giovedì 1 marzo 2018

TOM WAITS : the magnificent seven


Anche se non sono realmente i magnifici sette di Tom Waits perché Rain Dogs e Mule Variations sono lavori indimenticabili, i primi sette dischi di Tom Waits realizzati per la Asylum, da Closing Time a Heartattack And Vine, ci ripropongono un artista che si è fatto conoscere come un Bukowski lirico perso tra blues, jazz, alcol, sigarette, prostitute, balordi e ubriachi sotto la luna. Il cuore del sabato sera su un asfalto umido di pioggia e di piscio a Los Angeles, lercio e romantico, crudo e surreale, come lo strampalato The Piano Has Been Drinking, dolce e vizioso come il triangolo d’oro consumato con Chuck E. Weiss e Rickie Lee Jones al Tropicana Motor Hotel in quelle notti lunghe un sogno.

 

1973: Closing Time


Bisogna aspettare il 1973 per avere il primo album di Tom Waits, Closing Time, dopo che l’artista di Pomona si era fatto conoscere  in un club di San Diego, The Heritage, esibendosi per pochi dollari a sera. Trasferitosi a Los Angeles frequenta il tempio sacro dei songwriters della città, il Troubadour,  presentandosi come folk-singer amante di  Dylan e vecchi bluesmen. Alcune sue composizioni del periodo finiscono nei suoi primi album, in particolare Ice Cream Man, Virginia Avenue, I Hope That I Don’t Fall In Love With You e la fortunata Ol’55, registrata dagli Eagles. In una delle performance al Troubadour viene notato da Herb Cohen, manager e discografico che gli fa registrare alcuni demo col produttore Robert Duffey,  anni più tardi pubblicati nell’album The Early Years. Il colpo di fortuna avviene quando David Geffen lo sente cantare Grapefuit Moon nello stesso club, un mese dopo sul tavolo c'è il contratto con la Asylum.  Waits viene affiancato dal produttore Jerry Yester, ex membro dei Lovin’ Spoonful e da un team di musicisti tra cui il batterista John Seiter, i chitarristi Peter Klimes e Shep Cooke e il trombettista Tony Terran. Jerry Yester lo indirizza verso  un disco di orientamento folk ma Tom Waits è alla ricerca di qualcosa più vicino al jazz e così obbliga Yester ad ingaggiare il contrabbassista jazz Bill Plummer che però nella registrazione finale di Closing Time sarà  sostituito da Ami Engilsson. Waits e Yester vogliono registrare di notte per tradurre meglio la particolare atmosfera delle canzoni, non così lontane dallo stile crooner e da certo blues pianistico ma le esigenze dello studio (Sunset Sound di Hollywood) costringono i musicisti a lavorare secondo un canonico dalle 9 del mattino alle 5 di sera. In una decina di giorni il disco è pronto, anche se sono necessarie ulteriori sedute al United Western Recordings per riarrangiare alcuni brani.  Jerry Yester ne è entusiasta, per suo volere vengono aggiunte delle orchestrazioni in Martha e Grapefuit Moon, a marzo del 1973 Closing Time è nei negozi. Comparato agli altri dischi di Waits, Closing Time è un disco fin troppo morbido ed educato, da songwriter classico, melodie sofisticate create col pianoforte sono talvolta accompagnate da una tromba così da rendere palpabile il feeling jazzy dell'artista. Le tinte bluastre delle canzoni spargono una malinconia alla Randy Newman, il tono è crepuscolare, la riconosciuta irriverenza dell'artista è ancora in embrione ed affidata alla singhiozzante Ice Cream Man mentre Ol’55 e Old Shoes mettono strade e fughe in macchina nella poetica di Waits come fossero scampoli lasciati dietro di sé da Springsteen. 

1974: The Heart Of Saturday Night


Assieme ad Every Night About This Time di Dave Alvin questo è il miglior fotogramma della notte losangelena, un’ode ad un’America di soldati e marinai, di infimi bar e locali dove si fa lo striptease, di camionisti e puttane dal culo grosso che fanno gestacci alla luna. Con la voce piena di tabacco e whiskey ma col cuore invaso da  perdenti nemmeno troppo magnifici, Waits canta “il cuore del sabato notte” biascicando e recitando i versi ritmicamente contro basso e batteria in Diamonds On My Windshield e The Ghosts of Saturday Night. Tutto il disco trasuda di sudicio jazz da ora tardi, sporco di macchie di vino rosso e di serenate che dondolano sotto i lampioni come un ubriaco. E’ prosa sciolta e ritmata, per quel suo essere jazzy senza possederne i cliché, più per l’umore che per le regole sonore, per la florida immaginazione che sgorga dai solchi della notte, un turbinio emozionale perso in una Oldsmobile che sfreccia lungo il viale cercando il cuore di una città di vizio, peccato e miseria, un blues alcolico tenuto in piedi dal contrabbasso nervoso di Jim Hugarth, dagli sporadici colpi di sassofono di Tom Scott e dalla tromba di Oscar Brashear, sublime in Semi Suite, o dalla attenta e precisa batteria del povero Jim Gordon. E anche quando vengono usati gli archi, voluti dal produttore Bones Howe, le melodie non sono mai sdolcinate ma mantengono quelle sfumature di blu notte che imparentano questo album a In The Wee Small Hours di Frank Sinatra, due dischi analoghi anche nelle copertine. E poi c’è San Diego Serenade una ballata d’amore che andrebbe fatta leggere nelle scuole al posto di Leopardi. Difficile non rimanere incantati da The Heart Of Saturday Night, pur nel suo raccontare un’America di bassifondi e balordi. Fu il primo di Tom Waits che comprai, al tempo mi sembrò una rivelazione, non avevo mai sentito nessuno cantare e brontolare con così tanto sentimento e swing, altri ne furono in seguito contagiati e seguirono questo sghembo Bukowski del blues, mi vengono in mente A. J. Croce di That’s Me In The Bar, il  Bocephus King di A Small Good Thing , un certo Tom Gruning in Midnight Lullabye e naturalmente l’amico Chuck E. Weiss.

 

1975: Nighthawks At The Diner


Per il terzo album Tom Waits, aiutato dal produttore Bones Howe e dal manager Herb Cohen, allestisce un set dal vivo in studio invitando un po’ di amici e mettendo come apertura delle due serate (30 e 31 luglio 1975) lo striptease di Dewana, moglie di un taxista che aveva conosciuto nel sottobosco metropolitano. Una trovata adatta per introdurre settanta minuti di nuove canzoni dove le parti parlate sono più di quelle cantate, due facciate di talkin’ blues scorbutico e a ruota libera ma pure  lirico e spiritoso, cartolina di quel mondo notturno di bar,  birra calda e donne fredde da cui era uscito Tom Waits. Pare che Nighthawks At The Diner rimandi agli albori della sua carriera, quando prima di diventare musicista sbarcava il lunario come lavapiatti in una tavola calda e alla fine del turno di lavoro si piazzava al pianoforte del locale raccontando storie divertenti, tristi e strampalate intrattenendo i nottambuli che sempre in numero maggiore passavano ad ascoltarlo. Nighthawks at the Diner è un reading più che un concerto vero e proprio, ritmato da un combo squisitamente jazz dove spiccano il contrabbassista Jim Hughart e il batterista Bill Goodwin, già membro della band di Phil Woods, il valente sassofonista Pete Christlieb e il pianoforte di Mike Melvoin, rinomato arrangiatore jazz. Waits è il direttore d'orchestra, cantante, pianista ed in due brani anche chitarrista. Le liriche d’amore del primo album qui sfumano nell’ironia di Better Off Without A Wife, un’ode ai vantaggi dell'essere single, “ululare nelle notti di luna piena, dormire fino a mezzogiorno, andare a pesca senza chiedere il permesso” e nel quadretto umoristico di Emotional Weather Report. Il locale è denso di fumo, tintinnano i bicchieri, le risate sono grasse e Waits, sigaretta in bocca e voce roca è il crooner scapigliato inghiottito dal racconto di Spare Parts,  dai sette e passa minuti di Putnam County, dagli undici minuti di Nighthawk Postcards (From Easy Street) durante il quale offre la birra a quelli delle prime fila, “tanto è gratis, salvo pagarla all’uscita”. Il suo reading straccione,  jazzato fino al midollo ha gli scatti della prosa beat di Jack Kerouac e Tom Waits è lo stralunato cantastorie di un diner aperto tutta la notte uscito da un dipinto di Edward Hopper (stesso titolo). Scarno e ridotto all’osso ma meravigliosamente folle. Per il suo carattere colloquiale al tempo della sua pubblicazione l’album fu accolto piuttosto freddamente dal pubblico nostrano. Da rivalutare.

 

1976: Small Change

 

La voce di Tom Waits si fa ancora più roca in Small Change, un rantolo a cui le sigarette hanno regalato il catrame per asfaltare (in seguito sarà un latrato), un blues che sposa Howlin’ Wolf e Louis Armstrong, Raymond Chandler e Charles Bukowski. Basta appoggiare la puntina su Tom Traubert’s Blues per essere catapultati in un mondo dove “i fuggiaschi sostengono che le strade non sono più fatte per i sognatori ma per i sospetti di omicidio e i fantasmi che vendono ricordi”. E’ una canzone colossale, il frutto di un autore-poeta con un talento sovrumano, un pezzo il cui refrain è basato parola per parola su un brano australiano del 1890, Waltzing Matilda di A.B “Banjo” Paterson, anche se Waits dirà che la canzone è ispirata al suo incontro a Copenaghen con la cantante danese Mathilde Bondo. Il brano stabilisce il tono del disco, dalle continue citazioni di Jitterburg Boy (Marilyn Monroe, Rocky Marciano, Minnesota Fats, Louis Armstrong) alle taverne  di I Wish I Was in New Orleans, dalla surreale The Piano Has Been Drinking ad Invitation To The Blues, dal fegato a pezzi e il cuore infranto di Bad Liver and Broken Heart alla delirante parodia dei locali per striptease di Pasties & A G-String dove  “pasties" sono i lembi di stoffa per coprire i capezzoli e  “g-strings” i perizoma usati dalle spogliarelliste nei loro spettacoli. Candido, marcio e romantico allo stesso tempo, Small Change porta alla visione di tutti le doti di scrittura di un autore originale ed unico nel mondo del rock, capace di scovare i brillanti nella spazzatura e legittimare  una fauna dei marciapiedi senza nessuna necessità di salvezza. Pieno di alcol e a proprio agio con balordi, prostitute, bari, spacciatori, pervertiti e altre frattaglie umane, a Waits non manca certo l’umorismo, visionario in The Piano Has Been Drinking, sarcastico e autodistruttivo in Bad Liver and Broken Heart, e nemmeno l'ironia, come dimostra Step Right Up, uno scat sostenuto dal sassofono di Lew Tabacking e dal contrabbasso del fedele Jim Hughart, su cui scrive : “Se volete il testo della canzone spedite una foto e due mummolarie (?) morte, in busta affrancata, col proprio indirizzo a Tropicana Motor Hotel, Hollywood, California c/o Young Tom Waits”. Viene pubblicato nel 1976 ma siamo anni luce da Hotel California. Indimenticabile la copertina con Waits fotografato tra trucchi, spray e sigarette nel camerino della ballerina go-go Cassandra Paterno meglio conosciuta come Elvira, la padrona della notte.

 

1977: Foreign Affairs


 

L'album si apre con una struggente love song: “Muriel da quando hai lasciato la città i club hanno chiuso i battenti e c'è un lampione in più sulla via principale laggiù dove eravamo soliti passeggiare. Muriel frequento ancora gli stessi vecchi luoghi e tu mi segui ovunque vada, Muriel ti immagino un sabato notte in una sala giochi,  i capelli legati dietro la nuca e il diamante che scintilla nei tuoi occhi, è l'unico anello nuziale che ti comprerò, Muriel”. Immediatamente dopo, il romanticissimo duetto con Bette Midler in I Never Talk To The Strangers  traccia le coordinate di un album ancora più scarno e noir dei precedenti, un lavoro  punteggiato dagli interventi del sax e della tromba, unici punti di colore in un decor jazzistico in bianco e nero contraddistinto dalla voce mai così malinconica di Waits, dal suo pianoforte e dalla misurata sezione ritmica di Jim Hughart e Shelly Manne. Anche quando le dinamiche sembrano farsi più marcate, ed è il caso  della errabonda Jack & Neal, il cui titolo è un aperto riferimento a Jack Kerouac e Neal Cassady di Sulla strada, i suoni rimangono  dentro le pareti di un nightclub ormai vuoto, quando addirittura non scendono lacrime di commozione nella toccante A Sight for Sore Eyes, degna compagnia della Carmelita di Warren Zevon.  Il mistery cinematografico si fa strada in Potters’ Field, forte di un assolo di clarinetto da parte di Gene Cipriano, un cimitero dei poveri reso ancora più tetro dagli arrangiamenti orchestrali e dal parlottare cupo e allucinato di Waits.  Anticipa la grande drammaticità del finale di Burma Shave e il pezzo più imprevedibile del disco, il beat-jazz di Barber Shop. L’idea generale del disco è proprio quella di un film noir in b/n degli anni cinquanta e la copertina, opera del fotografo-ritrattista George Hurrell, ne sottolinea lo stile.  Waits è abbracciato nella penombra con Marsheila Cockrel, cassiera del Troubadour, la cui mano mostra anelli, una sigaretta ed un passaporto. La notte è regina e il crimine dietro l’angolo ma Tom Waits da istrione quale è sdrammatizza: “La mia identificazione con il poeta della notte? se vuoi sapere qualcosa a proposito della notte, appunto, chiedi a un poliziotto, a un paramedico, a un vigile del fuoco, ad un commesso del turno di notte, ad un ragazzo che consegna i giornali, ad un barista, una cameriera, il proprietario di un club. Loro sapranno dirti qualcosa. Chiedi a quelli che tolgono di mezzo i tuoi rifiuti. Oppure chiedi a quelli che tolgono di mezzo te”.

 

1978: Blue Valentine


 

Il percorso di Tom Waits da Closing Time fino ad Heartattack And Vine è di una naturalezza sorprendente, ogni disco, compreso il finto live,  è un piccolo scatto in avanti nel rappresentare un sottobosco che è l’America notturna e marginale, beona e vagabonda, malavitosa e sentimentale delle sue arruffate ballate, un’America di terz’ordine rievocata con vivido realismo e trasfigurazione a volte un po’ compiaciuta in canzoni di fangosa dolcezza e di swingante brutalità, che attingono al jazz, al blues luciferino di Howlin’ Wolf e Screamin’ Jay Hawkins, alla canzone americana più classica (Gershwin, Hoagy Carmichael, Frank Sinatra, Cole Porter), ai romanzi dell’hard-boiled californiano e agli scrittori della beat generation. Ma se è concesso indicare un punto climax di tale percorso questo è Blue Valentine, per chi scrive uno dei tre capolavori di tutta l'odissea waitsiana, assieme a Rain Dogs e Mule Variations. Bones Howe continua ad essere il produttore e la musica rimane un condensato di jazz e blues con il pianoforte e talvolta l'organo in evidenza anche se si affacciano le chitarre a svantaggio di sassofono e orchestra, ma la west side story qui assume toni epici. Un piccolo Cesare è sorpreso a scassinare una gioielleria (Red Shoes By The Drugstore), una ragazza scappata di casa incontra un tipo poco raccomandabile ed il dramma incombe ($29), il leader di una gang messicana dopo aver fatto fuori a coltellate uno sceriffo che gli ha ucciso il fratello va a morire in un cinema dove proiettano un gangster movie con James Cagney. Sgorga il sangue in una boheme al neon che Waits canta con spietato realismo, quasi fosse un bisogno esistenziale. Squallidi alberghetti (A Sweet Little Bullet From a Pretty Blue Gun), ghetti disastrati (Kentucky Avenue), paesaggi di una periferia senza speranza, amori pieni di rimorsi (la magnifica Blue Valentine), fughe senza fine e la bellissima Christmas Card from a Hooker in Mineapolis dove una puttana scrive dalla galera ad una sua vecchia fiamma inventandosi una vita normale senza alcol e droga, sposata con un suonatore di trombone, ma finendo con l’ammettere che ciò che gli serve sono i soldi per un avvocato che la faccia uscire il giorno di San Valentino, ostentano una solitudine che raramente il rock ha cantato con così tanta poesia e sentimento. Sublime, come il retro-copertina dove l’artista amoreggia in modo poco canonico con la sua musa del momento, Rickie Lee Jones.

 

1980: Heartattack And Vine


 

I primi sostanziali cambiamenti di quello che sarà il Tom Waits post-Asylum  si manifestano in Heartattack And Vine, un disco più incline al rock rispetto ai precedenti dove Waits suona prevalentemente la chitarra elettrica. Ancora prodotto da Bones Howe, orchestrato da Jerry Yester e registrato ad Hollywood, l’artista di Pomona fa appello ad un team di musicisti più ampio rispetto al passato,  c'è il batterista della band che lo segue on the road, Big John Thomassie di New Orleans, già con Freddie King, Dr. John e Bonnie Bramlett, c’è Ronnie Baron al piano e all'organo, anche lui di New Orleans, c'è Larry Taylor, ex Canned Heat, al basso e il chitarrista Roland Bautista. Dice Waits: “Lui  è cresciuto in Slauson Avenue, e per me ciò basta e avanza”. Il risultato è un disco che perde in eleganza jazzistica e acquista in ruggine rock/blues, la voce è meno incatramata ma le canzoni sono superbe, specie  ballate come Jersey Girl entrata a piena ragione nei live show di Bruce Springsteen, come la drammatica On The Nickel in cui Waits duetta con se stesso assumendo un tono rauco e cavernoso in contrasto a pause dolci e melodiche, come la triste Ruby’s Arms usata da Jean Luc Goddard nel suo film First Name: Carmen. La svolta è nell’aria, come disse all’epoca Tom Waits: “Ho smesso di fumare durante la registrazione del disco, forse il miglioramento della mia voce ha qualcosa a che vedere con quello. Ho provato a raggiungere un qualche livello di igiene personale e credo che il disco ne abbia risentito. Ho solo provato a darmi una ripulita, un po’, penso che aiuti, bevo solo vino, adesso, il mio preferito è lo chablis Carlo Rossi”. Non solo ballate, ci sono diverse tracce dal marcato sostegno ritmico che fanno presagire lo sferragliare metallurgico di un prossimo futuro, la canzone che dà il titolo all'album è un crudo rock/blues ripreso da uno dei suoi idoli, Screamin’ Jay Hawkins, Til The Money Runs Out apre la seconda facciata allo stesso modo e Downtown è un cadente jazz-blues giocato sul contrasto tra la chitarra elettrica di Waits ed il pregnante Hammond alla Jimmy Smith di Ronnie Barron. Ha detto Waits di Heartattack And Vine: “Come songwriter, passi attraverso stagioni diverse. Arrivato a questo punto, stavo imparando a scrivere più velocemente. Di solito, ero abituato a rimuginare sulle canzoni per mesi e mesi, la scrittura di Heartattack And Vine è stata molto più spontanea. E, per la prima volta ho lasciato che il batterista usasse le bacchette, invece delle spazzole. Intendo dire che continuavo a sentire tutto con il contrabbasso, una tromba con la sordina o il sassofono tenore, avevo una panorama musicale limitata, così ho voluto allargare un po’. Penso di aver compiuto un salto di livello ed è un processo ancora in corso". Pubblicato nel 1980 Heartattack And Vine è il disco che vende di più negli Stati Uniti prima di Mule Variations e chiude stilisticamente il primo ciclo di Tom Waits. Il seguente Swordfishtrombones farà da spartiacque tra il suo periodo romantico, le suggestioni mitteleuropee e le conseguenti sonorità sperimentali dei dischi che arriveranno dopo.

 

MAURO ZAMBELLINI

 

6 commenti:

armando ha detto...

Tutti in vinile ed una magnifica scoperta per me negli anni di formazione leggendo le recensioni sul Mucchio. Grazie anche a chi ci ha lavorato su quelle pagine. Una bella retrospettiva per non dimenticare...thanks !

bobrock ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
armando ha detto...

Si è vero, i vinili oggi costano un occhio della testa. Personalmente non li compro più anche perchè mi manca lo spazio dove collocarli. Tutti i vecchi dischi sono in due grosse scatole di cartone e quando ho voglia di rimetterli sul piatto è li che vado. Sul finire dei settanta ed anche in seguito per fortuna molti sono finiti in NICE PRICE e soprattutto sul versante blues e jazz si è riusciti a prenderne un bel pò...ma come te anche io per quelli di Waits e non solo quelli ho dovuto tirare fuori un bel pò di lire.

bobrock ha detto...

Armando se facessi il conto di vinile cd e ...concerti mi compravo la casa al mare.......
l'unica cosa positiva oggi e' che i cd costano poco. Peccato che i giovani non li comprano (io ho 54 anni) ed entro breve anche i cd non li stamperanno piu'. I dischi in vinile li ho venduti per ..mancanza di spazio (sob) e anche di cd ne ho venduti parecchi perché ero un consumatore seriale.
Vivo di ristampe ma onestamente non so ancora per quanto. Mi rendo conto che sto comprando certi dischi all'infinito. Ma in giro non vedo nulla di interessante. E questo mi sembra un problema comune.

armando ha detto...

Abbiamo la stessa età o quasi (sono del '64) e quello che scrivi è un sentire comune. E' vero ed è triste constatare che tutto quello che ci ha affascinato e coinvolto, oggi quasi non abbia più presa sulle nuove generazioni tranne pochi casi. E' vero... i cd sono più alla portata delle nostre tasche ma diventa sempre più difficile trovargli un posto tra gli scaffali e pochi sono quelli degni di nota che resistono al tempo. A volte ho la sensazione che incosciamente si voglia rivivere i "glory days" delle stagioni passate perchè magari si ha paura che prima o poi tutto questo possa finire. Ma ad ogni modo si va avanti e la speranza che dietro l'angolo ci sia ancora qualcosa di valido non mi abbandona nonostante tutto . Poi rimane questo spazio,un angolo sulla rete che sa parlare ancora con il cuore e l'anima. Abbracci...
Armando

bobrock ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.