sabato 20 febbraio 2010

Bob Seger


Qualche minuto dopo la mezzanotte. Avevo finito da cinque minuti di scrivere un pezzo su Bob Seger quando, cercandone il file sull' hard disk, mi sono imbattuto in una cartella dimenticata, con il titolo di "Il Re del Rock & Roll". Qualche cosa che scrivevo più di dieci anni fa per un progetto che non ha mai visto la luce. Fra i tanti file di quella cartella ce n'era uno intitolato proprio Bob Seger. Aperto, mi rivelava ancora più sorprendentemente un pezzo firmato a due mani: Blue Bottazzi & Mauro Zambellini. Non conservavo il ricordo di quella collaborazione lontana. A rileggerne le note si riconosce lo stile di Zambo, tanto che penso che il pezzo sia proprio suo. Ma qua e la effettivamente c'è anche il mio stile. Dunque è vero: avevamo scritto una cosa assieme, in qualche modo dimenticato, per poi tenerla sepolta su una serie di hard disk. La riporto volentieri qui sullo Zambo's Place, senza overdubs, modifiche o correzioni. Le parti belle sono di Zambo. Le altre sono mie". (Blue Bottazzi)

di Blue Bottazzi & Mauro Zambellini


“Pensala in termini di ponti bruciati
pensa alle stagioni che passano
guarda i fiumi che nascono e finiscono
nasceranno e finiranno di nuovo
tutto deve avere una fine
come l’oceano alla spiaggia
come un fiume nel mare...
...è il famoso gran finale”

Bob Seger, Detroit, classe 1945 (o meglio, Ann Arbour, una sporca suburbia di Detroit, famosa per la delinquenza ed i suicidi), 20 anni on the road, 15 album, il rocker più importante di una delle più importanti città del rock. Tre album sono l’asse portante di tutto il suo lavoro, sono la ragione dell’amore del suo enorme pubblico, sono il suo lasciapassare per il paradiso: Live Bullett, live album del ’76, Night Moves, del ’76, Stranger In Town, del ’78. Tre dischi di ballate e rock’n’roll: grandi ballate sognanti e grandi rock’n’roll di fuoco, giacché dopo tutto che altro è il rock se non questo? Ma cominciamo dall’inizio: Ann Arbour, si diceva. Il padre di Bob, medico mancato, incasinato con problemi di alcool, lavora nell’infermeria della Motor Ford Company, fino a che un giorno si scazza, parte per la California, ma si dimentica di prendere con se moglie e figli. Tira avanti la madre come domestica, mentre Bob sconta i suoi bravi problemi di affetto e di inserimento. La radio è per lui la sola fuga:
“Vivendo nella parte povera della città, non potevo avere altro che gusti da greaser. Così quando mia madre e mio fratello rincasavano, e le stazioni del Michigan riducevano la potenza, mi infilavo la cuffia del transistor e mi sintonizzavo su WLAC di Nashville. Potevi ascoltare James Brown & The Famous Flames, Wilson Pickett, Garnett Mimms & The Enchanters.”

All’età di 15 anni Bob scopre di avere un talento naturale per le rime e scrive la sua prima canzone, The Lonely One, trasmessa da un d.j. di Ann Arbour. Sono anni quelli in cui Bob non flirta bene con la scuola, preferendo le piccole delinquenze giovanili, il Rithm & Blues ed il Rock & Roll. Nonostante questo è all’Università del Michigan che Bob incontra Eddie “Punch” Andrews, l’uomo che sarà di fondamentale importanza per la sua carriera e colui che lo spingerà alla musica e sarà poi costantemente il produttore di tutti i suoi lavori. Andrews è il titolare della Hideout records, un’etichetta interessata a promuovere gruppi locali che si rifanno al British Sound, in particolare ai gruppi hard rock e quelli più influenzati dal blues. Seger dapprima suona con gli Omens di Doug Brown, poi riprende East Side Story degli Underdogs di Suzi Quatro e Glen Frey, e lo porta al successo assieme ad Haevy Music, più tardi pubblicato su un album degli anni ’70, Smoking O.P.s. E’ questo il momento del primo contratto importante.
Gli Underdogs fanno parte della Motown di Detroit e tutto fa pensare che Seger entri nella scuderia Tamla come il primo cantante bianco dell’etichetta. Se non che “Punch” Andrews ha conoscenze alla Capitol, e Seger finisce li. “Forse fu un bene, perchè nonostante la Motown sia di Detroit, io non avevo molto in comune con la musica di quell’etichetta. C’era molto più Wilson Pickett che Smockey Robinson nelle mie vene. Ora amo la Capitol, sono come una famiglia per me, ma all’inizio non fu tutto rosa e fiori: avevano sotto controllo i Beatles, i Lettermen, i Beach Boys e me. Quando incisi “2+2=?”, un pezzo anti Vietnam, mi buttarono letteralmente fuori dall’ufficio e bloccarono la pubblicazione del 45 giri”.

“2+2=?” è comunque su Ramblin’ Gamblin’ Man, il primo lp a firma Bob Seger System, un trio messo assieme con l’aiuto di Glen Frey (Eagles), in cui domina la voce possente di Bob ed un certo sound che è immagine dell’America del tempo. Rock Blues, psichedelia, Hendrix, acidi, concorrono a far di questo disco un prodotto oggi molto datato. Ramblin Gamblin Man è comunque un ottimo pezzo, ben scritto, sentito e fuorilegge al punto giusto. Arriva anche in Europa, e Bandiera Gialla del duo Arbore/Boncompagni lo programma alcune settimane. Ma il periodo più duro comincia adesso. Passeranno sei anni e cinque lp prima che il suo nome esca dall’area locale di Detroit. Per anni sarà un eroe del suo stato ed un benemerito sconosciuto fuori dalla landa industriale del Michigan. Noah, del ’69, Mongrel, del ’70, e Brand New Morning del ’71 sono album che si susseguono nel più completo anonimato, e Seger risulta essere il più cocciuto dei rockers, infischiandosene della produzione dei dischi, e rivolgendosi completamente al lavoro “on stage”, sul palco. Arriverà a fare 300 concerti in un anno, creandosi il mito di animale da palcoscenico, dello show man instancabile, del rocker tutto d’un pezzo, fama ripresa in tempi successivi da Springsteen e Cougar.
La situazione non cambia nemmeno quando Seger lascia momentaneamente la Capitol per la Reprise ed incide Smoking OP’s nel ’72, Back in ’72 nel ’73 e Seven nel ’74. Il primo è quello con il pacchetto delle Lucky Strike sulla copertina, ed il titolo è un gioco di parole fra “other people’s songs” ed “other people’s cigarettes”, fumando le sigarette, o le canzoni, degli altri. Ed infatti si tratta di un album di covers, fra cui spiccano la celebre Bo Diddley ed il classico Let It Rock.
“Seven” paga il conto con il sound del momento, il boogie rock sudista di Allman Bros e Lynyrd Skynyrd. Tra i pezzi, Get Out Of Denver sarà destinata ad assumere il ruolo del classico di Seger, immancabile bis di ogni show e cover di tante rock & roll bands (fra cui ricordo quella degli Eddie & The Hot Rods) nonostante sia ricalcata da Johnny B. Goode del solito Chuck (Berry, chi altri?); poi UMC, Upper Middle Class, un anthem blue collar esplicito sui gusti da greaser dei kids della suburbia. Amarezza, alcool, riscatto, il pieno di benzina ed una strada su cui rollare il blues dei tempi duri.

Quando è pronto il successivo Beautiful Loser (’75) la Reprise, stanca di questa mitologia da jeans sgualciti, rifiuta di pubblicarlo. Bob ritorna alla Capitol, l’album viene fatto uscire ed ha un discreto successo, ma la storia si ripeterà con il successivo doppio live, Live Bullett, che la casa considera una copia del best seller del momento, “Frampton Comes Alive”. L’album si rivelerà il primo dei maxi successi dell’artista.
“Ma non è finita - aggiunge Punch Andrews - dopo l’hit di Live Bullett, i signori della Capitol rifiutarono anche i nastri di “Night Moves” perchè poco eccitanti rispetto al Live. Le case discografiche spesso agiscono senza un briciolo di ragione e con un senso degli affari da troglodita.”

Beautiful Loser, del ’75, apre ufficialmente l’era moderna di Bob Seger & The Silver Bullet Band: il magnifico perdente, l’eroe solitario che vaga per i larghi spazi USA, non ha un soldo in tasca, un amore deluso in fondo al cuore, occasioni mancate, affetti perduti, una scorza dura così, ma sotto un cuore che palpita. Questa è la filosofia di Seger, più marcata ancora che negli altri cantori dell’altra America, da Springsteen a Jackson Browne, Terry Allen, John Cougar.

“Mi pare che sia successo solo ieri, ma è passato un sacco di tempo / Janey era adorabile, era la regina delle mie notti / là nel buio, con la radio che suonava bassa / ed i segreti che abbiamo diviso, le montagne che abbiamo mosso / sono stati presi come da un fuoco impossibile da controllare, fino a che non sono rimaste che le ceneri / e non è rimasto più niente da provare / ed io mi ricordo quello che lei mi diceva, quando giurava che sarebbe sempre stato così / mi ricordo come mi stringeva, e vorrei non sapere adesso quello che non sapevo allora / correvamo contro il vento... / e gli anni sono passati lentamente, e mi sono ritrovato solo / circondato da stranieri che credevo amici / mi sono ritrovato così lontano da casa che penso di essermi perso / c’erano così tante strade... ed io vivevo per correre, e correvo per vivere / senza preoccuparmi di quanto mi sarebbe costato / ora quei giorni da vagabondo sono passati... ma io ancora corro contro il vento / sono più vecchio ora, ma ancora corro contro il vento” (Against The Wind, 1980).

“All’Est come all’Ovest il fuorilegge ha più verità dello sceriffo!” grida Bob di fronte ad una banda di agguerriti rockers. Il Michigan si riconosce tutto in un paio di canzoni che hanno la potenza di un cannone: Travellin’ Man, Beautiful Loser, Katmandu. Ma il finimondo si scatena nel ’76: esce Live Bullet, cronaca di uno show della Silver Bullet Band alla Cobo Hall di Detroit davanti a 24000 fortunati. Per chi avesse dimenticato il significato di rock & roll, per chi non ricordasse il fascino di un assolo nervoso su una chitarra elettrica, per chi negli anni ’50 non aveva mai avuto la fortuna di assistere ad uno show di Jerry Lee Lewis, Live Bullet fu una grande occasione di riportare alla mente cosa rock & roll significhi.
Live Bullet è per due terzi una unica, lunghissima, selvaggia, sudata, rovente cavalcata sulle dodici battute elettriche del ritmo di Johnny B. Goode. A partire dalla dura UMC, passando per il ritmo saltellante di Bo Diddley, la cover più sfruttata del rock qui nella sua edizione migliore, attraverso Ramblin Gamblin Man, una versione funky tritabudella di Haevy Music, con tanto di inserto Ain’t Nothing You Can Do, che trasuda soul e blues, e poi via, alla massima velocità a sfidare gli sceriffi lungo le strade del Dixieland con Katmandu, Looking Back, la classicissima Get Out Of Denver, ed in tutt’uno Let It Rock, mentre qua e la fanno capolino Little Queenie e Whole Lotta Shakin’, con Drew Abbott impegnatissimo a testare a quanti minuti di assolo possa resistere un ampli Marshall con i controlli sul 10. La ’cosa’ più rock registrata a tutt’oggi. Nel restante terzo, Seger fa Nutbush City Limits di Tina Turner (in apertura; “ ...leggevo ieri notte su Rolling Stone che Detroit è il pubblico più rock del mondo: merda! E’ dieci anni che lo so!” ). I’ve Been Working di Van Morrison, ed un paio di ballate malinconiche, Travellin’ Man, Jody Girl e Turn The Page, con un sax da brividi.

Non passa neanche un anno che arriva Night Moves, il masterpiece.
La canzone che porta il titolo dell’album fu forse la prima, completa poesia del vasto catalogo Chevrolet:
“Sul sedile posteriore della mia Chevrolet del ’60 / risolvendo i nostri misteri senza alcun indizio / compivamo i nostri spostamenti notturni / cercando di far notizia da prima pagina / non eravamo innamorati / oh no, ci eravamo lontani / non eravamo alla ricerca di qualche cosa di straordinario / eravamo solo giovani, inquieti ed annoiati / vivevamo alla giornata / e rubavamo ogni occasione possibile... ognuno faceva la sua parte.”

I rock fumanti si alternano a ballate dolcissime, e per un Night Moves c’è un Rock’n’Roll Never Forgets, per un The Fire Down Below c’è un Sunspot Baby, per un Ships Of Fool c’è una Mary Lou, mentre sulle due facciate si alternano la Silver Bullet Band, la banda del proiettile d’argento, e la Muscle Shoals Rithm Section.
“Adesso i sedici anni sono diventati trentuno / ti senti stanco quando la giornata è finita / tutto ciò che devi fare è alzarti e reagire / se sei in difficoltà torna indietro / il rock’n’roll non dimentica”.

Passano due anni, 1978, ed esce Stranger In Town, probabilmente il più grosso hit di Bob. Stranger prosegue sulla stessa via di Night Moves, di cui potrebbe rappresentare le facciate 3 e 4, forse un poco più orientato sulla ballata lenta. Tutti i pezzi dell’album sono classici. Ain’t Got No Money (una cover di Frankie Miller) è il manifesto programmatico:
“Sto cercando una donna / che stia cercando un uomo / che stia cercando dei giorni come non ne ha vissuti mai / solo una dolce signora / che ancheggi come dinamite / che si prenda cura di me nell’afa della notte / forza baby non scappare / guardami dritto negli occhi / non avrò una lira, ma ho un sacco di amore da dare!”

Old Time Rock & Roll è qui per confermarci che sono ancora i giorni di Rock & Roll Never Forgets.
E apposta Brave Strangers corre sui binari di Night Moves, la canzone:
“Le notti erano calde, ed i sogni venivano facili / nessuno ci diceva cosa fare / e le parole non contavano molto / eravamo affamati ma nulla poteva saziarci / la radio suonava stupide canzoncine d’amore, ma noi ne ascoltavamo solo il ritmo / non eravamo amanti, solo estranei selvaggi che lottavano nella notte / eravamo i musicisti, non gli arrangiatori / e suonavamo fino alle prime luci dell’alba...”

Ormai raggiunto il successo, il grosso pubblico, ed il numero uno delle classifiche, Seger sembra paradossalmente abbandonare nelle liriche parte di quella energia di correre, di arrivare, per cullarsi definitivamente nelle malinconie per ciò che è stato, nelle proprie ansie di invecchiare. Il vecchio cow boy dai jeans logori vuole scendere dal tram, fermarsi perdente e guardare il tempo che passa commemorando quello che è stato. E’ ancora l’amore, però, a farla da padrone nelle canzoni, sia pure sempre vissuto come ricordo:
“Lei era luminosa come il sole della California / lui era solo un ragazzo del midwest / lei lo guardò con quei suoi occhi dolci, azzurri ed innocenti / e lui si accorse di quanto fosse lontano da casa / lei gli prese la mano e lo condusse in quella spiaggia d’oro / guardarono le onde scivolare sulla sabbia / camminarono per miglia / per quelle strade tutte a curve / e salirono, salirono sempre più in alto / ...quelle notti ad Hollywood / per quelle colline di Hollywood / lei era così bella / con i suoi diamanti ed i suoi abiti eleganti / quelle notti nella grande città / per quelle colline rotolanti / ...ed alla fine arrivò la mattina che lui si svegliò ed era solo” (Holliwood Nights).

Quando l’amore c’è ancora, è sul punto di essere perso, come in We’ve Got Tonite, o The Famous Final Scene:
“So che è tardi, so che sei stanca / so anche di non essere nei tuoi piani / così siamo di nuovo a questo punto / due solitari che cercano un rifugio / perché lamentarci? Non importa a nessuno / guarda le stelle così lontane / abbiamo questa notte / chi ha bisogno di pensare al domani? / abbiamo questa notte / perché non approfittarne? / In fondo alla mia anima sono così solo | tutte le mie speranze non ci sono più / ho cercato un amore, come fanno tutti, ed ora so che domani sarò da capo / ma abbiamo ancora questa notte / non pensiamo al domani / abbiamo questa notte / ti prego rimani...” (We’ve Got Tonite).

Un vero manifesto per tutti gli amanti del rock & roll. Per dare un seguito a Stranger ci vorranno due anni, vale a dire 1980, con Against The Wind. Un disco estremamente curato, suonato e registrato alla perfezione, al solito con una predominanza di grandi ballate (anche se Betty Lou è un singolo da Creedence e The Orizontal Bop un boogie da Little Feat), apparentemente adatto anche ai circuiti delle radio FM. Ma basta grattare un poco sotto la superficie cromata e porgere le orecchie ai testi per trovare tutte le crisi e le contraddizioni del vecchio Bob, la sua inguaribile insofferenza per il tempo che scorre come un fiume in piena portando via con se (anche) gioie ed affetti:

“ ...e così sembra il nostro destino / cercare e non fermarsi mai / cavalcare quest’onda che continua a cambiare e non arriva mai alla spiaggia / tremare nella notte buia / aver paura di fermarsi un attimo / e tornare a far la nostra parte fuori, nella terra di nessuno...” (No Man’s Land).

Against The Wind è questo, il vecchio loner contro il vento, contro la corrente, come lo zio Joe di Fire Lake:

“Chi guiderà quella tre ruote cromata / chi farà quell’errore / chi vuole mettersi quei vestiti da zingaro / sulla strada per il lago di fuoco? / Chi vuole sapere dello zio Joe, vi ricordate lo zio Joe / era quello che aveva paura di prendersi la sua parte / chi vuole dirlo alla povera zia Sara / Joe se n’è scappato al lago di fuoco...” (Fire Lake).

C’è dello zio Joe in Seger, quel Seger che dopo 15 anni “on the road” sente il bisogno di tirare per un po’ i remi in barca, ma si deve domandare se farlo ora che ha alla fine afferrato il successo non sia una pazzia. Ed alla fine, proprio come Joe, dopo un nuovo doppio in concerto ed un ultimo album registrato controvoglia, si rende irreperibile e non se ne saprà niente per anni. Il doppio dal vivo, registrato a Detroit, Michigan è Nine Tonight dell’81.

L’anno successivo è la volta di The Distance. Non c’è più Punch Andrews alla produzione, ma quel vecchio marpione di Jimmy Iovine, all’epoca specialista di un suono morbido ed orecchiabile. L’album è realizzato un po’ a fatica da un Seger di cui si avverte la stanchezza, di centinaia di concerti all’anno, di dover in continuazione dover scrivere nuove canzoni, e probabilmente disorientato del nuovo status di rock star. In realtà si tratta ancora di rock & roll e ballate, ma nessuna canzone salta fuori con prepotenza. Iovine ha buon gioco nell’impadronirsi dei comandi, e lavora un po’ come un barman che fa del robusto bourbon di Night Moves un long drink assai poco alcolico.

Comunque dopo le registrazioni il buon Bob saluta, fa i bagagli e se ne fugge al suo ’fire lake’. Passeranno quattro anni prima che decida che è l’ora di riprendere. Nel frattempo le cose sono un po’ cambiate: l’unica musica in giro che sembra in grado di vendere è quella da ballo (ma Springsteen vende venti milioni di copie di un album), e nonostante il rock & roll sia bel lontano dall’essere scomparso c’è stato un ricambio generazionale sulla scena. I vecchi amici Glen Frey e Jackson Browne sono impastati in problemi geriatrici, ed i gruppi più energici sulla scena portano il nome di Los Lobos, Blasters, Del Fuegos, Lone Justice.
Seger dal canto suo si trova ad avere 42 anni e 14 album sulle spalle. Ma sa il fatto suo, e Like A Rock, il nuovo album, lo dimostra: come una roccia. E basti il video della title track a dimostrarlo, quello con la prateria, le nuvole ed il treno: una Fender è sempre una Fender, e Bob non ha dimenticato cosa è il rock & roll. Non tutto è perfetto, ci sono sbavature, come il terribile synt che rovina Tightrope, o l’aria wagneriana di American Storm, ma certe canzoni pochi in giro sanno scriverle e suonarle: lui, il Boss, Van the Man, Waits... Sto parlando di Somewhere Tonight, The Ring, Like A Rock. I testi sono quelli di sempre, blues e malinconici. Seger è l’uomo della nostalgia, del rimpianto, orgoglio e scarpe sfondate.
“Vent’anni, dove sono finiti / vent’anni, non lo so / certe volte sono seduto a domandarmi dove siano finiti / e qualche volta, nel cuore della notte / la luna mi ricorda un fantasma / e mi ricordo, mi ricordo... / come una roccia, ero come una roccia, e ancora credevo nei miei sogni...”.

Aftermath è sempre un rockaccio tosto, The Ring una ballata dai toni Springsteeniani, Miami ha una gran sezione di fiati, e Somewhere Tonight, nel suo crescendo rabbioso, è da pelle d’oca:
“In qualche posto questa notte / qualcuno supplica qualcuno che rifiuta / qualcuno ripensa a qualcuno con cui stava / qualcuno capisce che questa volta è davvero finita / qualcuno sta pensando che è troppo tardi... / c’è un vento freddo che soffia dal nord / e gli uccelli stanno per andarsene / ed il sole si rifugia più a sud / ed i laghi ghiacceranno presto / ed il ghiaccio riempirà le spiagge vuote / dove gli innamorati andavano a passeggiare... / e a meno che tu non trovi qualcuno da abbracciare / a meno che qualcuno non si prenda cura di te / a meno che tu non trovi il calore di cui hai bisogno / a meno che qualcuno divida con te la sua vita / quando arriveranno quelle lunghe notti buie / ed i venti dell’inverno si metteranno a soffiare / non sai sequesta volta ce la farai... / In qualche posto questa notte / qualcuno fa i bagagli e qualcuno se ne va / qualcuno non è disperato, solo non ci crede / qualcuno esce dalla porta... / qualcuno esce dalla porta...”.

Beh, da uno che è stato abbandonato dal padre, ed il cui matrimonio ha retto 364 giorni...
Bob Seger, Michigan: uno dei migliori!

(di Mauro Zambellini e Blue Bottazzi, scritto probabilmente alla fine degli anni '80).

lunedì 15 febbraio 2010

Woodstock


Forse fu un grande inganno ma fu bello crederci. Quando nel 1970 uscì per la Warner Brothers il film Woodstock, con diversi amici calammo dalla provincia a Milano al Cinema Alcione (credo fosse quello anche se non ricordo esattamente, era dalle parti di Piazza Vetra) in un pomeriggio di un giorno feriale ed in mezzo ad uno sparuto ma attento pubblico ci beammo e rimanemmo estasiati dalle immagini e dalla musica di quel documentario che di colpo ci faceva partecipi di un mondo che noi, periferia dell’impero, avevamo solo supposto ed immaginato e che ora era lì davanti agli occhi terribilmente vero, reale, magnifico. D’accordo, prima c’erano stati i Beatles e i Rolling Stones, l’Italia era stata percorsa dal beat e dai “capelloni” e dalla vicina Olanda arrivavano le imprese anarchiche e pacifiche dei provos, ma quella fu la consacrazione, per la prima volta, noi che già compravamo i dischi americani di importazione e conoscevamo più Kerouac che Pavese, quella fu l’entrata ufficiale nella nazione dei giovani alternativi, giovani che speravano e sognavano un mondo diverso e colorato basato, come suggeriva la scritta che troneggiava sotto la chitarra con colomba che faceva da logo al festival, sull’amore, la pace e la musica. Era la Underground Nation per dirla alla californiana, dove tutto era nato tutto, ribattezzata adesso , dopo la visibilità offerta dal festival, la Woodstock Nation.
Poco importa se di lì a poco la saggistica adulta e approfondita sui riti giovanili rivelò che in realtà i tre giorni di Woodstock furono il banco di prova da parte delle organizzazioni criminali, FBI compresa, per il lancio di una capillare opera di penetrazione dell’eroina nel pubblico dei festival pop e poco importa se con i 100.000 dollari pagati dalla Warner Bros. per il film (diretto da Michael Wadleigh ed edito da Thelma Schoonmaker e Martin Scorsese) e con i diritti discografici dei futuri album (prima un triplo Lp Woodstock: Music from the Orginal Soundtrack and More, poi un doppio Lp Woodstock 2, poi nel 1994 un terzo album Woodstock Diary ed un box-set della Atlantic di 4CD Woodstock: Three Days of Peace and Music e oggi nel 2009 un monumentale box set di 6 CD con tanto di confezione a frange) quello fu il festival dell’amore sì, ma per il business visto che da quel giorno gran parte della spontaneità e dell’indipendenza del rock fu inghiottita da una scientifica rete di regole commerciali dettate dalle major discografiche. Sono in molti a pensare che in realtà il festival di Woodstock non fu l’apice della cultura hippie o la celebrazione dell’Era dell’Acquario ma il prologo ad un epilogo che si sarebbe consumato pochi mesi dopo, il 6 dicembre del 1969, sull’altipiano di Altamont, nei pressi di San Francisco, quando un servizio d’ordine di truci ed impasticcati Hell’s Angels picchiò a morte un ragazzo nero, Meredith Hunter, reo di essersi avvicinato troppo aggressivamente al palco dove i Rolling Stones, gruppo che nulla aveva a che spartire con il flower power e con la rivoluzione psichedelica, stavano suonando Sympathy For The Devil.
Poco importa della verità o presunta tale, era stato bello sognare e sognammo ad occhi chiusi perché quello era il mondo di entrare in trance con il rock di quei tre meravigliosi giorni, degnamente rappresentato nell’anno in cui l’uomo passeggiò sulla Luna, da un manipolo di artisti che, ancora non relegati dalla critica nei generi e nei sottogeneri, formavano un'unica grande ed inarrestabile onda sonora liberatrice.

Il più grande spettacolo rock di tutti i tempi era cominciato il 15 agosto con la voce declamatoria di Richie Havens che urlava come un ossesso Freedom nella verde valle di Bethel ed era finito nell’umida e vitrea alba del 18 agosto davanti ad una distesa di cartacce, rifiuti, bandiere sbrindellate, bivacchi abbandonati, fuochi che si spegnevano, sacco a pelo abbandonati e “solo” 40mila fantasmi, gli altri se ne erano già andati, con Jimi Hendrix che con la sua Fender Stratocaster prendeva a mitragliate l’inno americano Star Spangled Banner, come se quella acida e stridente distorsione avesse già messo definitivamente in archivio la Woodstock Nation e tutte le sue idee di pace & amore.
In mezzo c’erano stati grandi gesti, dagli Who, il gruppo che sanciva lo strapotere inglese nel rock e ne rappresentava i nuovi scenari elettrici e hard, al massimo della loro furia iconoclasta, al dondolante e rauco Joe Cocker di With A Little Help from My Friends una canzone che i Beatles ormai in disfacimento avevano lasciato dietro di sè, dall’interminabile assolo di Alvin Lee in I’m Goin Home, il blues che rese i Ten Years After prigionieri di sé stessi, alla dolcezza acustica di John Sebastian in I Had a Dream, stesso titolo del celebre messaggio di Martin Luther King, dal teatrino pop demenziale degli Sha Na Na al primo esempio di world music del sitar di Ravi Shankar, dal funky proud and black and sexy di Sly and Family Stone alla commovente e persa Janis Joplin di Summertime, dai ruspanti Canned Heat di Going Up The Country alla nascita in diretta di uno dei quartetti più celebri e celebrati di tutta la storia del rock ovvero gli angelici Crosby, Stills, Nash and Young che con Suite:Judy Blue Eyes sparsero quelle good vibrations che negli anni successivi fecero più ebeti che pacifisti. Anche se, a dirla tutta, il botto lo fecero gli Who con See Me Feel Me con Roger Daltrey che canta mentre sorge il sole e Carlos Santana “fatto” di messalina con il batterista Mike Shrieve che nemmeno sapeva su quale galassia si trovasse tirano una strepitosa, torrenziale e tribalee versione di Soul Sacrifice.

Tutti ricordano la danza della pioggia che coinvolse gran parte del pubblico stracciato e bagnato dopo il famigerato temporale che seguì all’esibizione di Joe Cocker ed interruppe il concerto per diverse ore tanto che in Italia ne fecero una versione nostrana con i polli gettati sul palco del Festival del Parco Lambro a metà anni ’70 quando ormai quell’eroina che aveva fatto capolino a Woodstock aveva bruciato qualsiasi sogno e qualsiasi ipotesi comunitaria. Qualcuno ricorda anche una delicata e struggente ballata cantata da Joni Mitchell, appunto intitolata Woodstock, che fu scritta a posteriori dalla cantante e poi ripresa da CSN&Y , forse pentita di non aver partecipato al più grande spettacolo rock di tutti i tempi il suo manager preferì indirizzarla nel più seguito e telegenico Dick Cavett Show.

Il festival di Woodstock nacque quando Michael Lang e Artie Kornfeld risposero ad un inserzione fatta sul New York Times e sul Wall Street Journal da John Roberts e Joel Rosenman che diceva pressappoco così: giovani uomini con capitale illimitato cercano interessanti opportunità legali di investimento e proposte di affari. L’idea dei quattro era squisitamente commerciale: avrebbero aperto uno studio di registrazione nell’atmosfera ritirata e tranquilla di Woodstock, stato di New York nel mezzo delle suggestive Catskill Mountains. L’idea cambiò e fu deciso per un più renumerativo festival all’aria aperta. Dopo una veloce prevendita, la Woodstock Ventures creata dai quattro vendette solo a New York e dintorni 186 mila biglietti al prezzo di 18 dollari per un giorno e 24 per tutti e tre i giorni. Fu subito chiaro che il festival situato nei 600 acri della fattoria di Max Yasgur a Bethel, vicino Woodstock, avrebbe richiamato una sterminata massa di giovani, un numero talmente imponente di persone da obbligare alla scelta di un free concert.
La cosa dal punto di vista logistico non fu indolore: il sito del festival non era attrezzato per così tante persone (dal mezzo milione al milione di partecipanti), le strutture sanitarie erano insufficienti, il sistema di pronto soccorso impotente, il traffico bloccò a lungo alcune autostrade dello stato di New York e molti dei presenti si trovarono in difficoltà a causa del clima e per la mancanza di igiene e cibo. L’unico cronista presente nel primo giorno del festival, Bernard Collier del New York Times, fu esplicitamente invitato dalla sua redazione a sottolineare gli aspetti deleteri dell’evento, i blocchi stradali, la sistemazione improvvisata, l’uso di droghe fra i ragazzi, i comportamenti sessuali promiscui e la presunta aggressività fra loro. Fu impresa non facile per Collier far passare il suo punto di vista ovvero la mancanza di violenza ed il clima di affascinante cooperazione tra i partecipanti e convincere i colleghi di Manhattan della erroneità delle loro opinioni preconcette. Alla fine ci riuscì e nonostante gli aneddoti sugli ingorghi stradali e sull’amore libero fossero raccontati all’inizio degli articoli, l’atmosfera autentica di quel raduno all’insegna dell’amore, della pace e della musica comparve sulla prima pagina del New York Times rivelando alla nazione ciò che stava sorprendentemente succedendo in quella conca verde di Bethel. Perché nonostante un morto per overdose ed un altro accidentalmente schiacciato da un trattore mentre dormiva in un fienile, quasi un milione di giovani visse uno degli eventi più incredibili del XX secolo e “fu l’energia di quella generazione a torso nudo a scalare il palco di Woodstock e ad issarlo dentro la storia”. Che fosse un’ utopia lo si vide quando un tremendo nubifragio colpì il festival, nel momento in cui chiunque poteva prevedere una immane tragedia questi giovani capirono che stavano tutti sotto lo stesso cielo e lo stesso destino e si misero a ballare felici, nudi e sorridenti, sotto l’acqua ed in mezzo al fango. Provate a pensare cosa succederebbe oggi con un milione di giovani assiepati in una radura con precari servizi igienici, senza cibo e senza controllo. Erano ed eravamo diversi.

Mauro Zambellini

domenica 7 febbraio 2010

John Hiatt e Lyle Lovett al Conservatorio di Milano


Acustica perfetta ma caldo da liquefare corpo e piedi, il Conservatorio di Milano, gremito di appassionati e amanti della musica, ha ospitato il concerto più bello di questo inizio 2010. In scena due giganti della canzone d’autore, John Hiatt e Lyle Lovett, entrambi in solitario, seduti con le loro chitarre acustiche con appresso un tavolino come se fossero al bar. E così è sembrato lo show perché i due si alternavano a cantare e suonare le loro canzoni, senza che l’uno accompagnasse l’altro con la chitarra (un limite), intervallando le esecuzioni con strampalati ed ironici siparietti parlati dove si raccontavano di blues e delle strofe omesse da Bonnie Raitt nella versione di Thing Called Love, di amici che suonano l’armonica allungando la mano fuori dal finestrino con la macchina in corsa e di donne terribili, trovando anche l’occasione per dedicare una canzone (John Hiatt) a Paolo Carù e ringraziando (Lyle Lovett) il Buscadero.
Uno show caldo (in tutti i sensi) nonostante la dimensione in solitario dei due ma splendido nel proporre l’arte della canzone d’autore americana ai suoi massimi livelli.
Suoni cristallini e voci espressive, sebbene diverse l’una dall’altra, più sensuale, bluesy e “negroide” John Hiatt che ha estratto dal cappello perle come Memphis In the Maintime, versione da capogiro, strascicata e spiritata, la romantica Feels Like A Rain, la stoniana Drive South, l’infuocata Thing Called Love, una magistrale Have A Little Faith In Me trasformata in gospel e poi Walk On, il blues di Crossing Muddy Waters, Buffalo River Home, Tennessee Plates Love e pure un brano nuovo (Like A Freight Train) del prossimo album in uscita The Open Road. Hiatt si è confermato artista di caratura eccezionale, una voce che dai primi album, quando sembrava una copia solo un po’ più annerita di quella di Elvis Costello è cresciuta in misura incredibile tanto da essere la voce profonda e sensuale di un soulman che è anche chitarrista coi fiocchi ed un entertainer di gran classe, abile nel scivolare tra blues, rock, soul e folk con una dimestichezza rara.
Più malinconico e trasognato Lyle Lovett, impassibile anche quando pronunciava cose da scompisciarsi addosso dal ridere, alle prese con un country che solo lontanamente ricorda le origini texane ed è invece canzone d’autore di sangue nobile, cantata con l’ inflessione di chi sempre cantare le cose con distacco ma invece è sardonicamente consapevole dei drammi e delle gioie che le sue storie raccontano. E’ stato lui ha soffrire maggiormente della spartana veste solista così abituato a dirigere una Large Band stantuffata swing mentre Hiatt è parso una band anche da solo.
Tra le canzoni presentate da Lovett particolare risalto hanno avuto My Baby Don’t Tolerate, Fiona, She’s No Lady e l’incantevole Step Inside This House, perla scritta da Guy Clark ed usata da Lovett per intitolare un suo doppio CD.
Quasi tre ore show incluso le parti parlate ed un break di venti minuti, alla fine applausi scroscianti ed un bis meritato, da tutti. Splendida serata di musica in una location dove finalmente il suono non è stato penalizzato.

Mauro Zambellini

lunedì 1 febbraio 2010

Gypsy Soul #4


(continua)

Simple Songs of Freedom

Amara e autodistruttiva è la vicenda di Tim Hardin songwriter sopraffino uscito dal movimento folk degli anni sessanta. Nato a Eugene nell’Oregon nel 1941, Hardin divenne una figura preminente nella scena del Greenwich Village grazie ad un talento straordinario e alle dicerie che lo volevano figlio del fuorilegge John Wesley Harding. A una spiccata sensibilità artistica si contrapponeva una personalità autodistruttiva e votata all’eccesso, morirà nel 1980 per overdose dopo una vita segnata pesantemente dall’eroina ma la sua voce e le sue canzoni rimangono tra le cose più belle di tutta la canzone d’autore americana. Voce melodiosa e flessibile, esaltata da una espressività dolente, apparentemente fragile ma intensamente poetica, che richiama quella di Fred Neil, altro grande e introverso rappresentante dello stesso movimento folk-rock, Tim Hardin seppe imporsi all’attenzione con canzoni di una innocenza incredibile che fecero breccia nei cuori più sensibili.
Titoli come Reason To Believe, If I Knew, Black Sheep Boy, Simple Song Of Freedom e la stra-coperta If I Were A Carpenter presentano un autore di una dolcezza romantica disarmante che mostra qualche analogia con Tim Buckley.
Dopo gli album per la Verve contrassegnati dalla sua vena più cantautorale e folk, Tim Hardin nel 1969 ripara in Inghilterra per tentare una cura disintossicante dall’eroina. Quando torna negli Stati Uniti e si stabilisce a Woodstock la Columbia gli mette a disposizione uno studio mobile per registrare Suite For Susan Moore and Damion-We Are-One, One All In One (Columbia, 1969) ambiziosa opera meditativa dedicata alla moglie Susan e al figlio Camion. L’album seguente risente della brezza afroamericana che coinvolge all’inizio degli anni ’70 i cantautori americani e scivola verso atmosfere southern e bluesy. Bird On The Wire (Columbia, 1971), che come titolo la nota canzone di Leonard Cohen, viene registrato tra Macon e New York col produttore Ed Freeman e con alcuni futuri Weather Report. L’ album include Hoboin’, accreditato a John Lee Hooker ma di fatto ottenuto da Freight Train di Lightnin’ Hopkins, le suggestioni sudiste di Southern Butterfly e diversi brani altrui. In realtà Hardin rincorre una idea di serenità che il disfacimento del nucleo famigliare e i problemi di dipendenza avevano compromesso. Bird On The Wire è uno dei rari periodi in cui l’autore non si fa di eroina ma l’uso del metadone e l’eccesso di alcol minano le sedute di registrazione tanto che è praticamente impossibile trovare il cantante e i musicisti in studio nello stesso momento. Le difficoltà del suo vivere sono messe in evidenza nella toccante Andrè Johray, una metafora sul successo con spunti autobiografici, ma è la delicata If I Knew, originariamente registrata a Nashville con uno stuolo di sessionmen di provata fede sudista, la perla del disco.
Simle Songs Of Freedom - The Tim Hardin Collection, un cd edito nel 1996. sintetizza al meglio gli album pubblicati per la Columbia.

Tormentato e inquieto come Hardin e anche lui vittima della droga, morirà a Dallas nel 1975 per un overdose di eroina scambiata per cocaina, è Tim Buckley, coraggioso esploratore vocale e improvvisatore che col suo folk visionario e psichedelico costituirà un caso a sé nel panorama musicale degli anni sessanta e primi settanta.
Poesia (Lorca e Rimbaud) e amore per il jazz sono parti indissolubili della sua musica, la prima per le liriche visionarie, il secondo per le ardite e ripide sperimentazioni vocali. Estimatore di John Coltrane, Charlie Mingus e Miles Davis nel 1968 Tim Buckley effettuerà una tournee a Londra, documentata dallo splendido Dream Letter (Demon,1990), con un quartetto formato dal vibrafonista jazz David Friedman, dal bassista Danny Thompson e dal chitarrista Lee Underwood definito dalla critica Modern Jazz Quartet of Folk.
Marcatemente funk sarà l’approccio tenuto dall’artista in Greetings From L.A. (W.B 1972), uno degli ultimi album della sua esistenza e dimostrazione dell’eclettismo della sua musica atipica, umorale, fisica e cerebrale al tempo stesso.
Fred Neil, di cui Buckley riprenderà la magica Dolphins, Tim Hardin e Tim Buckley costituiscono un trio di autori in cui il rapporto tra arte e vita non ammette compromessi (difatti sono morti tutti e tre) e la cui musica ha funzionato come le pagine di un diario letto in pubblico, senza paure e reticenze.

Anche l’Inghilterra ha visto in quegli anni proliferare personaggi che si mettevano a margine del mondo pop e si inventavano un mondo a sé, fragile come un bicchiere di cristallo ma poetico e ricco di suggestioni.
Il caso più misterioso (e drammatico) è quello di Nick Drake il cui Bryter Layter (Island,1970), secondo disco prima di una prematura morte per suicidio nel 1974, è un singolare cambiamento rispetto al lunatico folk autunnale degli altri due dischi e rivela di un artista sensibile alle orchestrazioni jazz e a produzioni più complesse. Gli arrangiamenti di Robert Kirby e la produzione di Joe Boyd (colui che avrebbe lavorato a Fables Of Reconstruction dei Rem) valorizzano l’architettura poetica dell’artista, la sua voce spaesata e il suo originario folk acustico, sfumature di jazz rarefatto e di cieli nordici colorano le dieci canzoni del disco creando un atmosfera affascinante e rilassata. Anche se Poor Boy col delizioso sax alto di Ray Warleigh, il piano elegante di Chris Mc Gregor e le voci femminili sa molto di gospel e bop americano.

John Martyn era amico di Drake e di Richard Thompson, i tre rappresentano il meglio della canzone d’autore inglese dei settanta. In possesso di una voce estesa e flessibile, la sua ricerca vocale ricorda un po’ quella di Tim Buckley anche se non ci sono la medesima inquietudine autodistruttiva e le ripide improvvisazioni.
Il suo Solid Air (Island, 1973) è uno di quei dischi che bisogna assolutamente avere. Un pigro e strascicato easy blues si insinua in melodiose canzoni dal tratto sognante e una voce da brivido canta un folk-rock etereo e unico. Ci sono frizioni di british free e allucinazioni (I’d Rather Be The Devil, Dreams By The Sea) ma quello che rimane sulla pelle sono ballate come Go Down Easy, Over The Hill, May You Never, Solid Air che hanno quel sottile mistero che il folk-rock di Drake e Martyn possedeva..
Ottima la chitarra acustica di Martyn, superbi i musicisti, sono gli stessi di Bryter Layter ovvero la crèmè inglese ruotante attorno a Pentangle e Fairport Convention. Entrambi i dischi vennero pubblicati dalla Island, un etichetta che in quegli anni era all’avanguardia per novità, gusto e coraggio.

Più contorto il percorso di Laura Nyro, cantante, autrice e pianista nata nel 1947 nel Bronx e deceduta nel 1997 per un cancro alle ovaie. Ebbe un impatto sulla pop music degli anni 60 e 70 grazie a canzoni introspettive che combinavano liriche poetiche con frammenti di folk urbano, soul e jazz.
Il jazz se lo portava nel sangue, il padre era un trombettista jazz che la invogliò a prendere la strada della musica. Scrisse la prima canzone che aveva solo otto anni e ancora prima di incidere il primo album a suo nome aveva già scritto diverse canzoni di successo come Stoned Soul Picnic, And When I Die e Sweet Blindness.
Ebbe un periodo di gioventù in cui usò l’Lsd, per sperimentare tecniche di scrittura nuove ma poi quando in un “bad trip” si trovò la camera assediata per nove ore da creature mezzo uomo e mezzo topo che la assalivano e distruggevano tutto pose fine alla faccenda e passò a Dylan e John Coltrane.
Con i suoi album registrati alla fine degli anni sessanta, Laura Nyro si affermò come una delle prime grandi cantautrici americane, coniando uno stile personale fatto di strani e intensi fraseggi pianistici, di improvvisi cambi di tempo e di una voce lamentosa e drammatica. Con i suoi lunghi capelli neri, i suoi abiti neri e il suo fare aristocratico, Laura Nyro divenne la perfetta chanteuse urbana in contrasto coi personaggi colorati dell’epoca.
Il suo album del 1969, New York Tendaberry, dalla copertina rigorosamente nera costituì il biglietto da visita di un songwriting riflessivo e ombroso, intriso di grande passione.
Il soul e il gospel che affioravano nelle sue composizioni la portarono presto a misurarsi con la musica nera, Christmas and The Beads Of Sweat (Columbia,1970) vede la Nyro lavorare ai Muscle Shoals con Duane Allman e la produzione di Felix Cavaliere e Arif Mardin per una serie di canzoni che mantengono lo stile originario dell’autrice però usano l’assetto strumentale sudista per emanare più calore e solarità. Il disco suona più ridente ma New York Tendaberry rimane insuperabile.
Gonna Take a Miracle (Columbia, 1971) si spinge oltre e appaga la voglia soul della cantante con la rivisitazione di classici del R&B come Lonnie Mack e Dancing In The Street e con la partecipazione di Patti Labelle. Seguirà un live in solitario, Spread Your Wings and Fly, in cui l’artista “coprirà” con l’aiuto di sola voce e piano canzoni di Aretha Franklyn, Drifters e Ben E.King. Poi per un lungo periodo Laura Nyro si ritirerà dalle scene.

MAURO ZAMBELLINI GENNAIO 2006