“I love my country like a little boy/red,
white and blue/ I love my country, stupid and cruel” canta Jeff Tweedy nella canzone che dà il
titolo all’album ed in questo semplice verso c’è racchiuso il senso di un disco
che segna il ritorno di Wilco alle atmosfere folk e country dei primi loro due lavori,
pur non mancando qualche sventagliata elettrica e ardito arrangiamento ben caro
alla band. Un disco lunghissimo, doppio album di 21 canzoni con una veste
sonora apparentemente dimessa e sotto tono, lontana dalle spinte
avanguardistiche e avventuriste dei loro album più innovativi ed incensati, a
chi scrive piacciono particolarmente Sky Blue Sky e Being There anche se il
più acclamato dalla critica rimaneYankee Hotel Foxtrot, quindi un
ridimensionamento del ruolo di Nels Cline, autore di quegli schizzi free che
hanno contribuito ad esaltare in termini alternativi il sound della band,
raggiungendo l’apoteosi nei concerti, alcuni davvero indimenticabili.
La
pandemia ed il lockdown hanno condizionato lo scrivere di Tweedy che alla luce
di un intimismo dettato dalla situazione contingente ha iniziato a concepire
alcun brani di Cruel Country durante le session del suo album solista del 2020
Love
Is The King . Ma se quello si è trasformato in uno sforzo isolato,
assistito solo dal figlio batterista Spencer e dal produttore Tom Schick, l’album
a firma Wilco è al contrario il frutto di un lavoro collettivo da parte di
tutta la band. E’ stata una liberazione per i sei trovarsi di nuovi insieme,
registrando dal vivo in studio dopo diversi anni, lasciando andare i loro
strumenti in una sorta di onda sonora con i ritmi che fluttuavano e le canzoni che
pur abbozzate da Tweedy beneficiavano della chimica collettiva, assorbendo la
felicità di sentirsi ancora insieme a creare musica. Proprio per tale ragione il
disco, al di là dei temi trattati che abbracciano la politica, la storia del
proprio paese, la mortalità, l’ambivalenza, l’intolleranza, l’utilità
dell’arte, rappresenta un ritorno alla sobrietà e alla naturalezza delle radici
sonore da cui Wilco sono nati, in particolare l’eredità degli Uncle Tupelo, sbrigativamente definiti
country all’epoca ma di quel country che ha prodotto tutto il fenomeno di americana e oggi grazie al coraggio
esplorativo e alla irrequietezza che ha contraddistinto la band nella sua
produzione recente e passata, si è trasformato in un linguaggio rock che sfugge
alle etichette, ben più ampio, innovativo e articolato. Unico, direi. Hanno deciso di accantonare le loro voglie
art-pop e sono ritornati a casa ma senza l’atteggiamento di chi sconfessa la
strada percorsa, al contrario creando un insieme sonoro amalgamato, naturale,
specchio dei tempi incerti che stiamo vivendo ma comunque rilassato. Al primo
ascolto queste 21 canzoni possono lasciare freddi e titubanti ma è solo
l’impressione iniziale perché suonando in studio come se fossero live, ed ogni
membro si è trovato a proprio agio, il risultato alla distanza viene fuori ed il
quadro brilla di una luce diversa, ogni brano ha una sua dinamica, i dettagli
si sprecano, gli arrangiamenti con le tastiere accarezzano la malinconia di
fondo, le chitarre dialogano tra loro come fosse una conversazione tra amici e pur
se in qualche momento le canzoni sembrano andare alla deriva, si respira vita
ed il senso di una musica non artefatta, sincera come il sentimento dell’autore
che l’ ha scritta. Cruel Country è un percorso di liberazione dopo un periodo
cupo, il volume è contenuto ma il calore delle esecuzioni impedisce all’album
di sprofondare nell’oscurità anche quando l’andamento è lento, lamentoso e in The Plains
e Ambulance la voce di Tweedy narcolettica.
Prevalgono
le ballate, malinconiche ma rustiche, con occasionali deviazioni verso qualche
bizzarro colpo rock, un eclettico intervento delle tastiere, sottigliezze qui e
là, nel caso di Bad Without A Tail/Base
of My Skull addirittura una jam semiacustica con la batteria di Glenn Kotche che offre lo spunto per
l’intrecciarsi avanti ed indietro delle chitarre di Tweedy e Nels Cline. In Falling Apart(Right Now) e A
Lifetime To Find, quest’ultima una conversazione sulla morte che arriva
all’improvviso, è evidente un approccio country-rock tipo Gram Parsons ma se di country bisogna parlare qui vale di più
Bakersfield che Nashville ed in generale Cruel Country è fatto di una materia tutta sua. Ci
sono canzoni come Across The World e Hearts Hard To Find capaci di sciogliere il cuore, una piccola
magia del songwriting di Tweedy con la voce dolente ma prodiga di dolcezza, quest’ultima
scritta appositamente per qualcuno in cerca d’amore come suggerisce il titolo,
altre come The Universe sono lente e lamentose, lontane anni luce
dalla ipertecnologia attuale tanto da indurre la sensazione di trovarsi di
fronte ad un album in analogico, autentico nella sua sobrietà. Story To Tell pare una out-take di Being
There , Many Worlds diafana e
sospesa è l’apparente fotografia di un paesaggio nordico con l’eco del mare e
l’arpeggio di chitarre acustiche, come se Michael Chapman fosse resuscitato e
avesse re-incontrato Steve Gunn, Mysery
Binds è un’altra piccola dolcezza in punta di piedi con squarci sonori
dall’effetto visionario.
Il
country di Merle Haggard e Buck Owens viene integrato da Wilco
come al tempo fecero i Dead, i Flying Burrito Brothers, i Byrds e i New Riders
of Purple Sage nel rock psichedelico, c’è un sound nostalgico ma l’istinto
esplorativo proprio della band persiste nei dettagli e il rifugiarsi nel
passato qui è sintomo di conforto, naturalezza, perfino benessere. Ne è esempio
Country Song Upside-Down, altra perla
del disco e dimostrazione della capacità di Tweedy e compagni di non apparire
revivalisti, attuali nonostante il sapore elegiaco . I Am My Mother è un valzer
sulle speranze di un immigrato nel quale Tweedy contempla un paese amaramente
divisivo, in Cruel Country l’autore
piagnucola che “tutto ciò che devi fare è
cantare in un coro”, Tonight’s The Day è una riflessione sull’ambivalenza di bene e
male, Hints con la sua fresca aria
pop scarabocchiata da una lap steel si chiede se è ammissibile che “non ci sia una via di mezzo quando l’altra
parte preferirebbe uccidere piuttosto che scendere a compromessi”. Tweedy non offre direzioni o soluzioni, le sue
sono solo osservazioni (in questo assomiglia a Lou Reed )su un paese crudele che peraltro continua ad
amare.
Inspiegabilmente
messo on line durante l’anno passato ma pubblicato “fisico” solo ora, Cruel
Country è l’attestato di una
band che dopo un periodo di appannamento ha ricominciato la sua corsa,
guardandosi dentro e riallacciandosi alle proprie esperienze e alle proprie
radici, con umiltà e maturità. Disco splendido.
MAURO ZAMBELLINI