giovedì 26 gennaio 2023

WILCO Cruel Country


 

 “I love my country like a little boy/red, white and blue/ I love my country, stupid and cruel”  canta Jeff Tweedy nella canzone che dà il titolo all’album ed in questo semplice verso c’è racchiuso il senso di un disco che segna il ritorno di Wilco alle atmosfere folk e country dei primi loro due lavori, pur non mancando qualche sventagliata elettrica e ardito arrangiamento ben caro alla band. Un disco lunghissimo, doppio album di 21 canzoni con una veste sonora apparentemente dimessa e sotto tono, lontana dalle spinte avanguardistiche e avventuriste dei loro album più innovativi ed incensati, a chi scrive piacciono particolarmente Sky Blue Sky e Being There anche se il più acclamato dalla critica rimaneYankee Hotel Foxtrot, quindi un ridimensionamento del ruolo di Nels Cline, autore di quegli schizzi free che hanno contribuito ad esaltare in termini alternativi il sound della band, raggiungendo l’apoteosi nei concerti, alcuni davvero indimenticabili.

La pandemia ed il lockdown hanno condizionato lo scrivere di Tweedy che alla luce di un intimismo dettato dalla situazione contingente ha iniziato a concepire alcun brani di Cruel Country durante le session del suo album solista del 2020 Love Is The King . Ma se quello si è trasformato in uno sforzo isolato, assistito solo dal figlio batterista Spencer e dal produttore Tom Schick, l’album a firma Wilco è al contrario il frutto di un lavoro collettivo da parte di tutta la band. E’ stata una liberazione per i sei trovarsi di nuovi insieme, registrando dal vivo in studio dopo diversi anni, lasciando andare i loro strumenti in una sorta di onda sonora con i ritmi che fluttuavano e le canzoni che pur abbozzate da Tweedy beneficiavano della chimica collettiva, assorbendo la felicità di sentirsi ancora insieme a creare musica. Proprio per tale ragione il disco, al di là dei temi trattati che abbracciano la politica, la storia del proprio paese, la mortalità, l’ambivalenza, l’intolleranza, l’utilità dell’arte, rappresenta un ritorno alla sobrietà e alla naturalezza delle radici sonore da cui Wilco sono nati, in particolare l’eredità degli Uncle Tupelo, sbrigativamente definiti country all’epoca ma di quel country che ha prodotto tutto il fenomeno di americana e oggi grazie al coraggio esplorativo e alla irrequietezza che ha contraddistinto la band nella sua produzione recente e passata, si è trasformato in un linguaggio rock che sfugge alle etichette, ben più ampio, innovativo e articolato. Unico, direi.  Hanno deciso di accantonare le loro voglie art-pop e sono ritornati a casa ma senza l’atteggiamento di chi sconfessa la strada percorsa, al contrario creando un insieme sonoro amalgamato, naturale, specchio dei tempi incerti che stiamo vivendo ma comunque rilassato. Al primo ascolto queste 21 canzoni possono lasciare freddi e titubanti ma è solo l’impressione iniziale perché suonando in studio come se fossero live, ed ogni membro si è trovato a proprio agio, il risultato alla distanza viene fuori ed il quadro brilla di una luce diversa, ogni brano ha una sua dinamica, i dettagli si sprecano, gli arrangiamenti con le tastiere accarezzano la malinconia di fondo, le chitarre dialogano tra loro come fosse una conversazione tra amici e pur se in qualche momento le canzoni sembrano andare alla deriva, si respira vita ed il senso di una musica non artefatta, sincera come il sentimento dell’autore che l’ ha scritta. Cruel Country è un percorso di liberazione dopo un periodo cupo, il volume è contenuto ma il calore delle esecuzioni impedisce all’album di sprofondare nell’oscurità anche quando l’andamento è lento, lamentoso e in The Plains  e Ambulance  la voce di Tweedy narcolettica.  



Prevalgono le ballate, malinconiche ma rustiche, con occasionali deviazioni verso qualche bizzarro colpo rock, un eclettico intervento delle tastiere, sottigliezze qui e là, nel caso di Bad Without A Tail/Base of My Skull addirittura una jam semiacustica con la batteria di Glenn Kotche che offre lo spunto per l’intrecciarsi avanti ed indietro delle chitarre di Tweedy e Nels Cline. In Falling Apart(Right Now) e A Lifetime To Find, quest’ultima una conversazione sulla morte che arriva all’improvviso, è evidente un approccio country-rock tipo Gram Parsons ma se di country bisogna parlare qui vale di più Bakersfield che Nashville ed in generale Cruel Country  è fatto di una materia tutta sua. Ci sono canzoni come Across The World e Hearts Hard To Find  capaci di sciogliere il cuore, una piccola magia del songwriting di Tweedy con la voce dolente ma prodiga di dolcezza, quest’ultima scritta appositamente per qualcuno in cerca d’amore come suggerisce il titolo, altre come The Universe  sono lente e lamentose, lontane anni luce dalla ipertecnologia attuale tanto da indurre la sensazione di trovarsi di fronte ad un album in analogico, autentico nella sua sobrietà. Story To Tell pare una out-take di Being There , Many Worlds diafana e sospesa è l’apparente fotografia di un paesaggio nordico con l’eco del mare e l’arpeggio di chitarre acustiche, come se Michael Chapman fosse resuscitato e avesse re-incontrato Steve Gunn, Mysery Binds è un’altra piccola dolcezza in punta di piedi con squarci sonori dall’effetto visionario.

Il country di Merle Haggard e Buck Owens viene integrato da Wilco come al tempo fecero i Dead, i Flying Burrito Brothers, i Byrds e i New Riders of Purple Sage nel rock psichedelico, c’è un sound nostalgico ma l’istinto esplorativo proprio della band persiste nei dettagli e il rifugiarsi nel passato qui è sintomo di conforto, naturalezza, perfino benessere. Ne è esempio Country Song Upside-Down, altra perla del disco e dimostrazione della capacità di Tweedy e compagni di non apparire revivalisti, attuali nonostante il sapore elegiaco . I Am My Mother  è un valzer sulle speranze di un immigrato nel quale Tweedy contempla un paese amaramente divisivo, in Cruel Country l’autore piagnucola che “tutto ciò che devi fare è cantare in un coro”, Tonight’s The Day  è una riflessione sull’ambivalenza di bene e male, Hints con la sua fresca aria pop scarabocchiata da una lap steel si chiede se è ammissibile che “non ci sia una via di mezzo quando l’altra parte preferirebbe uccidere piuttosto che scendere a compromessi”.  Tweedy non offre direzioni o soluzioni, le sue sono solo osservazioni (in questo assomiglia a Lou Reed )su un paese crudele che peraltro continua ad amare.

Inspiegabilmente messo on line durante l’anno passato ma pubblicato “fisico” solo ora, Cruel Country  è l’attestato di una band che dopo un periodo di appannamento ha ricominciato la sua corsa, guardandosi dentro e riallacciandosi alle proprie esperienze e alle proprie radici, con umiltà e maturità. Disco splendido.

 

MAURO ZAMBELLINI   

 

 

venerdì 13 gennaio 2023

LUCINDA WILLIAMS Teatro Lirico-Giorgio Gaber MILANO 10/01/23


Si è scritto molto sui social il giorno dopo l'esibizione milanese di Lucinda Williams a proposito se sia giusto presentare sul palco un'artista in evidente difficoltà, reduce da un ictus che le ha lasciato problemi di deambulazione e per di più funestata la sera stessa da una faringo-laringite che l'ha costretta a tossire e soffiarsi il naso continuamente.C'è stato chi, indignato, ha lasciato la propria poltrona dopo solo qualche brano, altri hanno evidenziato il cinismo di chi ha portato in tour Lucinda Williams in queste condizioni oppure qualcuno ha ipotizzato che l'artista americana sia in qualche modo costretta ad esibirsi per pagarsi l'assicurazione che negli Stati Uniti garantisce le cure per la malattia. Facile fare della dietrologia, la verità non la conosceremo mai e nemmeno interessa perché quello che personalmente mi ha emozionato, commosso, meravigliato è stata la forza di una donna che spogliata del suo mito, fragile e “nuda”davanti ad un pubblico meraviglioso e partecipe del suo dramma, è riuscita a rimettere in piedi, dopo un inizio agghiacciante con lei in evidente stato confusionale e la band che cercava di mettere insieme i cocci, scambiando sguardi impauriti di incoraggiamento, un concerto che dopo due ore  ed un bis di tre canzoni, è finito trionfale con l'intera platea in piedi ad incitarla e a seguirla in una corale Rockin' In The Free World di Neil Young. Un momento memorabile, il potente realismo del rock n'roll, un' artista aggrappata alla vita grazie alla sua musica con quella voce vivida ed espressiva che nemmeno la malattia ha cambiato, una voce che è dolore, malinconia, abbandono, rabbia e accettazione, la voce di chi non vuole arrendersi e pur nella precarietà contingente manda messaggi di resistenza. Il concerto più umano che mi sia capitato di assistere, traballante all'inizio, liberatorio alla fine, con la Williams che malferma  si portava appresso l'asta del microfono fino al limite del palco e pur scusandosi per gli inceppi, le false partenze, i colpi di tosse, l'acqua rovesciata, lo smarrimento in alcuni momenti, trascinava l'intero teatro  nella più tangibile affermazione che per alcuni grandi artisti come lo è lei arte e vita sono la stessa cosa.




Certo l'inizio ha messo tutti in un silenzio glaciale, facendo presagire la fine prematura del concerto, accompagnata sul palco dal road manager la Williams accennava a Blessed per fermarsi subito, smarrita e confusa, guardando con terrore i due chitarristi, Stuart Mathis e Doug Pettibone, che con dolcezza cercavano di darle fiducia tranquillizzandola e rimettendo in moto l'esibizione.



Starnuti, tosse, sguardo assente hanno fatto presagire il peggio, Protection non possedeva minimamente il carisma dell'originale, così come Right In Time ed una esangue Drunken Angel. Poi la Williams ha preso forza, il fantasma di Tom Petty in Stolen Moments, canzone a lui dedicata, l'ha benedetta e complice una band superlativa con un batterista da favola con tanto di cappello da cowboy in grado di ottenere il massimo col minimo del gesto, un bassista (David Sutton) che definire efficace è dire poco e due chitarristi, uno ( Stuart Mathis) con la Gibson SG, l'altro ( Doug Pettibone) prima con una Gretsch, poi con una Stratocaster e la lap steel, capaci di "illustrare" con ricami di alta scuola come deve essere il suono americano anche quando si lavora a volumi bassi. Dimostrazione eccelsa di tecnica, gusto, feeling, conoscenza, saggezza sonora che ha supportato e spinto la rockeuse di Lake Charles a dare il meglio di sé in Big Black Train, in Lake Charles, nella scapigliata e rockata Let's Get The Band Together, nuova di scrittura e nella bluesata, scura e paludosa Pray The Devil Back To Hell. Uno dei momenti topici del concerto assieme alla commovente e palpitante Born To Be Loved suonata in punta di piedi quasi fosse un jazz di un combo acustico, ed una Copenhagen da pelle d'oca che grondava malinconia come fossero lacrime di un innamorato abbandonato. 



La ruvida Honey Bee lasciava divertire la band con il ritmo e gli assoli, contenuti ma graffianti, in Essence come Righteously la Williams reiterava parole e versi  creando un mantra circolare di effetto ipnotico, è lo stile di tante sue ballate, 



Hot Blood la vedeva ritornare sul palco dopo solo qualche minuto dalla fine dell'esibizione, acclamata da tutto il teatro prima dell'apoteosi di Rockin' In The Free World dove la Williams pur ferita dal destino e quasi imbarazzata per trovarsi in quello stato ci buttava in faccia una grande verità: non sempre è facile vivere su un palco e sotto i riflettori e solo chi crede profondamente nella propria arte alla fine ne esce vincitore. Concerto che non dimenticherò mai.

TESTO di MAURO ZAMBELLINI        

FOTO di GIUSEPPE VERRINI