo blues al frizzante ed incisivo stomp di Jones, Lane e McLagan. Un background cresciuto sulle frequenze del beat e del R&B (gli Small Faces furono tra i primi gruppi mod a suonare la musica dei neri) adesso veniva irrobustito da una massiccia dose di blues e di sguaiato rock n’roll .
I nastri delle session estive del ’69 a Bermondsey esemplificano il Faces’ sound degli inizi e colgono la magia live nel momento della creazione. Le rehearsal di I Feel So Good, ispirato dall’ascolto del disco del 1960 Muddy Waters Live at Newport inizialmente suonato da Wood e Stewart col JBG, del lunatico rifacimento di Evil di Willie Dixon e di Shake, Shudder, Shiver catturano il nuovo spirito e l’evoluzione in atto. Tutti e tre i brani sono contenuti nel box di 4CD Five Guys Walk Into a Bar… edito dalla Rhino nel 2004, tutt’ora il documento migliore per godere del gesto dei Faces e conoscere una delle realtà migliori del rock inglese dei primi settanta.
Nasce il sound dei Faces, un rock n’roll urgente e graffiante, fatto di repentini cambi di ritmo, all’apparenza caotico ma dotato di una coerenza esemplare nel mischiare uno sciabolante R&B da pub con intense ballate che mostrano da una parte la bravura canora di Stewart ed il suo amore verso Sam Cooke, Otis Redding, Tim Hardin e dall’altra la vena malinconica e profondamente british di Ronnie Lane, il jolly del gruppo capace di assolvere a ruoli importanti (musicista, cantante, autore, arrangiatore) pur rimanendo discretamente nell’ombra.

Il sound dei Faces ha molte somiglianze con quello sviluppato dagli Stones in Exile On Main Street ma nelle composizioni di Lane mantiene i legami col passato beat e con una vena british quasi beatlesiana. L’accostamento con gli Stones (che diverrà esplicito con il cambio di formazione da parte di Ron Wood) non è balzano, cinque sono gli Stones e cinque sono i Faces, la front-line di Stewart e Wood sembra ritagliata sul profilo di quella di Jagger e Richards e Kenney Jones ha la compostezza ritmica del drumming di Charlie Watts. Forse l’unica vera diversità è che il tastierista Ian McLagan non è stato relegato dietro le quinte come Ian Stewart.

Il primo album First Step (che negli Usa viene intitolato Small Faces) esce nel 1970 e l’anno seguente arriva Long Player. Due ottimi dischi con cui i Faces traducono su vinile le session di Bermondsey e si presentano come una dirty rock band che suona con l’entusiasmo e l’imprecisione di un combo che non ha direzioni ma solo influenze e allora usa le cover per mostrare da quale strada proviene.
Three Button Hand Me Down è ispirata da un hit del 1967 dei Soul Brothers Six anche se Wood e Stewart l’avevano sentita nella versione dei Chambers Brothers, You’re My Girl (I Don’t Want To Discuss It) ripresa poi da Stewart nel suo Gasoline Alley era una cover dei Rhinoceros e Maybe I’m Amazed una trasformazione di un pezzo di Paul McCartney. C’è poi il remake stravolto con Hammond e soul di Wicked Messenger di Bob Dylan.

Di fianco alle cover ci sono gli originali, canzoni che rivelano una brillantezza ed una varietà di scrittura notevole, è il caso dell’elegiaca Flying, dell’escalation di energia rock e attitudine live di Have Me A Real Good Time, del soul roco di Bad n ’Ruin, di Around The Plynth uno spasmo di slide blues che nasce attorno ad una creazione già esistente di Stewart e Wood ovvero Plynth (Water Down The Drain) contenuta in Beck-Ola del JBG , di Richmond un dolce country-blues segnato dalla slide acustica e di Sweet Lady Mary, una ballata venata di folk immalinconita da una lap steel e da un arrangiamento di organo che traccia un ponte tra il Tamigi e le montagne di Woodstock dove The Band e Dylan avevano riscoperto le roots.
Un amore, quello per Dylan che Rod Stewart manifesterà più volte e soprattutto nei suoi primi dischi solisti quando riprenderà in modo assolutamente nobile Only A Hobo, Tomorrow Is A Long Time, Mama You Been On My Mind e Girl From The North Country impreziosendo di folk sia Gasoline Alley che Never Dull A Moment e Smiler, magnifici dischi che uniti a quelli usciti in contemporanea dei Faces creano quel circolo ricreativo che in quegli anni abbracciava Faces, Rod Stewart, Ron Wood e Rolling Stones.

Con quest’ultimi i Faces condividevano una sorta di resistenza contro le fughe “colte” dell’art-rock e del rock sinfonico emergenti ma se gli Stones post-Exile avvertivano l’empasse dovuto alle abitudini tossiche di Richards e agli svaghi mondani di Jagger, per i Faces il periodo che va dal 1970 al 1974 è un momento ribollente e scoppiettante che li vede impegnati in un tour dietro l’altro e li consacra tra i gruppi che incassano di più nei concerti dal vivo. In più se gli Stones con la loro dissolutezza da drogati chic rappresentavano in quegli anni la decadenza del rock n’roll ed una ribellione impulsiva, i Faces al contrario incarnavano quanto ancora di spontaneo, gagliardo e sfrontato c’era nel rock n’roll, vissuto con la passione di un gruppo di amici da stadio (nota la passione di Stewart per il football) che con spirito e fierezza da proletari cockney sfidavano le convenzioni.

Stupisce quanto potevano essere produttivi nonostante i baccanali e l’alcol ingerito se è vero che arrivavano perfino ad impiantare sul palco un bar vicino agli amplificatori con tutto il corredo di bottiglie di champagne, birra e Jack Daniels che richiedeva il loro “spettacolo” ma oltre all’incessante attività live, in tre anni i Faces realizzarono ben quattro album perché dopo First Step e Long Player arrivarono A Nod Is as Good as a Wink… to a Blind Horse e Ooh La La, entrambi co-prodotti dal mago Glyn Johns. Due album che riaffermarono senza mezze misure il loro stile sanguigno e sincero perché come disse il batterista Kenny Jones: “entrambi gli album erano una specie di annuncio, un trailer di cosa noi eravamo e rappresentavamo, perché con i Faces vivere era più bello”. E aggiunge il tastierista Ian McLagan: “quando arrivavamo in America sembrava di essere in Paradiso, io andavo nella mia camera d’hotel e trovavo una bottiglia di brandy e della frutta, offerti cortesemente dalla casa discografica. Nella camera di Woody c’era una bottiglia di bourbon e della frutta, Ronnie Lane richiedeva frutta e Mateus rosè e Kenney brandy e frutta. Alla fine dello show c’era sempre qualcuno che diceva: venite in camera mia che facciamo festa. Facevamo festa tutto il tempo, i concerti non facevano eccezione”.

I nuovi album portano un’altra gittata di canzoni indimenticabili al loro songbook, è il caso di Debris, una struggente ballata cantata da Ronnie Lane, dei graffi glam di You’re so Rude e Too Bad, della trasposizione della dylaniana Maggie’s Farm nella comica farsa sessuale di Miss Judy’s Farm, di Love Lives Here una specie di Fool To Cry scritta prima di Black and Blue e soprattutto di Stay With Me, perfetto hit da classifica che diventa un classico.

L’ impressione, comunque, è che il gruppo si rivelasse meglio in concerto che in studio ed è per tale motivo che Glyn Johns impose una disciplina di lavoro al gruppo spronandoli dal punto di vista del songwriting così da sortire ben 18 canzoni originali sul totale di 19 brani che costituiscono Nod e Ooh La La. Wood e Stewart costituivano il team di autori più prolifico, spesso coadiuvati da Ian McLagan ma a detta dello stesso Rod Stewart il vero genuino songwriter tra noi era Ronnie Lane. Se Nod vede ancora saldamente in sella Wood e Stewart come autori, il peso di Ronnie Lane in Ooh La La diventa preminente anche a causa di un Rod Stewart “distratto” dal successo dei suoi dischi solisti, in particolare dal primo posto in classifica di Every Picture Tells a Story e dal clamore del singolo Maggie May.

Caratterizzato da una originale copertina in 3D con la foto dell’attore Ettore Petrolini che muove la bocca, Ooh La La occhieggia a quel country-honk che gruppi come i Brinsley-Schwartz stanno spargendo nei pub londinesi e cattura l’interesse del pubblico sia inglese che americano tanto da essere un successo. Un riconoscimento oscurato però dal successo personale del loro leader.
Il primo a mostrare insofferenza a tale situazione è Ronnie Lane che disilluso e frustrato per non poter avere maggiori opportunità come cantante, abbandona il gruppo nel 1973 subito dopo la pubblicazione di Ooh La La rimpiazzato dal bassista Tetsu Yamauchi (che aveva rimpiazzato a sua volta Andy Fraser nei Free). Senza Lane i Faces sembrano sempre di più la back-up band di Stewart al punto che qualche sprovveduto promoter li presenta in concerto come Rod Stewart and The Faces.
D’altra parte le scalette dei loro show parlano chiaro, gli estratti dagli album di Rod Stewart sono tanti, spiccano It’s All Over Now, Every Picture Tells a Story, Angel, I’d Rather Go Blind e Cut Across Shorty. E’ questo il menu di Coast to Coast: Overture and Beginners, ultimo album ufficiale dei Faces registrato durante alcuni show in California. Un disco che nemmeno lontanamente traspone la carica e l’energia delle loro esibizioni live, evidente epitaffio di una morte annunciata.

Nonostante il tentativo di mettere insieme un nuovo album in studio per il quale i Faces registreranno il singolo Pool Hall Richard il gruppo sembrava ormai lontano dal proverbiale entusiasmo degli anni precedenti. Di album non se parlò più e l’ultima loro pubblicazione fu un singolo alla fine del 1974 col titolo di You Can Make Me Dance, Sing or Anything una specie di Da Ya Think I’m Sexy che preludeva a quello che sarebbe stato il Rod Stewart del futuro. L’anno dopo Ron Wood iniziava il suo servizio per i Rolling Stones e nel dicembre del 1975 i Faces annunciarono il loro scioglimento.

Mauro Zambellini Giugno 2010

1 commento:

unmilanista ha detto...

Prof. Zambo,
si è accorto che, sul "Busca", Lei aveva chiuso il suo bellissimo "pezzo" sul nuovo boxetto di John Mayall con
"un'antologia da cinque stelle, senza ombre di dubbio"...
mentre qualche sciagurato le ha ridotto le stelle, in testata, a 4?
io, comunque, leggendo Lei, l'ho ordinato, anche perché, di Mayall e i suoi, avevo soprattutto i cd d'inizio carriera.

saluti e grazie.