Qualche minuto dopo la mezzanotte. Avevo finito da cinque minuti di scrivere un pezzo su Bob Seger quando, cercandone il file sull' hard disk, mi sono imbattuto in una cartella dimenticata, con il titolo di "Il Re del Rock & Roll". Qualche cosa che scrivevo più di dieci anni fa per un progetto che non ha mai visto la luce. Fra i tanti file di quella cartella ce n'era uno intitolato proprio Bob Seger. Aperto, mi rivelava ancora più sorprendentemente un pezzo firmato a due mani: Blue Bottazzi & Mauro Zambellini. Non conservavo il ricordo di quella collaborazione lontana. A rileggerne le note si riconosce lo stile di Zambo, tanto che penso che il pezzo sia proprio suo. Ma qua e la effettivamente c'è anche il mio stile. Dunque è vero: avevamo scritto una cosa assieme, in qualche modo dimenticato, per poi tenerla sepolta su una serie di hard disk. La riporto volentieri qui sullo Zambo's Place, senza overdubs, modifiche o correzioni. Le parti belle sono di Zambo. Le altre sono mie". (Blue Bottazzi)
di Blue Bottazzi & Mauro Zambellini
“Pensala in termini di ponti bruciati
pensa alle stagioni che passano
guarda i fiumi che nascono e finiscono
nasceranno e finiranno di nuovo
tutto deve avere una fine
come l’oceano alla spiaggia
come un fiume nel mare...
...è il famoso gran finale”
Bob Seger, Detroit, classe 1945 (o meglio, Ann Arbour, una sporca suburbia di Detroit, famosa per la delinquenza ed i suicidi), 20 anni on the road, 15 album, il rocker più importante di una delle più importanti città del rock. Tre album sono l’asse portante di tutto il suo lavoro, sono la ragione dell’amore del suo enorme pubblico, sono il suo lasciapassare per il paradiso: Live Bullett, live album del ’76, Night Moves, del ’76, Stranger In Town, del ’78. Tre dischi di ballate e rock’n’roll: grandi ballate sognanti e grandi rock’n’roll di fuoco, giacché dopo tutto che altro è il rock se non questo? Ma cominciamo dall’inizio: Ann Arbour, si diceva. Il padre di Bob, medico mancato, incasinato con problemi di alcool, lavora nell’infermeria della Motor Ford Company, fino a che un giorno si scazza, parte per la California, ma si dimentica di prendere con se moglie e figli. Tira avanti la madre come domestica, mentre Bob sconta i suoi bravi problemi di affetto e di inserimento. La radio è per lui la sola fuga:
“Vivendo nella parte povera della città, non potevo avere altro che gusti da greaser. Così quando mia madre e mio fratello rincasavano, e le stazioni del Michigan riducevano la potenza, mi infilavo la cuffia del transistor e mi sintonizzavo su WLAC di Nashville. Potevi ascoltare James Brown & The Famous Flames, Wilson Pickett, Garnett Mimms & The Enchanters.”
All’età di 15 anni Bob scopre di avere un talento naturale per le rime e scrive la sua prima canzone, The Lonely One, trasmessa da un d.j. di Ann Arbour. Sono anni quelli in cui Bob non flirta bene con la scuola, preferendo le piccole delinquenze giovanili, il Rithm & Blues ed il Rock & Roll. Nonostante questo è all’Università del Michigan che Bob incontra Eddie “Punch” Andrews, l’uomo che sarà di fondamentale importanza per la sua carriera e colui che lo spingerà alla musica e sarà poi costantemente il produttore di tutti i suoi lavori. Andrews è il titolare della Hideout records, un’etichetta interessata a promuovere gruppi locali che si rifanno al British Sound, in particolare ai gruppi hard rock e quelli più influenzati dal blues. Seger dapprima suona con gli Omens di Doug Brown, poi riprende East Side Story degli Underdogs di Suzi Quatro e Glen Frey, e lo porta al successo assieme ad Haevy Music, più tardi pubblicato su un album degli anni ’70, Smoking O.P.s. E’ questo il momento del primo contratto importante.
Gli Underdogs fanno parte della Motown di Detroit e tutto fa pensare che Seger entri nella scuderia Tamla come il primo cantante bianco dell’etichetta. Se non che “Punch” Andrews ha conoscenze alla Capitol, e Seger finisce li. “Forse fu un bene, perchè nonostante la Motown sia di Detroit, io non avevo molto in comune con la musica di quell’etichetta. C’era molto più Wilson Pickett che Smockey Robinson nelle mie vene. Ora amo la Capitol, sono come una famiglia per me, ma all’inizio non fu tutto rosa e fiori: avevano sotto controllo i Beatles, i Lettermen, i Beach Boys e me. Quando incisi “2+2=?”, un pezzo anti Vietnam, mi buttarono letteralmente fuori dall’ufficio e bloccarono la pubblicazione del 45 giri”.
“2+2=?” è comunque su Ramblin’ Gamblin’ Man, il primo lp a firma Bob Seger System, un trio messo assieme con l’aiuto di Glen Frey (Eagles), in cui domina la voce possente di Bob ed un certo sound che è immagine dell’America del tempo. Rock Blues, psichedelia, Hendrix, acidi, concorrono a far di questo disco un prodotto oggi molto datato. Ramblin Gamblin Man è comunque un ottimo pezzo, ben scritto, sentito e fuorilegge al punto giusto. Arriva anche in Europa, e Bandiera Gialla del duo Arbore/Boncompagni lo programma alcune settimane. Ma il periodo più duro comincia adesso. Passeranno sei anni e cinque lp prima che il suo nome esca dall’area locale di Detroit. Per anni sarà un eroe del suo stato ed un benemerito sconosciuto fuori dalla landa industriale del Michigan. Noah, del ’69, Mongrel, del ’70, e Brand New Morning del ’71 sono album che si susseguono nel più completo anonimato, e Seger risulta essere il più cocciuto dei rockers, infischiandosene della produzione dei dischi, e rivolgendosi completamente al lavoro “on stage”, sul palco. Arriverà a fare 300 concerti in un anno, creandosi il mito di animale da palcoscenico, dello show man instancabile, del rocker tutto d’un pezzo, fama ripresa in tempi successivi da Springsteen e Cougar.
La situazione non cambia nemmeno quando Seger lascia momentaneamente la Capitol per la Reprise ed incide Smoking OP’s nel ’72, Back in ’72 nel ’73 e Seven nel ’74. Il primo è quello con il pacchetto delle Lucky Strike sulla copertina, ed il titolo è un gioco di parole fra “other people’s songs” ed “other people’s cigarettes”, fumando le sigarette, o le canzoni, degli altri. Ed infatti si tratta di un album di covers, fra cui spiccano la celebre Bo Diddley ed il classico Let It Rock.
“Seven” paga il conto con il sound del momento, il boogie rock sudista di Allman Bros e Lynyrd Skynyrd. Tra i pezzi, Get Out Of Denver sarà destinata ad assumere il ruolo del classico di Seger, immancabile bis di ogni show e cover di tante rock & roll bands (fra cui ricordo quella degli Eddie & The Hot Rods) nonostante sia ricalcata da Johnny B. Goode del solito Chuck (Berry, chi altri?); poi UMC, Upper Middle Class, un anthem blue collar esplicito sui gusti da greaser dei kids della suburbia. Amarezza, alcool, riscatto, il pieno di benzina ed una strada su cui rollare il blues dei tempi duri.
Quando è pronto il successivo Beautiful Loser (’75) la Reprise, stanca di questa mitologia da jeans sgualciti, rifiuta di pubblicarlo. Bob ritorna alla Capitol, l’album viene fatto uscire ed ha un discreto successo, ma la storia si ripeterà con il successivo doppio live, Live Bullett, che la casa considera una copia del best seller del momento, “Frampton Comes Alive”. L’album si rivelerà il primo dei maxi successi dell’artista.
“Ma non è finita - aggiunge Punch Andrews - dopo l’hit di Live Bullett, i signori della Capitol rifiutarono anche i nastri di “Night Moves” perchè poco eccitanti rispetto al Live. Le case discografiche spesso agiscono senza un briciolo di ragione e con un senso degli affari da troglodita.”
Beautiful Loser, del ’75, apre ufficialmente l’era moderna di Bob Seger & The Silver Bullet Band: il magnifico perdente, l’eroe solitario che vaga per i larghi spazi USA, non ha un soldo in tasca, un amore deluso in fondo al cuore, occasioni mancate, affetti perduti, una scorza dura così, ma sotto un cuore che palpita. Questa è la filosofia di Seger, più marcata ancora che negli altri cantori dell’altra America, da Springsteen a Jackson Browne, Terry Allen, John Cougar.
“Mi pare che sia successo solo ieri, ma è passato un sacco di tempo / Janey era adorabile, era la regina delle mie notti / là nel buio, con la radio che suonava bassa / ed i segreti che abbiamo diviso, le montagne che abbiamo mosso / sono stati presi come da un fuoco impossibile da controllare, fino a che non sono rimaste che le ceneri / e non è rimasto più niente da provare / ed io mi ricordo quello che lei mi diceva, quando giurava che sarebbe sempre stato così / mi ricordo come mi stringeva, e vorrei non sapere adesso quello che non sapevo allora / correvamo contro il vento... / e gli anni sono passati lentamente, e mi sono ritrovato solo / circondato da stranieri che credevo amici / mi sono ritrovato così lontano da casa che penso di essermi perso / c’erano così tante strade... ed io vivevo per correre, e correvo per vivere / senza preoccuparmi di quanto mi sarebbe costato / ora quei giorni da vagabondo sono passati... ma io ancora corro contro il vento / sono più vecchio ora, ma ancora corro contro il vento” (Against The Wind, 1980).
“All’Est come all’Ovest il fuorilegge ha più verità dello sceriffo!” grida Bob di fronte ad una banda di agguerriti rockers. Il Michigan si riconosce tutto in un paio di canzoni che hanno la potenza di un cannone: Travellin’ Man, Beautiful Loser, Katmandu. Ma il finimondo si scatena nel ’76: esce Live Bullet, cronaca di uno show della Silver Bullet Band alla Cobo Hall di Detroit davanti a 24000 fortunati. Per chi avesse dimenticato il significato di rock & roll, per chi non ricordasse il fascino di un assolo nervoso su una chitarra elettrica, per chi negli anni ’50 non aveva mai avuto la fortuna di assistere ad uno show di Jerry Lee Lewis, Live Bullet fu una grande occasione di riportare alla mente cosa rock & roll significhi.
Live Bullet è per due terzi una unica, lunghissima, selvaggia, sudata, rovente cavalcata sulle dodici battute elettriche del ritmo di Johnny B. Goode. A partire dalla dura UMC, passando per il ritmo saltellante di Bo Diddley, la cover più sfruttata del rock qui nella sua edizione migliore, attraverso Ramblin Gamblin Man, una versione funky tritabudella di Haevy Music, con tanto di inserto Ain’t Nothing You Can Do, che trasuda soul e blues, e poi via, alla massima velocità a sfidare gli sceriffi lungo le strade del Dixieland con Katmandu, Looking Back, la classicissima Get Out Of Denver, ed in tutt’uno Let It Rock, mentre qua e la fanno capolino Little Queenie e Whole Lotta Shakin’, con Drew Abbott impegnatissimo a testare a quanti minuti di assolo possa resistere un ampli Marshall con i controlli sul 10. La ’cosa’ più rock registrata a tutt’oggi. Nel restante terzo, Seger fa Nutbush City Limits di Tina Turner (in apertura; “ ...leggevo ieri notte su Rolling Stone che Detroit è il pubblico più rock del mondo: merda! E’ dieci anni che lo so!” ). I’ve Been Working di Van Morrison, ed un paio di ballate malinconiche, Travellin’ Man, Jody Girl e Turn The Page, con un sax da brividi.
Non passa neanche un anno che arriva Night Moves, il masterpiece.
La canzone che porta il titolo dell’album fu forse la prima, completa poesia del vasto catalogo Chevrolet:
“Sul sedile posteriore della mia Chevrolet del ’60 / risolvendo i nostri misteri senza alcun indizio / compivamo i nostri spostamenti notturni / cercando di far notizia da prima pagina / non eravamo innamorati / oh no, ci eravamo lontani / non eravamo alla ricerca di qualche cosa di straordinario / eravamo solo giovani, inquieti ed annoiati / vivevamo alla giornata / e rubavamo ogni occasione possibile... ognuno faceva la sua parte.”
I rock fumanti si alternano a ballate dolcissime, e per un Night Moves c’è un Rock’n’Roll Never Forgets, per un The Fire Down Below c’è un Sunspot Baby, per un Ships Of Fool c’è una Mary Lou, mentre sulle due facciate si alternano la Silver Bullet Band, la banda del proiettile d’argento, e la Muscle Shoals Rithm Section.
“Adesso i sedici anni sono diventati trentuno / ti senti stanco quando la giornata è finita / tutto ciò che devi fare è alzarti e reagire / se sei in difficoltà torna indietro / il rock’n’roll non dimentica”.
Passano due anni, 1978, ed esce Stranger In Town, probabilmente il più grosso hit di Bob. Stranger prosegue sulla stessa via di Night Moves, di cui potrebbe rappresentare le facciate 3 e 4, forse un poco più orientato sulla ballata lenta. Tutti i pezzi dell’album sono classici. Ain’t Got No Money (una cover di Frankie Miller) è il manifesto programmatico:
“Sto cercando una donna / che stia cercando un uomo / che stia cercando dei giorni come non ne ha vissuti mai / solo una dolce signora / che ancheggi come dinamite / che si prenda cura di me nell’afa della notte / forza baby non scappare / guardami dritto negli occhi / non avrò una lira, ma ho un sacco di amore da dare!”
Old Time Rock & Roll è qui per confermarci che sono ancora i giorni di Rock & Roll Never Forgets.
E apposta Brave Strangers corre sui binari di Night Moves, la canzone:
“Le notti erano calde, ed i sogni venivano facili / nessuno ci diceva cosa fare / e le parole non contavano molto / eravamo affamati ma nulla poteva saziarci / la radio suonava stupide canzoncine d’amore, ma noi ne ascoltavamo solo il ritmo / non eravamo amanti, solo estranei selvaggi che lottavano nella notte / eravamo i musicisti, non gli arrangiatori / e suonavamo fino alle prime luci dell’alba...”
Ormai raggiunto il successo, il grosso pubblico, ed il numero uno delle classifiche, Seger sembra paradossalmente abbandonare nelle liriche parte di quella energia di correre, di arrivare, per cullarsi definitivamente nelle malinconie per ciò che è stato, nelle proprie ansie di invecchiare. Il vecchio cow boy dai jeans logori vuole scendere dal tram, fermarsi perdente e guardare il tempo che passa commemorando quello che è stato. E’ ancora l’amore, però, a farla da padrone nelle canzoni, sia pure sempre vissuto come ricordo:
“Lei era luminosa come il sole della California / lui era solo un ragazzo del midwest / lei lo guardò con quei suoi occhi dolci, azzurri ed innocenti / e lui si accorse di quanto fosse lontano da casa / lei gli prese la mano e lo condusse in quella spiaggia d’oro / guardarono le onde scivolare sulla sabbia / camminarono per miglia / per quelle strade tutte a curve / e salirono, salirono sempre più in alto / ...quelle notti ad Hollywood / per quelle colline di Hollywood / lei era così bella / con i suoi diamanti ed i suoi abiti eleganti / quelle notti nella grande città / per quelle colline rotolanti / ...ed alla fine arrivò la mattina che lui si svegliò ed era solo” (Holliwood Nights).
Quando l’amore c’è ancora, è sul punto di essere perso, come in We’ve Got Tonite, o The Famous Final Scene:
“So che è tardi, so che sei stanca / so anche di non essere nei tuoi piani / così siamo di nuovo a questo punto / due solitari che cercano un rifugio / perché lamentarci? Non importa a nessuno / guarda le stelle così lontane / abbiamo questa notte / chi ha bisogno di pensare al domani? / abbiamo questa notte / perché non approfittarne? / In fondo alla mia anima sono così solo | tutte le mie speranze non ci sono più / ho cercato un amore, come fanno tutti, ed ora so che domani sarò da capo / ma abbiamo ancora questa notte / non pensiamo al domani / abbiamo questa notte / ti prego rimani...” (We’ve Got Tonite).
Un vero manifesto per tutti gli amanti del rock & roll. Per dare un seguito a Stranger ci vorranno due anni, vale a dire 1980, con Against The Wind. Un disco estremamente curato, suonato e registrato alla perfezione, al solito con una predominanza di grandi ballate (anche se Betty Lou è un singolo da Creedence e The Orizontal Bop un boogie da Little Feat), apparentemente adatto anche ai circuiti delle radio FM. Ma basta grattare un poco sotto la superficie cromata e porgere le orecchie ai testi per trovare tutte le crisi e le contraddizioni del vecchio Bob, la sua inguaribile insofferenza per il tempo che scorre come un fiume in piena portando via con se (anche) gioie ed affetti:
“ ...e così sembra il nostro destino / cercare e non fermarsi mai / cavalcare quest’onda che continua a cambiare e non arriva mai alla spiaggia / tremare nella notte buia / aver paura di fermarsi un attimo / e tornare a far la nostra parte fuori, nella terra di nessuno...” (No Man’s Land).
Against The Wind è questo, il vecchio loner contro il vento, contro la corrente, come lo zio Joe di Fire Lake:
“Chi guiderà quella tre ruote cromata / chi farà quell’errore / chi vuole mettersi quei vestiti da zingaro / sulla strada per il lago di fuoco? / Chi vuole sapere dello zio Joe, vi ricordate lo zio Joe / era quello che aveva paura di prendersi la sua parte / chi vuole dirlo alla povera zia Sara / Joe se n’è scappato al lago di fuoco...” (Fire Lake).
C’è dello zio Joe in Seger, quel Seger che dopo 15 anni “on the road” sente il bisogno di tirare per un po’ i remi in barca, ma si deve domandare se farlo ora che ha alla fine afferrato il successo non sia una pazzia. Ed alla fine, proprio come Joe, dopo un nuovo doppio in concerto ed un ultimo album registrato controvoglia, si rende irreperibile e non se ne saprà niente per anni. Il doppio dal vivo, registrato a Detroit, Michigan è Nine Tonight dell’81.
L’anno successivo è la volta di The Distance. Non c’è più Punch Andrews alla produzione, ma quel vecchio marpione di Jimmy Iovine, all’epoca specialista di un suono morbido ed orecchiabile. L’album è realizzato un po’ a fatica da un Seger di cui si avverte la stanchezza, di centinaia di concerti all’anno, di dover in continuazione dover scrivere nuove canzoni, e probabilmente disorientato del nuovo status di rock star. In realtà si tratta ancora di rock & roll e ballate, ma nessuna canzone salta fuori con prepotenza. Iovine ha buon gioco nell’impadronirsi dei comandi, e lavora un po’ come un barman che fa del robusto bourbon di Night Moves un long drink assai poco alcolico.
Comunque dopo le registrazioni il buon Bob saluta, fa i bagagli e se ne fugge al suo ’fire lake’. Passeranno quattro anni prima che decida che è l’ora di riprendere. Nel frattempo le cose sono un po’ cambiate: l’unica musica in giro che sembra in grado di vendere è quella da ballo (ma Springsteen vende venti milioni di copie di un album), e nonostante il rock & roll sia bel lontano dall’essere scomparso c’è stato un ricambio generazionale sulla scena. I vecchi amici Glen Frey e Jackson Browne sono impastati in problemi geriatrici, ed i gruppi più energici sulla scena portano il nome di Los Lobos, Blasters, Del Fuegos, Lone Justice.
Seger dal canto suo si trova ad avere 42 anni e 14 album sulle spalle. Ma sa il fatto suo, e Like A Rock, il nuovo album, lo dimostra: come una roccia. E basti il video della title track a dimostrarlo, quello con la prateria, le nuvole ed il treno: una Fender è sempre una Fender, e Bob non ha dimenticato cosa è il rock & roll. Non tutto è perfetto, ci sono sbavature, come il terribile synt che rovina Tightrope, o l’aria wagneriana di American Storm, ma certe canzoni pochi in giro sanno scriverle e suonarle: lui, il Boss, Van the Man, Waits... Sto parlando di Somewhere Tonight, The Ring, Like A Rock. I testi sono quelli di sempre, blues e malinconici. Seger è l’uomo della nostalgia, del rimpianto, orgoglio e scarpe sfondate.
“Vent’anni, dove sono finiti / vent’anni, non lo so / certe volte sono seduto a domandarmi dove siano finiti / e qualche volta, nel cuore della notte / la luna mi ricorda un fantasma / e mi ricordo, mi ricordo... / come una roccia, ero come una roccia, e ancora credevo nei miei sogni...”.
Aftermath è sempre un rockaccio tosto, The Ring una ballata dai toni Springsteeniani, Miami ha una gran sezione di fiati, e Somewhere Tonight, nel suo crescendo rabbioso, è da pelle d’oca:
“In qualche posto questa notte / qualcuno supplica qualcuno che rifiuta / qualcuno ripensa a qualcuno con cui stava / qualcuno capisce che questa volta è davvero finita / qualcuno sta pensando che è troppo tardi... / c’è un vento freddo che soffia dal nord / e gli uccelli stanno per andarsene / ed il sole si rifugia più a sud / ed i laghi ghiacceranno presto / ed il ghiaccio riempirà le spiagge vuote / dove gli innamorati andavano a passeggiare... / e a meno che tu non trovi qualcuno da abbracciare / a meno che qualcuno non si prenda cura di te / a meno che tu non trovi il calore di cui hai bisogno / a meno che qualcuno divida con te la sua vita / quando arriveranno quelle lunghe notti buie / ed i venti dell’inverno si metteranno a soffiare / non sai sequesta volta ce la farai... / In qualche posto questa notte / qualcuno fa i bagagli e qualcuno se ne va / qualcuno non è disperato, solo non ci crede / qualcuno esce dalla porta... / qualcuno esce dalla porta...”.
Beh, da uno che è stato abbandonato dal padre, ed il cui matrimonio ha retto 364 giorni...
Bob Seger, Michigan: uno dei migliori!
(di Mauro Zambellini e Blue Bottazzi, scritto probabilmente alla fine degli anni '80).