martedì 29 novembre 2011

Paul McCartney On The Run Milano 27.11.11


Chi mi legge o semplicemente mi conosce sa che sono un irriducibile rollingstoniano e non mi sono mai sperticato in lodi verso i Beatles ma la vita non sarebbe così interessante se le sorprese ad un certo punto non scombussolassero il certo ed il prevedibile tanto da portarmi ad affermare che uno dei concerti migliori a cui ho assistito in questo 2011 è stato quello di Paul McCartney a Milano domenica 27 novembre. Un concerto memorabile, per me inaspettato a cui ho assistito grazie al favore di un amica che mi ha offerto un biglietto deluxe nel primo anello numerato del Forum di Assago. Pubblico numeroso, festoso e caldo e tanti giovani hanno fatto da corollario ad uno show sontuoso dove pop, rock, Beatles, canzoni, flash psichedelici e ballate hanno immortalato un musicista e cantante e showman divertente, gioioso, spiritoso, professionale e trascinante al tempo stesso, un grande artista. Paul McCartney sul palco mi è parso un gigante, splendido cantante in possesso di una voce ancora fresca pur irrobustita dal tempo e dall’esperienza, versatile nelle interpretazioni sia che fossero le arcinote canzoni dei Beatles sia che fosse il bizzarro e leggero pop degli Wings, sia che fossero degli sketch creati con la chitarra acustica (un mini set all’interno dello show) sia che le splendide immagini che scorrevano sullo schermo alle spalle della band facessero da scenografia ad una musica che fluttuava tra ricordi di un passato diventato storia di tutti, fantasie psichedeliche, lampi di genio e graffi di puro rock n’roll.
Il quartetto che ha assecondato Macca in questo On The Run tour, una band con lui da diverso tempo, si è rivelato un gagliardo combo all’insegna di un rock senza fronzoli, con due chitarristi (Brian Ray e Rusty Anderson) capaci di mordere e creare un sound a tratti spudoratamente chitarristico, un bravissimo batterista (l’imponente Abe Laboriel Jr.) ed un tastierista che ha fatto il suo dovere, musicisti in grado di offrire a Macca la soluzione giusta a seconda del pezzo. Lui, il baronetto, giacca stretta e stivaletti alla Beatles, poi in elegante camicia bianca sormontata da strette bretelle, ha sfoggiato il suo inconfondibile basso Hofner Ignition ma ha anche imbracciato chitarre elettriche, acustiche, l’ukulele nell’intro di una toccante e commovente Something dedicata all’amico scomparso George Harrison e si è seduto al piano per accompagnare alcune delle memorabili melodie che hanno segnato parte della musica moderna.
Pimpante, allegro, in perfetta forma, McCartney è parso un ragazzino per come ha condotto lo show e si è dato al pubblico alternando brani dei Wings (Junior’s Farm,Jet, Let Me Roll It contenente una citazione di Foxy Lady di Hendrix, Mrs Vandebielt, la strepitosa Band On The Run ed una infuocata Live and Let Die bombardata da fiammate che hanno trasformato il palco in un campo di battaglia), scampoli dei suoi dischi solisti e quell’incommensurabile patrimonio musicale che è il songbook dei Beatles. E sono stati proprio questi i pezzi ad accendere lo show ed il pubblico, senza mai suonare troppo nostalgici. Belli i momenti più dolci, malinconici e contemplativi come All My Loving, The Long and Winding Road arricchita di immagini di scenari dell’ovest americano, Eleanor Rigby, Yesterday, The Night Before, Something, Let It Be e Hey Jude queste due ultime accompagnate dal canto di tutto il Forum, sia nel siparietto socio-politico di Blackbird o nella scanzonata e frivola Ob-La-Di,Ob-La-Da una canzone che ho sempre detestato, sia nei pezzi di più stretta parentela rock come una esaltante versione di Drive My Car , nelle sferzanti Helter Skelter e Back In The Ussr e nelle divertenti e scoppiettanti Day Tripper, Paperback Writer e Get Back usate nel primo dei due encore dello show. Paul McCartney non ha dimenticato il compagno John, a lui è andata Here Today e poi dal fardello di Lennon ha estratto All You Need Is Love appiccicandola a She loves You e Give Peace A Change ad una strepitosa A Day In The Life, altro momento topico dello show. La magica notte era cominciata con Hello, Goodbye, primo dei trentacinque brani esibiti per una durata complessiva di quasi tre ore di musica senza interruzioni. Il finale lo si è avuto con la medley di Golden Slumbers/Carry The Weight/The End direttamente presa da Abbey Road. Prima della fine anche un numero squisitamente rollingstoniano, una versione di I’ve Got a Feeling capace di resuscitare anche i morti.

Un concerto come se ne vedono pochi. Parola di un rollingstoniano e non mi sono bevuto il cervello.

MAURO ZAMBELLINI NOVEMBRE 2011

sabato 19 novembre 2011

Anti SOcial Network


Sono successe un po' di cose contemporaneamente che hanno scombussolato le mie comunicazioni. Poco prima che il mio computer morisse definitivamente, pace all'anima sua  era ancora giovane poverino, e i miei collegamenti con internet divenissero sporadici e casuali, l'amico Blue che è veramente un rocker come non ce ne sono più mi ha invitato ad entrare in Fbook perchè è lì che passa tutto. Impegnato col mio computer morente e rabbioso contro la tecnologia non ci ho fatto molto caso e gli ho dato l'ok.  Morale, mi sono trovato dentro Facebook con una valanga di e-mail di gente mai vista che mi chiedeva l'amicizia e la condivisione di pareri,gusti,emozioni, una cosa che mi ha fatto immensamente piacere perchè non sapevo di avere così tanti amici in giro per l'Italia. Tutto questo accadeva mentre il mio computer mi lasciava entrare in rete un giorno si e cinque no ed io avevoa finalmente capito che quel Fbook che distrattamente avevo letto in una e-mail di Blue era FaceBook. Ci voleva poco a capirlo ma ero nel centro di una bufera senza controllo. Naturale trovarmi sommerso da una montagna di lettere , nomi che non conoscevo e confondevo, persone che mi facevano i complimenti per essere finalmente in Facebook, mie foto che giravano in rete allegramente. E questo è il punto. Ringrazio tutti quelli che mi hanno chiesto l'amicizia, tutti quelli a cui l'ho data e quelli che non ho fatto in tempo a darla visto i problemi di tempo e computer ma per uno come me che ha fatto della riservatezza uno dei cardini del proprio stile di vita, uno che è cresciuto nel mito di detective silenziosi e appartati e di fuorilegge solitari e fuori dal mucchio, uno che è più anarcoindividualista che democratico, l'essere in un social network è un po' una contraddizione e in tutta sincerità personalmente un fastidio perchè è un lavoro di comunicazione  che non riesco a svolgere con la dovuta attenzione e tempestività. Aggiungete che oltre ad anarcoindividualista sono anche pigro quindi per il momento non sono pronto a questa experience. Rispetto chi è in Facebook e constato ancora una volta la mia incapacità sociale, conosco i miei peccati e so di essere politicamente scorretto ma mi è sempre piaciuto di più il fuorilegge rispetto allo sceriffo. Ringrazio tutti e mi scuso. Ci vediamo in zambo's place

MAURO ZAMBELLINI

lunedì 14 novembre 2011

Daniele Tenca > Live For The Working Class (Route 61)


Quando meno te lo aspetti, in un momento di crisi del mercato discografico c'è chi azzarda a creare una piccola etichetta discografica. Coraggiosi non c'è che dire, che la fortuna sia dalla loro parte. L'etichetta si chiama Route 61 e questo basta per capire che il terreno su cui si muovono è il rock e la musica americana. Americana- Made In Italy strilla il loro logo e difatti le prime pubblicazioni riguardano italiani e non solo che contaminano la musica americana, in particolare il roots-rock con il folk, il bluegrass e la musica irlandese. Date ad un ascolto a Fathers and Sons del duo Donald & Jen McNeill supportati dai bravi connazionali Lowlands, una delle più originali formazioni italiane nel campo di americana. E poi Among The Stream dei Mardi Gras una formazione di musicisti romani con una cantante irlandese che espandono americana nelle terre celtiche e regalano una splendida versione di Land of Hope and Dreams di Bruce Springsteen.
Lo stesso Springsteen risuona inconfondibile nel nuovo lavoro di Daniele Tenca altro affiliato Route 61. Si intitolava Blues For The Working Class il disco debutto di  Tenca come solista, un anomalo disco, per il mercato italiano, che parlava di lavoro, fabbriche e classe operaia in un contesto sonoro che non nascondeva i riferimenti a Springsteen e a certo blue collar rock della East Coast americana. Un disco con ottimi testi e buona musica in cui il blues era solo una delle componenti del suono di Tenca. Il disco aveva il nobile intento di sostenere con le vendite l’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi sul Lavoro, problema quanto mai attuale considerato l’increscioso proliferare di incidenti e morti sul lavoro oggi.
Daniele Tenca ha pensato bene di portare quel disco dal vivo e così è nato Live For The Working Class, dodici brani, la maggior parte suoi ed un pugno di cover tra cui le springsteeniane Johnny 99, Red Headed Woman e Factory, un traditional (John Henry) ed un blues dell’italoamericano Andy J.Forest, Breach In The Levee. Con lui c’è una band che suona con l’abilità e la determinazione di una provata rock n’roll band americana, una band solida e ben amalgamata che conta sull’ottimo lavoro di chitarre di Leo Ghiringhelli e Heggy Vezzano, sulla sezione ritmica di Pablo Leoni e Luca Tonani e sullo splendido apporto dell’Hammond di Cristiano Arcioni. Da parte sua Tenca ci mette la voce, la chitarra e l’acustica nello stile di quei songwriter che alternano rabbia e poesia in canzoni il cui cuore batte dall’altra parte della strada, dalla parte di chi lotta e di chi spera in un domani migliore. E’ il rock della classe operaia che qui si materializza in titoli come Cold Comfort, Flowers at The Gates, The Mills Are Closing Down, He’s Working, My Work No Longer Fits For You che evocano i paesaggi di Youngstown ed hanno come focus la deindustrializzazione, la perdita del lavoro e della dignità. la disoccupazione, le ingiustizie sociali e l’ impoverimento di massa. Il tema è quanto mai all’ordine del giorno e Tenca pur ergendosi come un moderno ed elettrico John Henry, non ricorre ai sermoni, agli slogan e alle facili conclusioni ma usa per il suo elettro-sindacalismo il rock n’roll sporcandolo di blues e di ballate di ruggine e polvere. Il sound è quello che potete trovare in un disco di Bruce,  di Mellencamp,  di Willie Nile  di Joe Grushecky per cui siete avvisati. Non è la prima volta che in Italia sentiamo roba simile, furono i Rocking Chairs ad inaugurare una stirpe ancora seguita e applaudita oggi, Tenca è uno degli ultimi iscritti a questa lista ma proprio per questo ha metabolizzato le esperienze passate in un rock che non delude, per onestà ed efficacia. Il disco è stato registrato nel dicembre del 2010 al Amigdala Theatre di Trezzo D’Adda.

MAURO ZAMBELLINI

giovedì 3 novembre 2011

Some Girls


Il 21 novembre la Universal pubblicherà la ristampa deluxe di Some Girls il più venduto disco dei Rolling Stones datato 1978. Se le ristampe di lusso di Exile On Main Street hanno dovuto aspettare 38 anni, per Some Girls il tempo si è ridotto a 33. Sono state pubblicate a poco più di un anno di distanza l’una dall’altra ma per Exile la presentazione era in pompa magna mentre per Some Girls si è scelto una operazione più sbrigativa. Pubblicate una di seguito all’altra senza tenere conto della reale cronologia discografica (ci sono altri tre album tra loro) i due dischi costituiscono un continuum di qualità all’insegna del miglior rock n’roll targato Stones.
In mezzo ai due dischi menzionati ci sono altri album e canzoni altrettanto famose (Angie, Star Star, It’s Only Rock n’ Roll, If You Can’t Rock Me, Fingerprint File) che sono state per lungo tempo nelle scalette dei concerti e Black and Blue nel 1976 dimostrava che gli Stones stavano già mangiando i frutti “esotici” del reggae e dei ritmi centroamericani ancora prima che Londra li importasse e Bob Marley diventasse una star ma raccontare col senno di poi i Rolling Stones al meglio della loro discografia significa saltare da Exile a Some Girls by passando i tre dischi di mezzo.
Continuare ad essere la più grande rock n’ roll band del pianeta con due dischi ed una dipendenza da eroina (Keith Richards) da gestire mentre il resto (progressive, art-rock, glam e punk) nasceva, diventava famoso, faceva tendenza e moda, riempiva i giornali, vendeva milioni di dischi e poi sfioriva. Altro che le abilità bancarie del principe Rupert Loewenstein il loro manager finaziario, ci vuole un solido patto col diavolo da intimidire lo stesso Robert Johnson e soprattutto una fortuna sfacciata per continuare a rimanere al top come hanno fatto i Rolling Stones in quegli anni.
Some Girls viene offerto (si fa per dire) in più formati, c’è la solita Super DeLuxe Edition per patiti con 2 CD, vinile, DVD di 30 minuti, singolo (Beast Of Burden/When The Whip Comes Down) e libro di Anthony DeCurtis e c’è la normale versione a due CD per i comuni mortali. Il primo CD prevede la versione rimasterizzata dell’originale Some Girls, un disco che ancora oggi brilla per freschezza ed energia, un ritorno ai canoni del loro rock n’roll tinto di blues e ballate dopo un periodo di appannamento con in più una sferzata di rabbia punk (Lies, Respactable, When The Whip Comes Down) e di malizia disco (Miss You) tanto per dimostrare che potevano cavalcare indifferentemente le due mode del momento con la maestria dei primi della classe.
Il secondo CD che è la vera novità dell’operazione suona finalmente come un disco vero e proprio, quasi fosse un nuovo album e non la solita raccolta di out-takes, come era successp per Exile On Main Street. Qui c’è una logica ed un senso diverso, c’è una sequenza equilibrata di rock n’roll, blues e ballate e perfino il consueto pezzo cantato da Keith Richards che compongono la dinamica di un vero e proprio album. Il materiale è eccellente, i brani (ad eccezione della conclusiva take di Petrol Blues ) finiti e rifiniti, la qualità audio sorprendente tanto da far sorgere il dubbio che sia stato fatto un recente restyling . In definitiva non ci sono delle canzoni “perse e ritrovate” e qualche prototipo rammendato al meglio, no, qui c’è un altro album degli Stones, un prequel o un sequel di Some Girls, che se fosse uscito al tempo avrebbe costituito il collante ideale con Tattoo You, alla faccia di Emotional Rescue.
Il disco nuovo si apre con Claudine, brano che è circolato nei bootleg, registrato nel marzo del 1978 negli studi Pathè-Marconi di Parigi. Trattasi di uno scorrevole rock n’roll con un ritmo vagamente honky-tonk dove Jagger canta senza urlare e le chitarre fanno il resto. Trae spunto dalla storia di Claudine Longet una cantante francese che sposò Andy Williams nel 1961. Divorziarono nel 1975. Un anno dopo avrebbe ucciso il suo amante ad Aspen in Colorado. Il suo avvocato, con cui si sposò nel 1986, la difese con successo e fu condannata solo per omicidio colposo. La canzone scritta da Richards su di lei fu considerata troppo esplicita al tempo per essere pubblicata.
La seguente So Young è blues/rock alla maniera delle cover che gli Stones facevano nei loro primi album. Il pianoforte (Ian Stewart ?) fa il boogie-woogie e Jagger canta da manuale ripetendo all’ossessione so young come se fosse lui il/la giovane in questione. Chitarre in spolvero e Stones come li amiamo. Non è l’unico blues del disco: When You’re Gone sembra I’m a King Bee di Slim Harpo con tanto di armonica al seguito, Keep Up Blues è nera come la pece, entra subito in circolo, magistrale nella sua semplicità eppure ancora moderna pur pervasa dallo spirito antico e affascinante del blues. Petrol Blues è solo una take di un minuto e mezzo, chiude il disco ed è mozzata come se qualcuno avesse improvvisamente spento il Revox. E’ un demo e si sente.
Della serie it’s only rock n’roll fanno parte Tallahassee Lassie titolo di un brano di Freddie Cannon del 1959 che occhieggia spudorato a Chuck Berry e le parole dolci di I Love You Too Much, suono pulito, riff di marca e batteria secca come un Martini dry. E’ routine ma di classe. Del tutto diverso Don’t Be A Stranger, un mezzo-tempo col basso in evidenza, la batteria che è un fuscello, la chitarra acustica e le marimba. E’ sinuosa, calda ed emana mexican flavour, più che gli Stones sembra roba da Willy DeVille periodo latino.
Le ballate sono una parte sostanziosa del disco con lo spirito di Gram Parsons che aleggia sopra. Do You Think I Really Care cita senza mezze misure Gram Parsons e i Flying Burrito Bros mettendo in viaggio gli Stones su una freeway americana. Viene in mente Dead Flowers e le atmosfere on the road di Sticky Fingers, Jagger è superbo. Sempre lui canta in No Spare Parts, ritmo lento, cuore spezzato, miele e polvere, un country-western che fa eco alla Following The River delle out-takes di Exile.
In You Win Again si aggiungono anche i violini e l’aria diventa inconfondibilmente nashvilliana. Sembra Far Away Eyes ma invece è una cover di una nota canzone di Hank Williams. La faceva Keith Richards nel disco tributo Timeless (2001), qui la canta Jagger mentre Richards fa sua We Had It All pallida e lenta ballata che mischia malinconia, dolcezza, armonica e lap-steel in giusta dose.
Dodici tracce di tre/ quattro minuti ciascuna per un totale di 42 minuti di musica eccellente.

DVD
Contemporaneamente alla ristampa di Some Girls vengono messi sul mercato il DVD + CD di Some Girls-Live in Texas 1978 cronaca del concerto che i Rolling Stones tennero il 18 luglio del 1978 al Will Rogers Auditorium di Forth Worth. Fa parte del tour americano che seguì la pubblicazione dell’album, venticinque concerti in 24 città nel giro di un mese e mezzo che “insanguinarono” gli Stati Uniti toccando la East Coast, il sud, il Colorado, l’ Arizona e la California. Un tour breve ed intenso, l’ultimo degli anni settanta, sarebbero difatti ritornati on the road solo nel 1981 dopo l’uscita di Tattoo You.
Sul palco i cinque (ma ci sono anche Ian McLagan e Ian Stewart) si presentano in modo diverso da come li avevano consacrati i leggendari tour della prima metà degli anni settanta. L’innesto di Ron Wood al posto di Mick Taylor ed il ritorno ad un “basico” rock n’roll priva lo show dei brani lunghi e rocamboleschi che erano stati l’ ossatura del Tour of The Americas del ’75 e dell’ American Tour del ’72. Basta con Street Fightin’ Man, Midnight Rambler, You Can’t Always Get What You Want, Gimme Shelter, Sympathy For The Devil , ridotto lo spettacolo scenografico e le divagazioni chitarristiche alla Taylor, adesso è it’s only rock n’roll, secco, adrenalinico, viscerale. I brani di Some Girls dettano i tempi dello show, Wood è un chitarrista fulmineo che trae dalla sua slide l’essenza del Delta blues, gli assoli sono veloci e concisi, il feeling tra Wood e Jagger è al massimo e quest’ultimo cavalca la moda punk vestendosi con pantaloni neri di pelle, sneakers e t-shirt con la scritta destroy. I Sex Pistols sono dietro l’angolo ma gli Stones suonano per davvero. Richards si è appena disintossicato e non ha pause, Ian McLagan è meno ridondante di Billy Preston con le tastiere, Charlie Watts e Bill Wyman non fanno una piega, sono l’ impassibile sezione ritmica di un set al fulmicotone. Il DVD è una chicca e testimonia degnamente i lavori in corso, dirige Phil Davey, ottime immagini (fate conto che la tecnologia è quella del 1978) e soprattutto una qualità audio eccellente, meglio di Ladies and Gentlemen , il video che li ritraeva nel ’72 sempre a Forth Worth.
Se Ladies and Gentlemen rimane la bibbia incontrastata degli Stones più selvaggi e pericolosi, Some Girls-Live In Texas 1978 offre una band che si riprende il suo passato, quel sound agro, schietto ed immediato dei concerti degli anni sessanta, un rock/R&B che recupera in urgenza e asciuttezza attraverso uno sferragliare chitarristico spurgato di lentezze, virtuosismi, compiacimento. Scrive Chris Welch sul Melody Maker “Jagger ha dato tutto, dal sesso alla violenza, nello spettacolo migliore degli Stones che possa ricordare dal festival jazz di Richmond nel 1963. La sezione ritmica è nettamente migliorata e modernizzata”. Gli fa eco Billboard “né sprazzi né espedienti, solo rock n’roll”.
E cosi è. Live In Texas 1978 è la splendida e unica testimonianza di quei giorni e di quel tour, l’ultimo degli Stones con una parvenza di non studiata spontaneità. Mick non si è ancora convertito allo jogging e si limita ad essere la più eccitante singing bitch che i palchi rock abbiano mai ospitato, è volgare e sexy, si tocca il pacco, si tocca il culo, tarantola come Johnny Rotten, finisce lo show a torso nudo come Iggy Pop. Richards riappare da un altro mondo, l’assolo di Telecaster in Star Star è il surrogato della sua arte con la chitarra, Ron Wood giostra Gibson e chitarre metalliche con la spavalderia di un Faces e il rigore di un bluesman.
Le canzoni sono un concentrato di rock n’roll, R&B, glam e blues. Miss You dimentica di essere nata in discoteca e con tre chitarre in action (c’è anche quella di Jagger) diventa garagista, Just My Immagination è come ti trasformo il Detroit Sound in un terribile puzzo di funky, Shattered e Respectable sono punk rock di classe sopraffina, Happy e Sweet Little Sixteen omaggiano Chuck Berry, Honky Tonk Woman è da brividi, così come Love In Vain dove Jagger regala una memorabile interpretazione di blues, When The Whip Comes Down è la frusta dello show. Il concerto si apre con All Down The Line e si chiude con Brown Sugar e Jumpin’ Jack Flash, in mezzo solo due ballate, la incommensurabile Beast Of Burden e Far Away Eyes con Jagger al piano e Wood alla lap steel. Diciassette brani, 90 minuti di puro rock n’roll, godimento assicurato. I Rolling Stones come non li avete mai più visti.


MAURO ZAMBELLINI    NOVEMBRE 2011