


Chi conosce il lavoro di Graziano Romani sa quanto il rocker emiliano sia stato influenzato dalle canzoni di altri artisti e altri autori. Non lo ha mai nascosto, Romani non è uno di quei musicisti che si reputano unici ed originali o peggio ancora fingono di ignorare che prima di loro ci sono stati altri e più bravi da cui loro hanno preso ed ereditato qualcosa.
Romani, in questo, è un artista molto americano e poco italiano, non è spocchioso e non ha mai nascosto che la sua musica e le sue canzoni "discendano" da qualcos' altro, mai negando le influenze subite, sia quelle più esplicite come quella di Springsteen, sia quelle più nascoste che solo un attento conoscitore della musica rock e soul come lui è in grado di citare. Dice l'autore sulla copertina di Between Trains "ho sempre amato le cover, interpretare il lavoro di altri aggiungendo il mio personale punto di vista e i miei sentimenti. Ho sempre cercato di imparare le canzoni dei cantautori che ammiravo e di tutti quei grandi artisti che mi hanno influenzato. Quando ancora suonavo coi Rocking Chairs e non pensavo di scrivere canzoni mie, mi piaceva fare le cover dal vivo e qualcuna di queste l'ho messa nel miei dischi. Questo album significa molto per me."
La ragione è che Between Trains raccoglie tredici canzoni che hanno dato l'ispirazione e l'anima alla musica di Graziano ed in generale gli hanno offerto la possibilità di raccontare, ognuna, una storia. Non sono canzoni minori ma solo rare e appannaggio di un fine conoscitore musicale come lui, alcune sono note, altre no, qualcuno è stato un hit e qualcun altro è semplicemente un piccolo poema in musica, tutte concorrono però a creare l'universo dentro cui Romani si è mosso in questi anni attraversando con la sua musica, i suoi dischi, le sue canzoni e le sue cover il rock, il soul, il blues, il folk e la canzone d'autore in generale. Che un artista italiano riesca con gusto, sentimento, giusta umiltà ed una intensa interpretazione vocale a "coprire" canzoni di Robbie Robertson, Joni Mitchell, Bob Dylan, Jimmy Webb, Peter Gabriel, Van Morrison, Warren Zevon, Richard Thompson è un successo che premia sia la sua bravura sia la tenacia di chi crede che queste non siano solo canzonette ma il tratto profondo di una cultura che da noi è ignorata se non addirittura bistrattata.
Come si può non rimanere allibiti davanti ad un artista che nel mare della idiozia e della superficialità culturale nazionale, sceglie di intitolare un disco con una canzone assolutamente fuori quota come Between Trains di Robbie Robertson, contenuta nel film Re per una Notte di Martin Scorsese la cui colonna sonora non è certo stata un successo di vendite, per di più pubblicata solo in vinile. Bisogna essere dei topi da negozi di dischi, certosini ricercatori di cose "innominabili"oltre che sognatori di un mondo parallelo dove la bellezza è una struggente ballad tra rock e soul cantata col cuore in mano. Ma le meraviglie non finiscono con la canzone di Robertson perché ci vuole un temperamento da incallito appassionato di oscuri songwriters per spingersi a riproporre The Living End, una dolorosa canzone (tanto per cambiare tratta da un lost third album) di una artista misconosciuta e controversa (si esaurì con l'eroina dopo un paio di dischi ed una conversione al folk cristiano) come Judee Sill oppure andare a rovistare in soffitta e ridare aria a Sound Of Free, una canzone di Dennis Wilson apparsa in un 45 giri del 1969. O dare voce ai dimenticati Strawbs con una Grace Darling estratta dal loro Ghosts del 1975 in cui si racconta di questa eroina settecentesca inglese, figlia di un guardiano del faro che salvò un intero equipaggio dal naufragio.
Sebbene siano note le sue connessioni col rock americano, Graziano Romani non ha mai negato che quando una canzone ha anima ed una storia da raccontare non importa la sua origine. Così dal patrimonio dal reggae arriva una tribolata Strugglin' Man di Jimmy Cliff trasformata a ballata e ancora in campo inglese l'amato Van Morrison viene omaggiato con una intensa e personale versione di Brand New Day (da Moondance) dove si apprezza l'arrangiamento di violino di Giulia Nuti e Peter Gabriel, altra vecchia passione di Romani, è riesumato attraverso White Shadow, titolo estratto dal suo lontano secondo disco solista.
Poi c'è Richard Thompson di cui è offerta una versione coi fiocchi (tra le cose migliori dell'intero Between Trains) di Genesis Hall dal repertorio dei Fairport Convention, impreziosita dalle chitarre di Tede Tedeschini e dal piano di Chris Gianfranceschi.
Decisamente innovative sono le rielaborazioni di Last Chance Lost di Joni Mitchell, nell'originale un brano dipinto a tinte jazz che qui si trasforma in un esperimento ai confini del folk con il misurato lavoro delle chitarre acustiche (Romani e Giacomo Baldelli), della viola di Giulia Nuti, del contrabbasso di Massimo Ghiacci e delle percussioni di Gigi Cavalli Cocchi. Non poteva mancare Springsteen presente con la "negroide" Real World e Dylan, la cui già meravigliosa Don't Fall Apart On Me Tonight qui brilla come uno degli highlights del disco con Graziano che dà fondo a tutto il suo cuore di vocalist arrochito e passionale e la band (i fidi Max Ori e Pat Bonan alla sezione ritmica), Gianfranceschi all'organo e Cristiano Marmotti alla chitarra, che suona alla grande creando un commovente pathos da rock ballad. Altre perle del disco sono l'intima e riflessiva interpretazione di Mutineer di Warren Zevon dove Erik Montanari si fa notare con la chitarra e una struggente Wichita Lineman di Jimmy Webb, autore molto stimato da Romani, il cui tema viene immalinconito ancora di più dalla voce scura e bluesata di Romani mentre un bell'inciso del chitarrista Max Cottafavi aggiunge una componente di rock disperato e romantico estraneo alla versione di Webb.
Prodotto dallo stesso Romani, Between Trains si avvale della partecipazione di un nutrito stuolo di amici e musicisti che offrono solidità al generale umore soul-folk-rock del disco e contribuiscono ad arrangiamenti asciutti ed essenziali, in linea con la visione personale che l'artista ha voluto dare a queste canzoni, tredici perle grandi e piccole che sono il cuore e l'anima di una avventura musicale che merita rispetto e attenzione anche se nata dalle nostre parti.
Uno dei dischi migliori della sua carriera.
Mauro Zambellini
Buscadero - settembre 2008
(Matador)
Dopo il criptico tentativo di mettere in musica Edgar Allan Poe con The Raven, il cantore di New York torna ad una delle sue opere più difficili, contraddittorie ed osteggiate, quel Berlin che nel 1973, anno della sua pubblicazione, fece scrivere a Rolling Stone: un album palesemente offensivo, la fine della carriera di Lou Reed.
La storia non è andata come prevedeva l’illustre rivista americana, Lou Reed si è conquistato a pieno merito un posto di primo piano nella storia del rock e a trentacinque anni dalla sua pubblicazione Berlin è considerato uno dei capolavori della sua discografia. Un opera non facile, ieri e oggi, che descrive la disperata e devastante storia di un violento junkie (Jim) e della sua fidanzata prostituta (Caroline), due americani che vivono in una Berlino sfigurata dalla guerra, dall’iniziale stato di euforia dovuto all’uso delle anfetamine fino all’inevitabile caduta in una spirale di dipendenza, violenza, schizofrenia e degrado che porta Caroline a suicidarsi dopo che le autorità le hanno tolto l’affidamento dei figli. Opera cupa e malata, ambientata in una plumbea atmosfera mittleuropea, orchestrata come se si trattasse di una specie di cabaret tedesco, con un massiccio uso del piano (Bob Ezrin, collaboratore di Lou Reed), con partiture di viola e violoncello e impregnato delle sonorità metalliche delle chitarre di Steve Hunter e Dick Wagner, Berlin è una coraggiosa rappresentazione del clima di decadenza estetica e morale che pervase un certo ambiente rock degli anni ’70, storie, come ha suggerito lo stesso autore, di gente che esisteva negli anni settanta non solo a Berlino ma dovunque. Una storia violenta e angosciante che Lou Reed con l’aiuto di Bob Ezrin tradusse in musica e come un freddo narratore raccontò momenti agghiaccianti come The Kids, scosso dallo straziante pianto dei bambini che vengono tolti alla madre e come l’epilogo di The Bed e Sad Song dove Caroline si uccide tagliandosi le vene e Jim vaga stranito nella casa come un relitto, prigioniero del ricordo di lei ed incapace di comprendere quanto sia successo.
Più volte nel corso degli anni è stato proposto a Lou Reed di eseguire dal vivo l’intero Berlin, cosa che non aveva mai fatto e finalmente e dopo innumerevoli tentativi, grazie alle pressioni del direttore del piccolo St.Ann’s Warehouse di New York, il progetto è andato in porto e nel dicembre del 2006 per quattro serate Berlin è stato suonato davanti al pubblico. Da lì è nato anche un mini tour che ha riscosso riconoscimenti e consensi in giro per il mondo.
I concerti del St.Ann’s Warehouse sono stati filmati dal regista Julian Schnabel (Basquiat), amico di Reed e grande estimatore di Berlin, e la storica performance sarà disponibile in un Dvd in uscita contemporanea con il disco live.
Prodotto da Bob Ezrin con Hal Willner e musicato da alcuni degli stretti collaboratori di Lou Reed (Fernando Saunders, Antony, Steve Hunter, Rob Wassermann, Rupert Christie e Sharon Jones) Berlin Live subisce una importante rilettura in termini di intensità sonora ed arrangiamenti orchestrali che ne mantiene inalterata l’originalità e non stravolge lo spirito del tempo. Pur arricchitoo da una orchestra di sette elementi e dal Brooklyn Youth Chorus, il nuovo Berlin non è opera tronfia e ridondante nonostante la teatralità del tema e l’atmosfera scabrosamente melodrammatica dell’opera prima ma al contrario il cantato di Lou Reed e l’essenziale efficacia dei musicisti mantengono l’enfasi dentro delle solide coordinate di rock metropolitano. Berlin Live è una sinfonia elettrica nei torbidi anfratti dell’animo umano che tocca il suo apice nell’esecuzione lancinante di Sad Song, nelle fustigate chitarristiche di Lady Day (sia lodato Steve Hunter) nel rumore al calor bianco di Men of Good Fortune, nell’assordante impasto chitarre/fiati di How Do You Think It Feels, nelle chitarre nervose e schizoidi di Oh Jim dove Lou Reed canta come fosse ancora in Take No Prisoners.
Uniche eccezioni all’intento concept dell’opera l’aggiunta di tre encore: la velvettiana Candy Says, una gelida e perfetta Rock Minute ed una Sweet Jane abbastanza trascurabile.
MAURO ZAMBELLINI SETTEMBRE 2008
(Alligator Records)
Segnalatisi l’anno scorso con Country Ghetto JJ Grey & Mofro rincarano la dose con un disco di scoppiettante freschezza dove le loro radici sudiste si fondono in un soul venato di gospel e funky ed in un blues che sa di paludi e acquitrini. Basta far partire il cd e
Orange Blossoms ci catapulta in quel sud dove il tempo scorre lento e il dolce far niente fa molti meno danni di Wall Street. Che JJ Grey sia del sud, precisamente 40 miglia fuori Jacksonville, Florida, lo si percepisce subito, nel modo in cui il suo storytelling vagabondo, brioso e a ruota libera, che ama comunque fornire una descrizione appassionata e devota dei suoi luoghi natali e di vita, si mischia con gli umori caldi di una musica che ora è un blues delle paludi, ora un soul carico di gospel, ora un groove che fa ballare scatenando sax e trombe, ora è un funk in agrodolce con qualche visione psichedelica che si placa solo quando un rock rurale che parla di fuoco, diavoli e alla fine, malvolentieri, anche di redenzione fa capolino portando con sé il solito fardello di letteratura sudista.
JJ Grey evoca complesse emozioni con il minimo uso di parole e con una musica che nel suo essere tutto e niente affascina, seduce, rallegra e mette addosso voglia di vivere e sognare. Le sue influenze sono molteplici ma Tony Joe White col suo swamp-rock, John Lee Hooker col suo boogie, Dan Penn col suo down-home soul e Sly & Family Stone col suo lazy funky sembrano aver regalato qualcosa in più di una semplice idea alla sua musica, che per intenderci non è solo ritmo e groove ma possiede un appeal melodico “svaccatamente contagioso” oltre che divertente che la colloca sulla stessa strada di Anders Osborne, Clarence Bucaro, Eric Lindell, Grayson Capps, Ramsey Midwood, giovani outsiders la cui filosofia esistenziale per il mercato e la morale americana (e non solo quella) è peggio del comunismo.
Musica per dreamers, losers and ramblers che ruota ipnotica e leggermente drogata attorno al ritmo sornione di Move It On, un po’ il centro gravitazionale di tutto il disco dove i Mofro, un ensemble allargato comprendente anche fiati, cori e violini, rivela una attitudine da jam band e dove l’Hammond di Adam Scone scomoda paragoni con There’s A Riot Goin’ On di Sly and Family Stone.
JJ Grey si occupa di un gran numero di strumenti tra i quali chitarre ritmiche e soliste, basso, percussioni, tastiere e armonica mentre Daryl Hance, l’altro storico nome dei Mofro, contribuisce a creare con la sua chitarra e i suoi arrangiamenti atmosfere di soul psichedelico alla Curtis Mayfield. Ballate melodiche, peraltro molto ironiche, come I Believe (In Everything) si accompagnano con titoli altrettanto sarcastici, Everything Good is Bad, che mettono in risalto una voce da soulman alla Redding mentre la misteriosa She Don’t Know evoca incontri notturni e sfodera una carica sensuale da brivido caldo. JJ Grey & Mofro potrebbero essere il mezzo di riscaldamento più economico per l’autunno prossimo a venire e Orange Blossoms è un disco che risponde ad unica prerogativa: la musica per essere tale deve avere anima. Qui di soul ce n’è quanto volete, basta far girare il cd e stappare una birra, il resto viene da sè.
MAURO ZAMBELLINI
Da dieci anni, dall’uscita dello straordinario Car Wheels on a Gravel Road, Lucinda Williams ha conosciuto una ascesa artistica senza precedenti inanellando album sempre belli e diversi l’uno dall’altro e assurgendo al ruolo di migliore rockeuse/songwriter della musica americana di oggi. Una ascesa che continua con Little Honey, disco che segue solo di un anno l’acclamato West ma non si limita a cavalcarne il successo perché introduce una serie di cambiamenti che lo rendono diverso pur in una logica prosecuzione stilistica. Rispetto a West il produttore non è più il rinomato Hal Willner ma l’ingegnere del suono di quel disco, Eric Liljestrand, il suono poi sterza verso un mix di country, blues e rock n’roll suonato con un atteggiamento disincantato e libero, un roots-rock meno elegante rispetto al precedente lavoro ma spartano e diretto, con decise puntate hard-rocking che richiamano lo stile senza fronzoli di World Without Tears. Affiora il rumore di una band che sembra la quintessenza di quelle strade impolverate del sud tanto decantate dalla Williams, poco avvezza alle raffinatezze ma in sintonia con quel misto di folk, blues e rock che costituiscono le radici dell’artista : Bob Dylan e Lightin Hopkins, i Cream e i Rolling Stones, Robert Johnson e Memphis Minnie.
Per la prima volta, inoltre, la Williams sembra aver lasciato da parte quelle sue ballate di oscura introspezione che l’hanno resa famosa, per rivolgersi all’esterno, ai temi delle relazioni umane e dell’amore con un ottimismo mai provato prima. L’insieme di questo aspetto e l’appoggio sempre più determinato della sua band, i Buick 6 con il bassista David Sutton, il batterista Butch Norton e i chitarristi Chet Lyster ( ex Eels) e soprattutto il riconoscibilissimo Doug Pettibone, fanno si che Little Honey suoni differente da West e riporti una fresca aria roots nella carriera dell’artista della Louisiana. Aggiungete inoltre l’uso di una sezione fiati (cosa mai avvenuta prima) nella soffice ed epica Rarity, il brano che più strettamente ripropone l’ombrosità delle sue vecchie ballate, un duetto con Elvis Costello nel mini dramma in salsa country di Jailhouse Tears e la presenza di una leggenda come Charlie Louvin e avrete un album che riesce ancora una volta ad entusiasmare senza essere la copia del disco precedente riassumendo al contempo tutti gli elementi che hanno reso la Williams una delle più celebrate songwriter viventi. Presenti nel disco anche Susanna Hoffs e Matthew Sweet, la quale aiuta ad arrangiare con un potente wall of sound la prorompente Little Rock Star.
Come afferma la stessa autrice, Little Honey è più luminoso rispetto ad altri suoi lavori “ perché mi trovo in una differente fase della mia vita e quindi ci sono più momenti felici. Questa volta ho voluto cercare più al di fuori di me stessa che dentro il mio animo”. Ecco perché Little Honey è più rockato, a cominciare dalla sferzante Real Love che apre il disco con con un riff di chitarra stoppato e poi invoca con decisione e passione rollingstoniana un real love sensuale e a tutto ritmo. Gli fanno immediatamente eco Circles And X’s, scritta nel lontano 1985, strimpellata come un arruffato country-blues di scuola Keith Richards e sottolineata dal sapiente organo di Rob Burger e la lenta Tears Of Joy,, anche qui il blues ad indicare come i paesaggi dell’anima più volte descritti dalla Williams in modo cerebrale e triste siano adesso illuminati da una luce diversa. Ciò non toglie che l’introspezione e le ballate siano nel dna della sua musica, basta aspettare la rarefatta e visionaria Rarity, il gorgheggio melodico di Wishes Were Horses, la lenta e notturna The Knowing per trovare riscontro ma è l’intenso e crudo potere del rock n’roll in Honey Bee ed il crescendo spectoriano di Little Rock Star a marchiare il disco con un rock da strada chitarristico e senza piagnistei. La vivace Long Way To The Top chiude il disco sui ritmi di un rock n’roll spregiudicato e molto rollingstoniano e fotografa alla perfezione la Lucinda Williams di Little Honey..
Mauro Zambellini Settembre 2008
(14 marzo 2008) Sono passate due settimane ma il ricordo è ancora vivo e pulsante. Pensavo di trovarmi un DeVille acciaccato e stanco, seduto sullo sgabello a cantare i suoi dolenti Delta blues sporchi di Messico ed ecco invece il concerto che non ti aspetti, un concerto che nessuno osava prevedere alla vigilia, che ha riportato in auge il sound eccitante e sporco di Mink deVille. Un concerto ad alto tasso elettrico con il rock sugli scudi che ha riproposto lo stile spavaldo e i modi crudi del DeVille newyorchese degli anni ’70 e primi ’80, con tanto di Gibson alla Chuck Berry e la voce affilata che canta Spanish Stroll, Savoir Faire, Venus Of Avenue D, White Trash Girl, Cadillac Walk e Italian Shoes con una determinazione ed una forza che era da parecchio tempo che mancava negli show del gitano.
Quello al Live Club di Trezzo è stato un concerto che ha rammentato il DeVille velenoso e duro del CBGB’s, pur con le differenze d’età e di un fisico ormai ridotto all’osso. Alto, magnetico, pallidissimo e magro da morire, Willy è apparso però più forma che nelle precedenti esibizioni italiane quando seduto sullo sgabello con la chitarra acustica incantava i presenti con commoventi ballad che traevano spunto dai suoi amori per il soul, il blues, New Orleans ed il vecchio jazz di Bourbon Street. Questo lato intimo di DeVille non è andato perso perché anche a Trezzo Willy ha alternato ai momenti più lancinanti e rock alcuni siparietti in cui ha fatto il bluesman di razza con una fangosa Muddy Waters Rose Out Of The Mississippi Mud oppure strizzando il cuore dei presenti con le struggenti Trouble In Mind, Heart and Soul e Let It Be Me o spingendosi nei quartieri dello spanglish con la sua personale versione di Hey Joe e con l’ormai classica Demiasado Corazon.
Ha anche avuto il tempo di “promozionare” Pistola alla sua maniera ovvero con soli due brani, So So Real e Been There Done That, dando ulteriore conferma della sua totale indipendenza verso i modi e i calcoli dello show business e poi ha evocato da vero sciamano gli spiriti del bayou con la cantilenante Cheva. Ma gli highlights dello show sono arrivati dal Mink De Ville tagliabudella delle notti newyorchesi, quando era di casa al Cbgb e il suo pachuco rock era la cosa più pericolosa della città almeno in termini di contaminazioni tra rock bianco e i suoni dei “negri” e degli ispanici. Così al pubblico più stagionato è sembrata magia riascoltare intense riproposizioni di Mixed Up Shook Up Girl e Venus Of Avenue D recuperate dal primo album Cabretta e la devastante versione di Steady Drivin’ Man, punto sintesi tra Phil Spector, NY sound e i Rolling Stones, felice eredità di quel capolavoro che risponde al nome di Return To Magenta.
Vestito di nero con una palandrana da pirata dei bassifondi di Parigi più che dei Caraibi, imponente sul palco nonostante la sua magrezza, Willy ha fumato solo una sigaretta, bevuto succo di frutta e lanciato rose bianche ai presenti ma la sua musica è apparsa sconvolgente e stordente come quando si imbottiva di droghe e metteva paura a chiunque lo incontrasse nella notte e nelle stradine della Lower East Side di New York.
A dividere il palco con lui una Mink De Ville Band assemblata attorno a due vecchie conoscenze, il bassista Bob Curiano ed il batterista Shawn Murray, con Willy negli anni 80 e 90. Oltre a loro il chitarrista Mark Newman, non certo al livello del grande Fred Koella ma volonteroso ed efficace, il percussionista Boris Kinberg, il bravo Davin Brown al piano e le imponenti presenze femminili di Dorene e Madonna Wise, due vocalist che hanno tinto di gospel i brani di più recente scrittura. Una band non virtuosa ma compatta, energica, essenziale allo stiletto-rock di un DeVille che ha dimostrato una volta di più la sua imprevedibilità . Grande, unico, meraviglioso ed immortale. L’ultima delle rockstar.
Mauro Zambellini
Strepitoso. Una festa del rock n’roll. E’ arrivato in treno alla stazione Centrale di Milano alle 20.45 come un lavoratore qualsiasi e alle 21.35 era sul palco pronto con Travelin’ Band ad incendiare l’aria dell’ Alcatraz con il migliore canzoniere del rock n’roll esistente, facendo cantare 2800 persone con una musica gioiosa, coinvolgente, trascinante e senza tempo.
John Fogerty è un miracolo della natura, la sua voce non ha subito negli anni la minima scalfittura, è bella, potente, espressiva e la sua musica è calda e solare come un pomeriggio estivo californiano. Se qualcuno pensava di trovare un residuato dei sixties è rimasto seccamente smentito, quello di Milano è stato uno show memorabile con un John Fogerty da favola. Il miglior concerto rock di questa prima metà del 2008. Commovente, esaltante, vario, duro e tenero, con tante, tantissime canzoni dei Creedence in pista, specie nella prima parte dello show (Bad Moon Rising, Green River, Who’ll Stop The Rain, Susie Q, Born On The Bayou, Looking Out My Backdoor, Midnight Special) e nell’ultima (Swett Hitch-Hiker, Down On The Corner, Up Around The Bend, Hey Tonight, Fortunate Son) , una parte centrale in cui si sono sentiti echi di musica country e cajun con tanto di violino e fisarmonica e alcuni estratti del recente Revival (Don’t You Wish It Was True, Gunslinger, Broken Down Cowboy) ed infine un bis all’insegna del sing along collettivo con tanto di Rockin’ All Over The World e Proud Mary. Unico neo della serata la mancanza della struggente Deja Vu (All Over Again) ma glielo si può perdonare a questo “Beatles dei poveri” che nel magico biennio 1969/1970 con i suoi Creedence Clearwater Revival superò gli stessi baronetti in quanto a 45 giri nelle top ten.
Con lui sul palco dell’Alcatraz c’era un fenomenale band di sette elementi, una armata che in certi momenti aveva cinque, dico cinque, chitarristi e poi basso (Dave Santos) e batteria, e che batteria perché Kenny Aronoff è un monumento del drumming, un picchiatore dinamico e versatile che ti fa vedere le stelle solo guardarlo. Imponente, muscoloso, energico, dominante ma anche appartato quando è necessario (in pezzi come Midnight Special. Cotton Fields, Broken Down Cowboy), è il miglior batterista rock che mi sia capitato di vedere, assieme a Charlie Watts. Poi, quando i chitarristi rimanevano “solo” in tre (Fogerty, il rockabilly cat Billy Burnette e lo scatenato barbuto Hunter Perrin), Matt Dolan si piazzava all’organo e Jason Mowery (ex Keith Urban band) prendeva il violino. Una band a geometria variabile, pronta ai cambi di scenario delle canzoni del leader, perfetta nei suoni e potente come poche ad esprimere il miglior suono del rock n’roll americano. Ma è John Fogerty il mattatore, l’working class hero, il rocker dalle cento energie, capace di stregare una intera platea con la sua camicia a scacchi e il suo bandana rosso attorno al collo (stesso look di Cosmo’s Factory anno 1970), i suoi modi schietti, le sue canzoni semplici, la sua voce squillante e la spontaneità dei gesti, come quando all’inizio di ogni brano confabulava coi musicisti quasi a scegliere lì per lì il pezzo da eseguire. Una vitalità da far invidia ad un ventenne, mobile sul palco, sicuro col microfono, pronto ad ogni brano a cambiare chitarra, dalla Fender alla Gibson all’acustiche e a cambiare velocità e umori passando dal rock n’roll alla Berry, al country-rock, dalle ballate (poche in verità) al R&B, dalla musica cajun a quello strambo connubio di pop, roots e swamp-rock che sono le sue inconfondibili canzoni. Un vero artista del rock n’roll, popolare e sincero come la sua musica, capace di entusiasmarsi e gioire come il pubblico che si è trovato di fronte, un pubblico magnifico che ha cantato, applaudito, osannato, partecipato e gli ha strappato più di una volta un sentito i loooove youuuu e “non dimenticherò mai questa serata”..
Quello di Milano è stato uno show speciale per tante ragioni, per la vitalità del leader e la bravura della sua band, per il pubblico, per lo splendido e immortale spettacolo del rock n’roll, perché il 12 giugno del 2008 era la prima volta che questo artista si esibiva in Italia.
Un evento eccezionale che non ha avuto nessun momento retorico e celebrativo ma solo tanti momenti musicalmente memorabili, dall’inizio al fulmicotone di Travelin’Band a quella Who’ll Stop The Rain che arriva sempre puntuale nei giorni di pioggia, da una pregnante e scura versione di I Heard It Through The Grapevine con un il grande lavoro di Hammond da parte di Dolan alle dureKeep On Chooglin’ e Ramble Tamble trattate alla maniera psichedelica ampliando i tempi con lancinanti assoli di chitarra, da quella specie di autobiografia che è Old Man Down The Road alle note di speranza di Have You Ever Seen The Rain capace di far cantare anche l’ultimo degli stonati, fino alla micidiale Fortunate Son. C’è stato spazio anche per una scalpitante versione di Night Time Is Right Time di Ry Charles (la fanno anche gli Stones nelle ultime tournee) e un inedito, Comin’ Down The Road che, come ha detto Fogerty, è stata tenuta per tanto tempo nel cassetto e stasera la voglio dedicare a voi.
Una serata magica quella del 12 giugno all’Alcatraz.
MAURO ZAMBELLINI GIUGNO 2008