Il difficile terzo album. Così negli anni settanta veniva definito il terzo capitolo discografico di un artista o di una band che arrivava dopo l’interessante debutto ed un secondo album che aveva fatto sfracelli, di critica e risposta mediatica, ancor prima che di successo commerciale. E così fu per The Band. Erano arrivati fin li attraversando gli Stati Uniti ed il Canada con il loro rock n'roll invischiato di boogie, prima supportando il simpatico Ronnie Hawkins, cowboy da palcoscenico dell'Arkansas che nelle bettole sapeva come frullare Jimmy Reed, Bo Diddley e Muddy Waters per far ballare e rimorchiare le bellezze locali, e poi suonando con Bob Dylan nel sottoscala di Big Pink, tra le montagne di Woodstock. Quando Robbie Robertson e amici presero il posto degli originali Hawks, decisero di rimanere semplicemente i falchi perché in fatto di nomi i quattro canadesi e l'amico americano non hanno mai dimostrato (apparentemente) grande acume, tanto è vero che al momento di firmare il loro primo disco, prima scartarono The Crickets e The Honkies, troppo invischiati con uno scenario di rednecks sudisti, e poi assunsero l'estremamente generico e semplicistico The Band, il ché voleva dire tutto e niente. Fu un autentico colpo di genio. Quattro canadesi dell'Ontario quindi, il chitarrista Robbie Robertson, il bassista e cantante Rick Danko, l'organista e polistrumentista Garth Hudson, il pianista e cantante Richard Manuel, ed un americano dell'Arkansas, il batterista e cantante Levon Helm, dettero vita alla formazione più misteriosa ed originale d’America andando controcorrente a quanto avveniva sui palchi del rock. Nel 1968 il loro album d’esordio, Music From Big Pink, attinse alle radici americane di country, blues, R&B, gospel, soul, rockabilly e dalla tradizione degli inni religiosi, dei canti funebri e della brass band music, dal folk e dal rock'n'roll, forgiando uno stile senza tempo, antitetico a ciò che girava nell’aria. Finirono col cambiare per sempre il corso della musica popolare. Gli anni sessanta non erano ancora conclusi ma The Band aveva già voltato pagina: basta coi colori sgargianti, le jam psichedeliche, gli interminabili assolo di chitarra, era arrivato il momento di un ragtime moderno, del Delta R&B canadese o, come lo battezzò la rivista Time, di the new sound of country rock. Un omaggio all'America rurale, al blues dei juke joints del Mississippi, ai diversi idiomi musicali del Sud, interpretati con un singolare eclettismo, una cura del dettaglio ed una creatività nel songwriting tale da rendere le canzoni fumose e non somiglianti alle radici da cui esse scaturivano. Già il nome, The Band, emanava una impressione di fraternità, la musica poi era una confraternita di linguaggi antichi rimessi a disposizione di una umanità in subbuglio che cominciava a chiedersi se il futuro non fosse guardarsi alle spalle, imparando dal passato il modo per andare avanti. Un primo album rivelatorio, Music From Big Pink con dentro un brano, The Weight, destinato a diventare epocale come lo sono stati Like a Rolling Stone e Street Fightin’ Man, diversi ma per certi versi simili nel creare l’immaginario rock, ed un secondo album, The Band chiamato anche The Brown Album, dall’atmosfera biblica, una sorta di nuovo-vecchio testamento musicale. Quando uscì “l’album marrone” non si sapeva molto di più sul gruppo, avvolti nel mistero, consentendo agli ascoltatori e alla stampa musicale di lasciare che la loro immaginazione si scatenasse su chi fossero questi personaggi, e cosa fosse questa musica che suonava diversa da qualsiasi altra. Erano un enigma. Vestiti come predicatori del XIX secolo, cantavano canzoni sull'America profonda, una sorta di folk-rock scolpito nel faggio con melodie soul, ritmi flessibili, arrangiamenti di ottoni ed armonizzazioni vocali di grande fascino, grazie a tre voci una più bella dell’altra e assolutamente complementari. Quella spugnosa di Danko, quella secca di Helm e quella nostalgica di Manuel, tre timbri in grado di moltiplicare le combinazioni possibili. C’era poi la scrittura di Robertson, letteraria senza essere verbosa, brillante per il senso del dettaglio e dell'ellisse. Un giorno il bassista e cantante Rick Danko affermò "era una grande momento per le nostre esistenze, vivevamo ogni giorno insieme e suonavamo musica genuina, fatta in casa, l'album marrone fu la logica conseguenza". Da qualsiasi parte lo si prenda, ancora oggi The Band è un capolavoro di musica popolare ed uno dei dischi più importanti di tutta la storia del rock n' roll, indifferente alle burrasche dei tempi. La foto sgranata in bianco e nero di copertina, contornata da una cornice color marrone, opera di Elliott Landy rende ragione al mistero. In piedi sotto la pioggia, paiono predicatori del 19esimo secolo o cercatori d'oro di qualche sperduta località montana, una incarnazione moderna delle comunità fraterne e virili dei primi pionieri americani. Ma se The Band tagliò di netto con l’euforia psichedelica, i suoi musicisti non tagliarono per nulla con i succedanei di quella pazza stagione e fu soprattutto la pressante presenza delle droghe pesanti, ad un certo punto, a sollevare polvere e incertezze. Una delle poche cose che si sapeva del quintetto era che, insieme all’amico e collaboratore Bob Dylan, facevano parte della comunità di artisti di Woodstock, anni prima che la sonnolenta cittadina diventasse famosa per il festival, tenutosi a 40 miglia a sud-ovest a Bethel. L'unica band che proveniva effettivamente da Woodstock, The Band, suonò l'ultimo giorno del festival di fronte a quasi mezzo milione di persone. Come risultato, la piccola città di Woodstock divenne una sorta di mecca e fu invasa da orde di persone. La Band decise di affittare la Woodstock Playhouse per presentare il nuovo album in concerto. I cittadini del posto, temendo che lo spettacolo avrebbe solo attirato più estranei e peggiorato le cose, rifiutarono la proposta e il quintetto decise allora di registrare il terzo album proprio sul palco del teatro, senza pubblico.
Nacque così Stage Fright. La Capitol voleva monetizzare immediatamente il successo del “disco marrone” e richiese un' altro lavoro da immettere sul mercato. Rick Danko non sopportava più John Simon, il precedente produttore e così ricorsero a Todd Rundgren. Helm, Danko e Manuel avevano iniziato a flirtare seriamente con l'eroina, divennero irreperibili, freddi, cupi e distaccati ma Robertson e Hudson riuscirono a mantenere la macchina in carreggiata. Il primo scrisse The Shape I'm In per farla cantare a Manuel, Stage Fright per Danko e The W.S Walcott Medicine Show per Helm, tutte erano attraversate da sfumature di follia e autodistruzione. "Una volta si diceva che se volevi suonare come gli angeli dovevi ballare con il diavolo, che l'eroina era l'accesso alla supremazia musicale. Quel mito apparteneva al passato del jazz, ma il potere della dipendenza era ancora in pieno vigore. La cosa che mi colpiva di più era che in band come la nostra, se non mandavi a pieno regime tutti i cilindri, la macchina finiva fuori strada". Sono le parole di Robertson nella sua bellissima autobiografia Testimony. Il parto di Stage Fright fu complicato ma il disco uscì meglio di quanto si pensasse. Todd Rundgern non aveva idea di cosa stesse succedendo non avendo dimestichezza col mondo delle droghe e non riusciva a capire perché alcuni di loro si presentassero in ritardo o non si presentassero affatto alle session. Un giorno tra una registrazione e l'altra, Levon Helm prese un materassino ed una coperta e si mise a dormire nello studio, Todd Rundgren non capiva proprio come si poteva lavorare in quel modo.
Terminato il lavoro alla Playhouse, la Band accettò l'insolita offerta di partecipare al Festival Express con i Dead, Janis Joplin, Flying Burrito Bros., Ian e Sylvia Tyson, Delaney e Bonnie Bramlett, Buddy Guy, una carovana di musicisti che attraversò il Canada in treno suonando nelle città doveva faceva tappa. Dal punto di vista economico fu un gran fiasco, in alcune città ci furono dimostrazioni di giovani che volevano entrare gratis ai concerti, a bordo i musicisti se la spassavano e prosciugarono tutto il bevibile, tanto che si dovette fare un rifornimento straordinario di alcol. Quella che era iniziata come una idea romantica di viaggio condiviso, attraverso grandi spazi aperti, si trasformò in una baldoria autodistruttiva. La Capitol pubblicò Stage Fright nell'agosto del 1970 ed in poco tempo divenne disco d’oro. LP originario riportava sulla prima facciata le composizioni co-scritte da Robertson con Helm (Strawberry Wine) e Manuel (Sleeping, Just Another Whistle Stop), e sulla seconda quelle firmate dal solo chitarrista, tra cui la canzone che dà il titolo e All La Glory, una dolce ed intima riflessione sulla paternità. Il disco fu mixato da Glyn Johns, per la copertina si scelse un colorato art work di Bob Cato ed una foto spoglia di taglio modernista opera di Norman Seeff, un sudafricano allora sconosciuto, divenuto in seguito uno dei più ricercati fotografi degli Stati Uniti.
Stage Fright, come
sottintende il titolo, paura del
palcoscenico, è un’analisi sincera sulle dinamiche autodistruttive che
pervadevano il mondo del rock di allora. Emana un fascino oscuro, una bellezza
distorta nello strenuo tentativo di non perdere la purezza originaria minata
dalla fama, dalle tentazioni del successo e dalla consapevolezza che le cose
stavano cambiando. In quel momento furono soprattutto il pragmatismo di
Robertson e la professionalità di Hudson
a portare avanti l ’avventura di The Band. Come confessa Robertson nella
sua biografia "forse non si poteva
dire proprio niente di un album che si intitolava Stage Fright. Stavamo facendo il massimo che potevamo considerate
le fosche, drogate circostanze. Sia come sia, di una cosa sono certo: alcune
delle canzoni migliori che avevo scritto erano contenute in questo disco, e
questo mi bastava". E basta ascoltarsi brani come la narcolettica
ballata Sleeping , come il mezzo tempo di Just
Another Whistle Stop, come i due splendidi quadretti sull’America rurale di
The W.S Walcott Medicine Show e Daniel
and The Sacred Harp, come l’amorevole The
Rumor cantata a due da Danko ed Helm,
per dargli ragione. Oltre ai titoli che ebbero un notevole impatto nei live show ovvero la canzone che dà il
titolo all’album, e poi Time To Kill e
The Shape Im’In.
In occasione del 50° anniversario di Stage
Fright, le nuove edizioni si sprecano: un cofanetto Super Deluxe con
2CD/Blu-ray Audio/LP/7” e booklet fotografico, il digitale, il mini-box di due
CD, LP con vinile nero 180g e LP con vinile colorato 180g. Tutte le versioni
della Anniversary Edition sono state supervisionate da Robbie Robertson beneficiando del
nuovo missaggio di Bob Clearmountain dai nastri multi-traccia
originali. Per la prima volta, l'album viene presentato con la sequenza dei
brani prevista originariamente, non quella che uscì al tempo e nelle varie
edizioni in CD. "Nell'album, avevamo utilizzato una sequenza diversa
per presentare ed incoraggiare la partecipazione alla scrittura delle canzoni
di Richard e Levon", rivela Robertson. "Nel corso del
tempo, ho desiderato ardentemente recuperare il nostro primo ordine di canzoni,
perché ti porta direttamente nello scenario di Stage Fright". Due
sono le bonus track aggiunte e sono i mix diversi di Strawberry Wine e Sleeping,
interessanti per la spartana dimensione acustica di chitarra e pianoforte
ma c’è ben altro nel cofanetto, nel doppio CD
e nelle versioni digitali. Innanzitutto
l’intero concerto Live at the Royal Albert Hall, June 1971,
un’emozionante performance registrata durante il loro tour europeo, quando la
band era al top della carriera, e poi sette registrazioni inedite col titolo di Calgary
Hotel Recordings, 1970, ovvero una jam session improvvisata in hotel a
tarda notte tra Robertson, Danko e Manuel. Mentre Robertson iniziava ad
accennare alcune delle nuove canzoni registrate per Stage Fright, il fotografo John Scheele, che stava
viaggiando con il gruppo durante il Festival Express, registrò con il suo
magnetofono portatile una spontanea performance notturna il 3 luglio 1970 a
Calgary in Canada, ultima tappa del leggendario tour. Le registrazioni
ritrovate, che presentano Robertson, chitarra e voce con Danko che armonizza e
Manuel che si unisce alla voce e all'armonica, sono un documento affascinante
che consente di ascoltare tre amici che si divertono, arruffati e fuori dalle
righe, a fare ciò che più amavano. Una vera registrazione sul campo, con Get Up Jake e The W.S Walcott Medicine Show, entrambi titoli di Stage
Fright, uniti alle improvvisate Calgary
Blues e Mojo Hannah e alle cover
di Pneumonia & The Boogie Woogie Flu di
Huey “Piano” Smith e Before You Accuse Me di Bo Diddley. Ma è il concerto londinese ad alzare il tiro di questo 50esimo
anniversario. Nella primavera del 1971, The Band partì per l'Europa, per la
prima volta dopo l’ultima apparizione con il tumultuoso tour insieme a Bob
Dylan nel 1966. Non avendo suonato lì per cinque anni, The Band non sapeva cosa
aspettarsi ed invece ebbe una risposta entusiastica nel primo concerto ad
Amburgo, in Germania e durante l’intero tour avrebbero continuato a suonare per
una folla incredibile. “Ogni membro della band andava al massimo
ed ogni serata, da Amsterdam a Parigi a Copenaghen, lo spirito continuava a
crescere”, ricorda Robertson. Per questo
decisero di documentare il concerto alla Royal Albert Hall di Londra, e di
questo si occupò la EMI che approntò un registratore a 4 piste. Per la prima
volta in assoluto, le registrazioni del concerto vengono pubblicate come Live
At The Royal Albert Hall, 1971, un incredibile set di 20 canzoni con la
band che offre esaltanti versioni di canzoni dal loro terzo album, accanto ai
loro brani più famosi di Music
From Big Pink e del Brown Album ovvero le immancabili The Weight, King Harvest (Has Surely Come), Up On Cripple Creek, The Night They Drove Old Dixie Down, Across
The Great Divide, Chest
Fever, Rag Mama Rag, Don’t Do It e le cover di I Shall Be Released di Dylan, e
di Loving You Is Sweeter Than
Ever, scritta da Stevie Wonder a portata al successo dai Four Tops.
Con l'aiuto di Clearmountain, queste registrazioni sono state recuperate 50 anni
dopo, consentendo a tutti di ascoltare quello che Robertson definisce "uno
dei più grandi concerti dal vivo mai suonati da The Band". Verissimo, questo live non ha nulla
da invidiare al più conosciuto Rock of Ages anche se là era in
pista una copiosa sezione di ottoni diretta da Allen Toussaint. E’ la succulenta ciliegina sulla
torta della ristampa di un album che il noto critico musicale Robert Hilburn
sul Los Angeles Times ha definito " un'incredibile dimostrazione
di abilità musicale, strumentazione superba, voci precise e testi ricchi e
senza tempo". Niente male per chi in quell’anno soffriva di ansia da
palcoscenico.
MAURO ZAMBELLINI GENNAIO 2021