mercoledì 30 giugno 2010

the Faces #2


Quattro album in sei anni di vita di cui uno, A Nod Is As Good As A Wink… datato 1971, entrato nelle Top Ten oltre ad una inesauribile attività concertistica che li vide suonare in ogni angolo del mondo, dall’Europa all’America, dall’Oceania al Giappone con il record di sei tour in un solo anno (1970) negli Stati Uniti dove divennero una sorta di cittadini “onorari”. Questo è il curriculum della band londinese.
I Faces furono una macchina da guerra del rock n’ roll ma non raccolsero quanto seminarono, pur non privandosi dello stile di vita proprio delle rockstar con tutto quanto ciò comportava in termini di alberghi, limousine, parrucchieri, sarti, vestiti attillati, pailettes, groupies e bevande ma questo stile di vita veniva filtrato da un atteggiamento irriverente, scanzonato, goliardico.
I Faces hanno incarnato il vero spirito del rock n’roll, hanno cantato il boogie col gusto pesante della feccia cockney, hanno inscenato una parodia rock del maschilismo come e qualche volta meglio degli Stones, cogliendo il ritmo dell’attrazione e repulsione tra i sessi con una tensione ed una spregiudicatezza che “il trasgressivo” glam, allora di moda, manco si sognava. Hanno avuto la spudoratezza di mettere la purezza del blues ed il candore del soul dentro la sporcizia di un rock n’roll di periferia pieno di stacchi duri, di accelerazioni nervose, di piani ed organi da bordello, di urlacci e riff, eccitando con il ritmo e commuovendo con un pugno di ballate che ancora oggi sono una stretta al cuore.
Pur essendo degli ottimi musicisti non si presero mai troppo sul serio, preferendo il ghigno beffardo, la battuta e l’ alzata di spalle alla pompa magna del circo del rock, in quegli anni particolarmente tronfio.

La loro storia comincia quando il leader degli Small Faces, Steve Marriott alla fine del 1968 annuncia di voler costituire una nuova band, gli Humble Pie, con il chitarrista Peter Frampton. I tre ex compagni ovvero Ian McLagan, Ronnie Lane e Kenney Jones seppure demoralizzati non fanno drammi e dopo aver declinato l’offerta di diventare la band di Donovan, nella primavera del ’69 si mettono a provare assieme a Rod Stewart e a Ron Wood, i quali si trovano in un momentaneo break della loro avventura con il Jeff Beck Group. Sia Stewart che Wood erano fans degli Small Faces quindi l’unione non fu cosa difficile. Gli ex Small Faces non potevano che guadagnarci da una simile unione visto che non erano mai stati negli Stati Uniti, a contrario di Stewart e Wood che col Jeff Beck Group ci avevano già suonato e sapevano com’era fatto il pubblico americano. Un approccio non sempre easy visto che Rod Stewart fu talmente terrorizzato dal pubblico del Fillmore East di New York che preferì cantare dietro il mucchio degli amplificatori.
Quando il pianista dei Rolling Stones Ian Stewart, grande amico di Ronnie Lane, offre loro gratis uno scantinato per suonare in Bermondsey Street nella zona sud di Londra, l’embrione del nuovo gruppo prende forma anche se Rod Stewart per il momento non è ancora della partita e gli altri quattro si divertono a jammare scambiandosi ruoli e strumenti ed invitando alle loro sedute il batterista del JBG Mickey Waller e l’ex chitarrista dei Blue Cheer Leigh Stephens.
Ronnie Lane canta e suona sia il basso che il piano Wurlitzer, Ian McLagan è un tastierista di ampie vedute e Wood può finalmente tornare alla chitarra dopo che nel JBG aveva rivestito il ruolo di bassista. Una notte Ron Wood si porta appresso Rod Stewart che, lasciato il JBG, ha firmato un contratto solista con la Phonogram/Mercury e pur imbarazzato è interessato a quello che gli altri stanno suonando e cantando. Quando l’ iniziale diffidenza dei tre ex Small Faces verso il cantante (non volevamo un altro egocentrico alla Steve Marriott) svanisce, Kenney Jones chiede a Stewart di prendere il microfono e cantare, in men che non si dica la nuova band comincia a scalpitare e bastano poche session perché si senta pronta a lasciare Bermondsey e prendere il largo.
“Non so se quella sera feci la cosa giusta - afferma Jones - ma a quel tempo quella era la differenza tra il tentare di avere successo o fallire”.

Viene tolto lo small dal nome, primo perché i due arrivati erano sensibilmente più alti dei tre Faces originari, secondo perché la nuova avventura richiedeva un nome diverso che facesse capire il cambiamento avvenuto. Una delle più incisive e dinamiche sezioni ritmiche del beat inglese poteva adesso contare sulla voce roca, corrosiva e “negroide” di Rod Stewart mentre la forza liberatrice dei riff chitarristici di Ron Wood aggiungevano note di spavaldo blues al frizzante ed incisivo stomp di Jones, Lane e McLagan. Un background cresciuto sulle frequenze del beat e del R&B (gli Small Faces furono tra i primi gruppi mod a suonare la musica dei neri) adesso veniva irrobustito da una massiccia dose di blues e di sguaiato rock n’roll .
I nastri delle session estive del ’69 a Bermondsey esemplificano il Faces’ sound degli inizi e colgono la magia live nel momento della creazione. Le rehearsal di I Feel So Good, ispirato dall’ascolto del disco del 1960 Muddy Waters Live at Newport inizialmente suonato da Wood e Stewart col JBG, del lunatico rifacimento di Evil di Willie Dixon e di Shake, Shudder, Shiver catturano il nuovo spirito e l’evoluzione in atto. Tutti e tre i brani sono contenuti nel box di 4CD Five Guys Walk Into a Bar… edito dalla Rhino nel 2004, tutt’ora il documento migliore per godere del gesto dei Faces e conoscere una delle realtà migliori del rock inglese dei primi settanta.
Nasce il sound dei Faces, un rock n’roll urgente e graffiante, fatto di repentini cambi di ritmo, all’apparenza caotico ma dotato di una coerenza esemplare nel mischiare uno sciabolante R&B da pub con intense ballate che mostrano da una parte la bravura canora di Stewart ed il suo amore verso Sam Cooke, Otis Redding, Tim Hardin e dall’altra la vena malinconica e profondamente british di Ronnie Lane, il jolly del gruppo capace di assolvere a ruoli importanti (musicista, cantante, autore, arrangiatore) pur rimanendo discretamente nell’ombra.

Il sound dei Faces ha molte somiglianze con quello sviluppato dagli Stones in Exile On Main Street ma nelle composizioni di Lane mantiene i legami col passato beat e con una vena british quasi beatlesiana. L’accostamento con gli Stones (che diverrà esplicito con il cambio di formazione da parte di Ron Wood) non è balzano, cinque sono gli Stones e cinque sono i Faces, la front-line di Stewart e Wood sembra ritagliata sul profilo di quella di Jagger e Richards e Kenney Jones ha la compostezza ritmica del drumming di Charlie Watts. Forse l’unica vera diversità è che il tastierista Ian McLagan non è stato relegato dietro le quinte come Ian Stewart.

Il primo album First Step (che negli Usa viene intitolato Small Faces) esce nel 1970 e l’anno seguente arriva Long Player. Due ottimi dischi con cui i Faces traducono su vinile le session di Bermondsey e si presentano come una dirty rock band che suona con l’entusiasmo e l’imprecisione di un combo che non ha direzioni ma solo influenze e allora usa le cover per mostrare da quale strada proviene.
Three Button Hand Me Down è ispirata da un hit del 1967 dei Soul Brothers Six anche se Wood e Stewart l’avevano sentita nella versione dei Chambers Brothers, You’re My Girl (I Don’t Want To Discuss It) ripresa poi da Stewart nel suo Gasoline Alley era una cover dei Rhinoceros e Maybe I’m Amazed una trasformazione di un pezzo di Paul McCartney. C’è poi il remake stravolto con Hammond e soul di Wicked Messenger di Bob Dylan.

Di fianco alle cover ci sono gli originali, canzoni che rivelano una brillantezza ed una varietà di scrittura notevole, è il caso dell’elegiaca Flying, dell’escalation di energia rock e attitudine live di Have Me A Real Good Time, del soul roco di Bad n ’Ruin, di Around The Plynth uno spasmo di slide blues che nasce attorno ad una creazione già esistente di Stewart e Wood ovvero Plynth (Water Down The Drain) contenuta in Beck-Ola del JBG , di Richmond un dolce country-blues segnato dalla slide acustica e di Sweet Lady Mary, una ballata venata di folk immalinconita da una lap steel e da un arrangiamento di organo che traccia un ponte tra il Tamigi e le montagne di Woodstock dove The Band e Dylan avevano riscoperto le roots.
Un amore, quello per Dylan che Rod Stewart manifesterà più volte e soprattutto nei suoi primi dischi solisti quando riprenderà in modo assolutamente nobile Only A Hobo, Tomorrow Is A Long Time, Mama You Been On My Mind e Girl From The North Country impreziosendo di folk sia Gasoline Alley che Never Dull A Moment e Smiler, magnifici dischi che uniti a quelli usciti in contemporanea dei Faces creano quel circolo ricreativo che in quegli anni abbracciava Faces, Rod Stewart, Ron Wood e Rolling Stones.

Con quest’ultimi i Faces condividevano una sorta di resistenza contro le fughe “colte” dell’art-rock e del rock sinfonico emergenti ma se gli Stones post-Exile avvertivano l’empasse dovuto alle abitudini tossiche di Richards e agli svaghi mondani di Jagger, per i Faces il periodo che va dal 1970 al 1974 è un momento ribollente e scoppiettante che li vede impegnati in un tour dietro l’altro e li consacra tra i gruppi che incassano di più nei concerti dal vivo. In più se gli Stones con la loro dissolutezza da drogati chic rappresentavano in quegli anni la decadenza del rock n’roll ed una ribellione impulsiva, i Faces al contrario incarnavano quanto ancora di spontaneo, gagliardo e sfrontato c’era nel rock n’roll, vissuto con la passione di un gruppo di amici da stadio (nota la passione di Stewart per il football) che con spirito e fierezza da proletari cockney sfidavano le convenzioni.

Stupisce quanto potevano essere produttivi nonostante i baccanali e l’alcol ingerito se è vero che arrivavano perfino ad impiantare sul palco un bar vicino agli amplificatori con tutto il corredo di bottiglie di champagne, birra e Jack Daniels che richiedeva il loro “spettacolo” ma oltre all’incessante attività live, in tre anni i Faces realizzarono ben quattro album perché dopo First Step e Long Player arrivarono A Nod Is as Good as a Wink… to a Blind Horse e Ooh La La, entrambi co-prodotti dal mago Glyn Johns. Due album che riaffermarono senza mezze misure il loro stile sanguigno e sincero perché come disse il batterista Kenny Jones: “entrambi gli album erano una specie di annuncio, un trailer di cosa noi eravamo e rappresentavamo, perché con i Faces vivere era più bello”. E aggiunge il tastierista Ian McLagan: “quando arrivavamo in America sembrava di essere in Paradiso, io andavo nella mia camera d’hotel e trovavo una bottiglia di brandy e della frutta, offerti cortesemente dalla casa discografica. Nella camera di Woody c’era una bottiglia di bourbon e della frutta, Ronnie Lane richiedeva frutta e Mateus rosè e Kenney brandy e frutta. Alla fine dello show c’era sempre qualcuno che diceva: venite in camera mia che facciamo festa. Facevamo festa tutto il tempo, i concerti non facevano eccezione”.

I nuovi album portano un’altra gittata di canzoni indimenticabili al loro songbook, è il caso di Debris, una struggente ballata cantata da Ronnie Lane, dei graffi glam di You’re so Rude e Too Bad, della trasposizione della dylaniana Maggie’s Farm nella comica farsa sessuale di Miss Judy’s Farm, di Love Lives Here una specie di Fool To Cry scritta prima di Black and Blue e soprattutto di Stay With Me, perfetto hit da classifica che diventa un classico.

L’ impressione, comunque, è che il gruppo si rivelasse meglio in concerto che in studio ed è per tale motivo che Glyn Johns impose una disciplina di lavoro al gruppo spronandoli dal punto di vista del songwriting così da sortire ben 18 canzoni originali sul totale di 19 brani che costituiscono Nod e Ooh La La. Wood e Stewart costituivano il team di autori più prolifico, spesso coadiuvati da Ian McLagan ma a detta dello stesso Rod Stewart il vero genuino songwriter tra noi era Ronnie Lane. Se Nod vede ancora saldamente in sella Wood e Stewart come autori, il peso di Ronnie Lane in Ooh La La diventa preminente anche a causa di un Rod Stewart “distratto” dal successo dei suoi dischi solisti, in particolare dal primo posto in classifica di Every Picture Tells a Story e dal clamore del singolo Maggie May.

Caratterizzato da una originale copertina in 3D con la foto dell’attore Ettore Petrolini che muove la bocca, Ooh La La occhieggia a quel country-honk che gruppi come i Brinsley-Schwartz stanno spargendo nei pub londinesi e cattura l’interesse del pubblico sia inglese che americano tanto da essere un successo. Un riconoscimento oscurato però dal successo personale del loro leader.
Il primo a mostrare insofferenza a tale situazione è Ronnie Lane che disilluso e frustrato per non poter avere maggiori opportunità come cantante, abbandona il gruppo nel 1973 subito dopo la pubblicazione di Ooh La La rimpiazzato dal bassista Tetsu Yamauchi (che aveva rimpiazzato a sua volta Andy Fraser nei Free). Senza Lane i Faces sembrano sempre di più la back-up band di Stewart al punto che qualche sprovveduto promoter li presenta in concerto come Rod Stewart and The Faces.
D’altra parte le scalette dei loro show parlano chiaro, gli estratti dagli album di Rod Stewart sono tanti, spiccano It’s All Over Now, Every Picture Tells a Story, Angel, I’d Rather Go Blind e Cut Across Shorty. E’ questo il menu di Coast to Coast: Overture and Beginners, ultimo album ufficiale dei Faces registrato durante alcuni show in California. Un disco che nemmeno lontanamente traspone la carica e l’energia delle loro esibizioni live, evidente epitaffio di una morte annunciata.

Nonostante il tentativo di mettere insieme un nuovo album in studio per il quale i Faces registreranno il singolo Pool Hall Richard il gruppo sembrava ormai lontano dal proverbiale entusiasmo degli anni precedenti. Di album non se parlò più e l’ultima loro pubblicazione fu un singolo alla fine del 1974 col titolo di You Can Make Me Dance, Sing or Anything una specie di Da Ya Think I’m Sexy che preludeva a quello che sarebbe stato il Rod Stewart del futuro. L’anno dopo Ron Wood iniziava il suo servizio per i Rolling Stones e nel dicembre del 1975 i Faces annunciarono il loro scioglimento.

Mauro Zambellini Giugno 2010

sabato 26 giugno 2010

the Faces #1


Faces: the most alcoholic rock n’ roll band of the world

La storia del rock n’roll è piena di storie di grandi resurrezioni, ritorni, riunioni, riabilitazioni ed una delle più incredibili e sicuramente la più alcolica fu la rinascita di una delle band famose dell’Inghilterra anni ’60: gli Small Faces. Avvenne nel 1969 quando tre membri originari del gruppo, il bassista e cantante Ronnie Lane, il tastierista Ian McLagan ed il batterista Kenney Jones, si unirono al chitarrista Ronnie Wood e al cantante Rod Stewart entrambi provenienti dal Jeff Beck Group per riformare la band con il nome di Faces.
Tre mods e due pionieri dell’heavy-blues inglese rimisero in sesto una baracca che con la dipartita del cantante e chitarrista Steve Marriott, impegnato a dar vita agli Humble Pie, sembrava sul punto di inabissarsi. Invece, tolto l’aggettivo small dal nome originario ed irrobustito il sound innocentemente beat e psichedelico dell’ultima incisione (The Autumn Stone) con una massiccia iniezione di R&B e rock n’roll, i Faces furono di nuovo sulla strada, più potenti di prima ed in grado di maneggiare con disinvoltura il blues con il brandy, il funk con il vino, le jam con il gin, inondando di birra show memorabili che di lì a poco fecero il tutto esaurito sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.

Nel lasso di tempo che va dall’uscita di Exile On Main Street all’autunno del 1975, con i Rolling Stones in balìa della loro dissolutezza, i Faces divennero la più selvaggia rock n’roll band in circolazione con party devastanti, pantagrueliche bevute, focosi concerti ed un lifestyle vissuto all’estremo, the most alcholic rock n’roll band in the world, una band che non vendette e non assunse la stessa importanza degli amici Stones ma fonte di influenza per chi ha cavalcato il rock più punchoso e bluesy, prima prefigurando l’avvento del pub-rock e poi fornendo stimoli ad una nuova generazione di rockers come Replacements, Primal Scream, Georgia Satellites, Paul Weller, Guns andd Roses, Wilco e Black Crowes.
I Faces vissero sotto la luce dei riflettori la loro spregiudicatezza, se non altro l’alcol è ed era legale, lo si poteva trovare liberamente e facilmente dappertutto, non occorreva andare in una buia e lercia stradina del ghetto ed essere alla mercè di un losco figuro che spacciava droga, bastava entrare in un bar, tirare fuori i soldi, ordinare e bere quanto si voleva. Come ha ricordato il batterista Kenny Jones “ si poteva far festa ovunque, bevevamo nel bar dell’hotel mentre aspettavamo la limousine, facevamo festa sulla limousine mentre eravamo in strada per arrivare al concerto. Poi facevamo festa (leggasi bevevamo) nel backstage e poi nei camerini prima di andare sul palco. Facevamo festa sul palco e poi di nuovo nei camerini, nel backstage, in macchina e quando ritornavamo finivamo in baldoria in hotel. Facevamo festa sempre e dovunque, eravamo sempre allegri, su di giri. Era fantastico.”

Per i Faces lavorare era suonare e suonare era il sommo dei piaceri. Fare musica era per loro un divertimento, era il libero e schiamazzante suono di una profonda fratellanza, del buon umore collettivo, di una reciproca eccitante scoperta. E tutto ciò era impensabile senza un drink in mano o un pub dietro l’angolo. I Faces furono quello che almeno nell’innocenza dei primi anni ‘70 significava essere in una rock n’roll band ovvero suonare duro e vivere di corsa maneggiando la musica con l’arroganza di chi sente l’odore dei soldi ma gioca a fare il teppista fino alla fine perché quello che importa è fare baldoria con gli amici e con la bottiglia. Era l’urlo dell’ultimo scampolo di gioventù, prima che la maturità e la vita adulta cominciasse a presentare il conto, era l’ irridente sex, alcohol and rock n’roll di un gruppo di borstal boys carburati a gin e birra piuttosto che a cocaina. Per i Faces fare le prove in un club o in un hangar, suonare dal vivo o registrare un disco erano la stessa identica cosa e comportavano lo stesso abbandono e lo stesso atteggiamento, era puro ed incondizionato divertimento, tanto che la prima richiesta del gruppo quando entravano in un nuovo studio di registrazione per la realizzazione di un disco era “bene…e adesso dove piazziamo il bar?”.
Nessuna altra band dell’epoca bevve tanto quanto i Faces e nessuna altra band dell’epoca seppe mettere tanta sorprendente eccitazione, ruvida passione e contagiosa giovialità nei concerti e nei dischi così da diventare la più testarda, orgogliosa e gagliarda rock n’roll band della prima metà degli anni ’70. Eravamo una drinking band coi fiocchi affermò orgogliosamente una volta il cantante Rod Stewart e la maggior parte del nostro lavoro migliore fu fatto nei pub. Sarebbe comunque sbagliato reputarli un gruppo di ubriaconi o una semplice band for fun perché i Faces seppero sintetizzare le varie componenti del rock inglese congiungendo quelli che erano stati gli anni ’60 con quello che era lo stile rock dei primi seventies, una musica dura ed ambigua, sguaiata e trasgressiva anche se disposta alle coccole di qualche ballata. Come gli Stones i Faces erano ossessionati dal R&B, come gli Who erano stravaganti ed avevano atteggiamenti da ribelli mods, come gli Yardbirds erano affascinati da un boogie duro ed elettrico, una specie di rivisitazione bianca del jungle-beat di Bo Diddley, come i Kinks seppero adattare lo spirito anarchico e dissacratorio del vaudeville britannico al palcoscenico del rock n’roll.

continua

lunedì 21 giugno 2010

Bruce Springsteen & The E Street Band > Wrecking Ball / The Ghost of Tom Joad


Erano circa dieci anni che non sentivo su disco uno Springsteen così intenso ed emozionante, uno Springsteen che trascina la E Street Band in una di quelle performance per cui, a ragione, è diventato the Boss. Il documento che testimonia di uno Springsteen così salutare è piccolo, solo un vinile a 45 giri dove vengono riportati sul lato A la versione live di Wrecking Ball del Giants Stadium del 2 0ttobre 2009, già circolata in rete e sul lato B la versione live del 7 aprile 2008 di The Ghost of Tom Joad ad Anaheim in California, anche questa già disponibile in rete nei Magic Tour Highlights.

Due brani di incredibile forza evocativa raccolti in un vinile per festeggiare il record store day. La prima, un omaggio al popolo del New Jersey e del Meadowlands è un talkin’ irresistibile che parla di baseball ed inneggia alla vita, sale piano ma decisa e si trasforma in una sorta di incalzante giga irlandese suonata rock, con Bruce che ossessivamente ripete wrecking ball mentre la sua chitarra acustica introduce prima le tastiere e poi l’intera band che si scatena in una corsa forsennata come fosse una palla demolitrice lanciata dal più spietato dei battitori. Corale, potente, trascinante, Wrecking Ball è un brano di enorme trasporto fisico, una canzone di magnetico spirito collettivo dove pubblico, artista e band sembrano convergere in quell’unico punto che nel calcio è il gol, nel football la meta, nel basket il canestro, nel baseball il punto e nel rock l’apoteosi. Da brani come questi nascono le leggende.

Non è da meno il lato B ovvero la versione forsennatamente elettrica di The Ghost of Tom Joad qui impreziosita dalla presenza del chitarrista dei Rage Against The Machine Tom Morello. Brano già di per sé carismatico, tratto dall’amaro racconto sull’America contemporanea che è Tom Joad subisce un trattamento che ne altera profondamente i caratteri originari di protest song. Da canzone folk con chitarra acustica, voce desolata e fisarmonica diventa prima un classico da E-Street Band con tanto di echi western sottolineati dalla lap steel di Lofgren ed infine muta in un rabbioso e acido urlo di dolore con Morello che distorce la chitarra ricavandone rumori da mitragliatrice . Un finale violento e punk che prende a sberle il sogno americano e rimette in sesto uno Springsteen che quasi me ne ero dimenticato.

MAURO ZAMBELLINI

sabato 19 giugno 2010

Città del Rock : Memphis


MEMPHIS IN MEANTIME (John Hiatt from Bring The Family)

Ho qualcosa da dirti, ragazza
Ti potrebbe non piacere il mio stile
Ma penso che noi abbiamo gironzolato per questa città
Forse troppo a lungo.
Dici che faremo le cose insieme per strada
Ma se non me ne vado via da qui al più presto
La mia testa salterà per aria.
Certo che mi piace la musica country, con i suoi mandolini
Ma ora ho proprio bisogno di guardare un po’ la televisione.
Andiamo a Memphis baby
Insieme a questo malinconico country ho bisogno di una scossa di ritmo
Voglio scambiare i miei stivali da cowboy
Con un paio di belle scarpe italiane
Dimenticare la mousse e lo zucchero filato
Non abbiamo bisogno di nulla di tutto ciò.
Forse puoi attendere fino a quando l’inferno si sarà raffreddato
Ma non penso che Ronnie Millsap inciderà mai questa canzone.
Forse laggiù non sta succedendo nulla ma forse c’è qualcosa nell’aria...
Potremo concederci un pranzo decente giù al Rendez Vous
Un altro cuore si è sentito come la corda d’acciaio di una chitarra
Ragazza sta quasi per uccidermi
Ho bisogno di ascoltare delle trombe o un sax
Sai che il loro suono ricorda il dolce suono del peccato.
E più tardi, unti e fatti,
possiamo anche tornarcene a casa
rimettere al loro posto le corna di mucca sulla Cadillac
e cambiare il messaggio sulla segreteria telefonica.

martedì 15 giugno 2010

Daniele Tenca > Blues For The Working Class


Un disco di blue collar rock in Italia è cosa più unica che rara. Dedicato a quelli che si sono infortunati o hanno perso le loro vite mentre facevano il loro lavoro riporta la spartana copertina del disco, una dedica esplicita che pone l’attenzione su uno dei fenomeni sociali più amari, particolarmente di attualità oggi visto il proliferare del lavoro nero e l’indifferenza con cui l’attuale classe politica al potere tratta gli operai ed in generale i lavoratori. Una dedica ed impegno nobili quelli di Daniele Tenca, cantante, chitarrista, armonicista e tastierista, che ha deciso che i proventi di Blues for the Working Class andranno a sostenere l’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi sul Lavoro. Lo fa con un disco coerente nel tema e nella musica: dieci brani, otto inediti e due cover, in linea col sound del blue collar rock americano e testi cantati in inglese (ma nel booklet sono riportate le traduzioni) che parlano di realtà operaia, dentro e fuori la fabbrica.
Il sound deve ai modelli del genere, in primis a Bruce Springsteen di cui vengono riproposte la storica Factory, secondo chi scrive il manifesto assoluto del blue collar rock ed il traditional Eyes On The Prize ma anche a Joe Gruschecky, Bill Chinnock, al blues elettrico delle grandi città industriali, ai Marah e a tutto quel sottobosco di rock della East Coast che, negli anni settanta ed ottanta, contribuì a fornire emozioni unendo voglia di vivere, divertimento ed una sensibilità sociale che strideva con le mollezze e le vanità del grande rock mediatico.
Aiutato dal batterista Paolo Leoni, dal bassista Luca Tonani, dal chitarrista Heggy Vezzano e da uno stuolo di invitati tra cui spiccano i nomi di Marino Severini e Cesare Basile nelle parti vocali di Eyes On The Prize e Andy J.Forest con l’armonica in This Working Day Will Be Fine, Daniele Tenca dimostra di conoscere la materia e di avere cuore e rabbia per cantarla. Il messaggio è no surrender o, detta all’italiana, è bene tenere gli occhi aperti.

Le ballate sanno di ruggine e polvere, molto belle Flowers at the Gates con il tocco elegante di Sergio Cocchi al pianoforte ed il tenue laidback alla J.J Cale di He’s Working, poi c’è il blues che è come scivolasse dai banconi di un workers pub sostenuto dal ritmo di una bar-boogie band (l’esempio più compiuto è offerto da Cold Comfort) oppure sferraglia con la slide il Delta style di The Plant o usa echi hendrixiani attraverso la lap steel di Massimo Martellotta per raccontare un'altra versione del mito di John Henry, l’ uomo contro la macchina (Spare Parts) qui realisticamente posizionata nel meno leggendario e più drammatico contesto attuale delle giovani vite usate come pezzi di ricambi del sistema produttivo. Distante dalla facile retorica degli slogan anticapitalistici propria dei tanti gruppi da centro sociale antagonista che poi immancabilmente finiscono in televisione a cantare il loro rap quotidiano, Daniel Tenca non si ferma al gesto e alle movenze da artificiale ribelle del ghetto ma va in profondità con canzoni che conoscono la realtà di cui si parla e con la fantasia del rock/blues musicano un mondo che si vorrebbe nascondere o interpellare solo in campagna elettorale.
Sono piccole poesie sulla classe operaia quelle di Daniele Tenca, dodici canzoni tra blues, rock n’ roll, folk, ballate elettriche e due registrazioni live (un'altra versione di Cold Comfort e la sudata The Mills Are Closing Down) che attestano col loro bagaglio di tristezze, humour, speranze, amarezze, rabbia e dolore, l’esistenza di un’altra Italia, anche nel rock. Un disco nobile, da tutti i punti di vista.

Per richiederlo scrivete a www.danieletenca.com o a www.anmil.it.

MAURO ZAMBELLINI APRILE 2010

sabato 5 giugno 2010

Tom Petty and the Heartbreakers > Mojo


Il nuovo disco di Tom Petty è all’insegna del blues. Il titolo non mente, mojo è termine che entra nella leggenda del blues fin dalle esplicite allusioni sessuali di Got My Mojo Workin’ di Muddy Waters. Dopo la pubblicazione nel 2009 del monumentale The Live Anthology e del rockumentario Runnin’ Down A Dream di Peter Bogdanovich nel 2007, Petty torna ad un album di studio vero e proprio. Erano otto anni che non succedeva, da Highway Companion anche se di mezzo c’è quel piccolo capolavoro di rock d’annata chiamato Mudcrutch, nome della prima band del rocker seminole.
Mojo è diverso sia da Mudcrutch che da Highway Companion, è un disco molto influenzato dal blues, da suoni e chitarre che ricordano a tratti J.J Cale ed Eric Clapton se non addirittura il British Blues. Ci sono pezzi molto riusciti, ballate accattivanti ma anche qualche traccia ripetitiva e routinaria, con l’aria stanca. Non c’è il Petty dei suoi album classici ma neanche gli arrangiamenti orchestrali di The Last D.J.

Mojo è un disco abbastanza sobrio nel sound alla Heartbreakers perché poi, come lunghezza complessiva, siamo oltre l’ora, alcuni brani sono molto lunghi ed elaborati ed in qualche episodio fa capolino quel rock californiano che negli anni settanta contraddistingueva i Fleetwood Mac post-blues. Insomma Mojo è un disco da sentire parecchio perché non è di immediata fruibilità, diverso dall’usuale clichè di Tom Petty con gli Heartbreakers.
Si apre con Jefferson Jericho Blues ed è subito chiaro che l’armonica e le chitarre spingono verso Chicago ma il seguente First Flash of Freedom rimpiazza il blues con l’aria californiana di una ballata crepuscolare che sta tra i Mac e i Black Crowes di America.
Running Man’s Bible è uno dei pezzi più accattivanti dell’album, gran lavoro di Hammond, ritmo incalzante e continue esplosioni, rock n’roll e blues, un po’ di J.J Cale ed il gran gioco delle chitarre. Più melenso Pirate’s Cave 5 che tra suoni rarefatti e laid back rivanga il Clapton della Florida di primi anni ’70. Ancora J.J Cale in No Reason To Cry ma forse è ancora Clapton visto che il titolo è rubato ad un suo disco del 1976 mentre un po’ routinarie suonano (almeno al primo ed unico ascolto) sia I Should Have Known It sia Takin’ My Time che Don’t Pull Me Over.
Di tutt’altra pasta US 41 dove la voce filtrata, una chitarra acustica che sembra uscire da un 78 giri ed un sound di country-blues sporcato di acqua di paludi fa molto John Hiatt.
Di prima qualità anche Let Yourself Go con l’organo sixty ed una armonica alla John Mayall, relaxin’ and bluesy al punto giusto e pure Lover’s Touch, lenta, notturna, bluesy. Con High In The Morning si sente il true classic Petty sound mentre Something Good Coming è una slow song triste degna di uno Springsteen intimista.
Chiude un album lungo e complesso, per nulla scontato, ricco di alti e (qualche) basso, Good Enough, chitarre loud alla Zeppelin e Hammond in sottofondo, ennesima riprova di un disco che non si accontenta di accondiscendere un clichè collaudato e fortunato ma coraggiosamente tenta nuovi itinerari, come al tempo fece Southern Accents, più apprezzato poi che al momento dell’uscita.

Il 6 maggio è iniziato il 2010 North American Tour che vedrà Tom Petty e gli Heartbreakers toccare le più importanti città americane e canadesi, supportato a seconda delle date da Joe Cocker, Drive By Truckers, Crosby Stills Nash e My Morming Racket. Chi può vada a vederlo, l’8 giugno è a Vancouver, il 17 luglio a Chicago, il 28 luglio a New York, il 26 settembre a Phoenix e il 1 ottobre a Los Angeles. Oltre a tutto il resto.

Mauro Zambellini Giugno 2010