martedì 21 marzo 2023

EVASIO MURARO Non rientro Fragile Dischi



 

Scrivo raramente di artisti che cantano in italiano ma questa volta non rispetto tale regola perché conosco l’intero percorso di Evasio Muraro, da quando militava nel Settore Out, l’unica reale blue collar band esistita nel panorama nostrano, fino alla sua scelta di fare dischi a suo nome, rivelandosi un songwriter alla continua ricerca di paesaggi sonori inusuali e liriche scomposte e frammentarie atte più a porre domande che dare risposte. Con Non Rientro Evasio Muraro ha finalmente realizzato il disco che gli rende giustizia in termini di un pop d’autore autenticamente italiano che  rifugge i modelli anglosassoni più conosciuti da cui in genere attingono coloro che, provenendo dal rock, alle nostre latitudini fanno della canzone d’autore. Difficile trovare parenti nella poetica sonora di Non Rientro a meno di non fare un salto all’indietro negli anni settanta quando alcuni artisti della Cramps, in primis Finardi e Camerini, esploravano un linguaggio autonomo dai modelli stranieri per esprimere la loro inquietudine, le loro speranze, i loro slanci. Non Rientro non è un disco rock se non nell’attitudine perché qui la strada è quella di un equilibrio tra suoni elettroacustici (la voce e la chitarra acustica di Muraro intrecciate con le tastiere, le chitarre elettriche e i ritmi di Fidel Fogaroli) e melodie, un matrimonio riuscito anche quando, è il caso di Mi Fermo qui (Rosepine),le dissonanze elettriche sembrano minare l’apparente concept del disco. Basta aspettare un attimo, e la serenità folkie di Tenera nella sua scarna purezza con l’unica interferenza della  pioggia, rimette le cose a posto. E’ il momento più tradizionalmente cantautorale del disco che svanisce quando la voce baritonale di Evasio e le suggestioni ancestrali costruite con percussioni e tastiere, di Una cosa venuta dal mare, riportino il disco in quella landa  visionaria di schizzi acustici, elettronica e voci rapite che è il suo tratto caratteristico. Ispirata dalla melodia di The Lover Of Beirut di Anouar Brahem è un grido di dolore, senza un filo di retorica, per quello che sta avvenendo, da anni, nel Mediterraneo.



Il disco parte con la canzone che ne dà il titolo ed è un riallacciarsi all’essenzialità del lavoro precedente, O Tutto o l’Amore, anche se qui tra punteggiature elettroniche ed un vago ritmo tribale, la sensazione è di trovare un personaggio ormai convinto che l’unica soluzione per vivere è rimanere fuori dal contesto che ci circonda. Lirica ed ispirata è il biglietto da visita di un album che si sviluppa in forme ogni volta diverse e fluttuanti. Dal senso cosmico di Non Rientro si passa alla sincopata e nervosa Stazioni con un crudo innesto free che ricorda il lavoro che Nels Cline fa con Wilco, più melodiosa è Stupido film canzone che cita inconsapevolmente, in un frangente, il Lucio Battisti di  Io Vivrò senza  te e si traduce in un malinconico quadretto di  vita domestica spezzata, con la marea dentro il cuore ed il freddo che sale sapendo già di aver perso la persona amata. Bellissimo l’arrangiamento sonoro creato da Fidel Fogaroli, musicista che da anni collabora con Muraro e nel cui home studio è stato registrato Non Rientro.  Solo potrebbe essere il singolo estratto dall’album, per la carica ritmica ed il refrain contagioso, uno pseudo-rap costruito sul drumming elettronico e su un ritornello che si fissa immediatamente nella testa nonostante il pigro non sappia dare senso alle emozioni. Qualcosa di Ivan Graziani affiora dalla struttura melodica, il finale viene scarabocchiato di nuovo alla maniera di Nels Cline. L’episodio più candidamente pop è Lei, lei, leggera, indolore ma  non banale, come tutto il disco, punto climax di un cantautore che merita ben altro che il circuito underground. Non Rientro di Evasio Muraro è pop per cosmonauti in cerca di altri suoni e altri mondi.

 

MAURO ZAMBELLINI MARZO 2023    


martedì 7 marzo 2023

GARY ROBERT ROSSINGTON 1951-2023


 

Affetto da tempo da seri problemi cardiaci, il 5 marzo se ne è andato l’ultimo rimasto degli originali Lynyrd Skynyrd, Gary Rossington, chitarrista formidabile e fondatore con Ronnie Van Zant, Albert Collins e Bob Burns della più popolare formazione southern rock esistita ( considerato che gli Allman Brothers si sono sempre e solo reputati una blues band). La saga della band di Jacksonville è così arrivata al capolinea anche se probabilmente il brand sarà usato per continuare una leggenda che ormai non è più la stessa. Nato il 4 dicembre 1951 a Jacksonville, Gary Robert Rossington partecipò alla realizzazione dei migliori dischi dei Lynyrd Skynyrd divenendo uno degli elementi cardini della band,  lasciando la firma in brani epocali come Simple Man, Down South Jukin’, I Ain’t The One, Gimme Back My Bullets, Sweet Home Alabama  e facendo da fulcro a quella irresistibile guitar army che lo vide protagonista con Albert Collins, Ed King, Steve Gaines prima ed in anni seguenti con Hughie Thomasson e Rickey Medlocke. Se la prima fase della band, con l’indimenticabile cantante  Ronnie Van Zant  è quella che si ricorda con più affetto, vessillo delle “cattive maniere” del southern rock con una musica aspra e corrosiva, fatta di riff sporchi e brucianti e di canzoni che non facevano mistero dell’ identità sudista, spesso rivendicata con le lodi all’whiskey, le risse al bar, l’atteggiamento ribelle del “vivi di corsa, lavora duro, muori giovane”,  e con live act capaci di rivaleggiare con i più titolati Rolling Stones, Who, Led Zeppelin,  non va dimenticata la fase post-reunion del 1987 con Rossington ancora protagonista. Tantomeno il resto della  sua carriera. Linea di separazione è il tragico incidente aereo che falcidiò la band di Jacksonville causando la morte di Ronnie Van Zant, Steve Gaines e sua sorella Cassie, lasciando pesanti conseguenze anche in Gary con braccia, gambe e bacino rotti e stomaco e fegato perforati.


 Quel nefasto 20 ottobre 1977 è una delle date che tutti gli amanti del southern rock ricordano bene, la fine dei glory days di quell’idioma musicale che tanto fece per il Sud-Est degli Stati Uniti (gli Allman si erano momentaneamente sciolti proprio in quei giorni) sdoganando un luogo geografico che si pensava  ostaggio di una sottocultura razzista e reazionaria, e grazie a quell’esperienza musicale  legittimato in termini di un innocente quanto sentito  spirito di comunità e appartenenza. Come ogni novella sudista che si rispetti, sia la storia dei Lynyrd Skynyrd che quella degli Allman hanno subito la mannaia della maledizione con morti, incidenti e drammi oltre che cadute rovinose a base di alcol e droga, ma resistono nella memoria collettiva del rock come epopee artistiche ed umane dal respiro epico, imprescindibili nella cultura americana di strada. Quella palude del Mississippi  inghiottì non solo un aereo con a bordo dei musicisti ma un intero sogno ed una grande esperienza musicale, nonostante la caparbia, la tenacia, la passione e  pure la convenienza economica di ribelli confederati  permise che dopo la morte e gli anni bui ci potesse essere se non una rinascita almeno un nuovo capitolo. Alla fine degli anni ottanta, quasi in contemporanea di un altro lutto, quello di Allen Collins, i Lynyrd Skynyrd tornarono in pista proprio grazie alla volontà di Rossington, con il nuovo cantante Johnny Van Zant, fratello minore di Ronnie, per un’altra cavalcata  durata fino ai giorni nostri. Prima che il Lynyrd Skynyrd Tribute Tour 1987 rimettesse insieme i cocci con Johnny Van Zant, il redivivo Ed King, Leon Wilkeson, Artimus Pyle, Billy Powell, Randall Hall e appunto Rossington, quest’ultimo si era leccato le ferite inventandosi con la futura moglie Dale Krantz una formazione sul modello dei vecchi Lynyrd.  Niente di sorprendente per chi bazzica quei suoni ma uno scatto di orgoglio contro il destino avverso nel segno di una comunità improntata alla condivisione perché insieme a Gary scesero in campo i sopravvissuti Skynyrd ovvero  Allen Collins, da qui il nome di Rossington Collins Band, il pianista Bill Powell e il bassista Leon Wilkeson,  oltre al batterista Derek Hess e al chitarrista Barry Lee Harwood.. Dischi più che dignitosi come Anytime, Anyplace, Anywhere del 1980 e This Is The Way dell’anno seguente, fino a quando la moglie di Collins,  Katy Johns muore per emorragia cerebrale durante un parto e la storia si ripete. Attorniato da tanta negatività, Rossington sente il bisogno di allentare i legami con l’ingombrante eredità del passato e crea con la moglie una band a suo nome reclutando musicisti estranei all’universo Lynyrd e virando con due album per la MCA verso un Adult Oriented Rock radiofonico con punte di hard-rock.  Dal 1987 sarà di nuovo in forza ai rinati Lynyrd Skynyrd lasciando il segno con la Gibson Les Paul del 1959 acquistata da una donna il cui fidanzato l’aveva abbandonata dimenticandosi della chitarra,  ed impreziosendo di blues il suono della band. Doveroso riguardare i tanti filmati live in circolazione, sia con la formazione originale che con quella del post-reunion quando fattosi crescere ancora di più i capelli, col cappellaccio ed una lunga palandrana scura Rossington pareva uscito da un film western nei panni di un fuorilegge di qualche banda dedita al furto di cavalli. Memorabili i suoi assolo con l’inseparabile Les Paul in Call Me The Breeze, in Swamp Music  ed in That Smell, magnifica canzone scritta da Ronnie Van Zant e Albert Collins per l’album Street Survivors  pare indirizzata allo stesso Rossington andato a sbattere con la sua Ford Torino contro una quercia sotto l’effetto di alcol e droga. Come memorabile è il suo apporto nella kilometrica Freebird dedicata a Duane Allman  perché è vero che l’assolo lancinante lo faceva la Gibson Explorer di Collins prima e Medlocke poi, ma chi preparava la pista di lancio era Rossington che con la Gibson SG  “slidava” affinché la canzone si liberasse di lì a poco in uno spazio e in altezze in quel periodo consentite solo a Stairway To Heaven dei Led Zep. 



Gary Rossington è stato un grande chitarrista ed uno dei simboli del southern rock, oggi ne piangiamo la scomparsa ma il suo tocco e la sua Simple Man rimarranno per sempre.

MAURO  ZAMBELLINI    MARZO 2023

sabato 25 febbraio 2023

THE ROLLING STONES GrrrrrrrLive!


 


Nel 2012 i Rolling Stones pubblicarono in concomitanza del loro 50&CountingTour una antologia di 3 CD con 50 canzoni tra le più rappresentative della loro avventura musicale. Intitolato Grrr! ricapitolava la loro carriera dal primo singolo del 1963 Come On fino ai brani incisi mezzo secolo dopo, ovvero Doom and Gloom e One More Shot. Non era certo la prima antologia del gruppo inglese, dieci anni prima c'era stata Forty Licks e sette anni dopo ci sarebbe stata Honk, senza contare le tante compilation del secolo presecedente, ma Grrr! abbracciando un lasso di tempo così ampio sembrava quella definitiva. Considerata la proverbiale iperattività di Jagger e compagni nel pubblicare materiale proveniente dai loro archivi e nello sfruttare il loro arsenale, pochi avrebbero scommesso su quella parola, "definitiva" che di fatto non appartiene al vocabolario degli Stones ed infatti, immancabile, dieci anni più tardi arriva l'equivalente live di quella sorta di greatest hits espanso. Grrr Live! non abbonda di titoli come il predecessore, solo 24 tracce con i must dei loro show, quella specie di karaoke che va in onda sui palchi di mezzo mondo da una ventina d'anni a questa parte, con in più alcuni titoli famosi ma non così popolare come i loro classici. Maestri in quanto a ristampe e prodotti d'archivio, gli Stones non hanno assemblato brani live estratti qui e là dai loro tour ma  presentano un ideale greatest hits attraverso un unico concerto, quello avvenuto durante il tour del cinquantesimo il 15 dicembre del 2012 al Prudential Center a Newark nel New Jersey. Un concerto superlativo e potente come si evince dall'ascolto di questo album che da prassi verrà distribuito in più formati (2CD, DVD+2CD,Bluray+2CD, 3 LP rosso e 3Lp nero) e dove non mancano invitati di lusso a rendere ancor più appetibile il menù.

Partono da lontano gli Stones mettendo in pista una scoppiettante Get Off Of My Cloud  anno 1965 con cui scaldare gli americani del New Jersey e New York accorsi in massa a salutare la più longeva rock n'roll band dopo sei anni di assenza. L'ultima volta che erano capitati da quelle parti era il 2006, a settembre a East Rutherford e a novembre al Beacon Theatre di New York. Jagger è in forma e canta come fosse un trentenne, stessa verve, stesso entusiasmo, stessa scelleratezza, durante lo show non ci sarà calo di tensione a parte il rallenty in Wild Horses ma qui in apertura sono frizzi e lazzi, che si ripetono in The Last Time, medesimo anno della precedente, canzone amata anche dai mods oltre che dai rockers di ogni età e sesso. Chitarre sfrigolanti come nel beat, drumming (Charlie, l'eterno Charlie) disteso e preciso, il refrain immediatamente memorizzabile, il coretto finale sixties e tanti saluti ai Beatles. Are you feeling good ? grida Jagger al pubblico prima del manifesto programmatico della loro musica ovvero E' solo rock n'roll ma mi piace, qui ben rimpolpato dal backing di Bernard Fowler e della incandescente Lisa Fisher. Si ritorna al passato con la frustata di Paint It Black il loro hit più dark dove il suono del sitar aggiunge ombroso esoterismo ad un brano dalle linee barocche. Una versione intrigante e di cupa atmosfera, con una tensione ritmica costante, titolo che sarà onnipresente nei tour seguenti. Gimme Shelter è la mia canzone preferita del gruppo e qui parte alla grande, Jagger è mattatore ed introduce  Lady Gaga che si lancia in un acuto ed in vocalizzi piuttosto banali, affatto adatti alla drammaticità del pezzo. Senza scomodare l'originale Mary Clayton sarebbe bastata la sola Fisher a tenere alta una canzone che è una meraviglia dell'arte moderna. In Wild Horses Jagger prende fiato e si fa romantico lasciando divertire i due dietro che con le chitarre masticano del polveroso e sfilacciato country-blues, cosa che si ripete con più dinamismo in una splendida versione di Dead Flowers  con tutti quei saliscendi e quel profumo di strade, quasi che la droga di cui si canta non sia presagio di morte ma dia una scossa diversa rispetto ai cavalli selvaggi, termine con cui negli anni settanta i junkies chic chiamavano l'eroina. A questo punto entrano in scena due chitarristi blues di recente generazione, Gary Clark Jr. e John Mayer che  incendiano I'm Goin' Down di Freddie King con una irruenza tutta giovanile. Quattro chitarre sul palco con Richards e Wood sono una band di fuorilegge da cui è meglio guardarsi. Tellurica, micidiale, tostissima, Jagger canta quel poco che basta per lasciare che la band diventi un'eruzione vulcanica ed insegni al New Jersey di che pasta è fatto il British R&B quando incontra  Chicago e il Texas blues. Rock-blues nucleare, senza scorie ed effetti secondari, solo una sventola da lasciare senza fiato. Nemmeno il tempo di prendere fiato e arrivano i Black Keys che incitati da Jagger e soci si buttano a capofitto in Who Do You Love resuscitando Bo Diddley in una versione che sa di psichedelia e di quel blues di casa nelle colline settentrionali del Mississippi con maestri come Fred McDowell e R.L Burnside. Le chitarre friggono, Jagger e Dan Auerbach si rincorrono, la sezione ritmica picchia duro. Si smorza il tasso blues del concerto per far ballare gli americani coi due singoli di allora ovvero l' heavy danceable  di Doom and Gloom con Charlie qui in versione martello ed il pop-soul One More Shot, e poi prende il via il karaoke più bello del mondo. Al di là di come la si pensi Miss You gigiona e sfacciata quanto si vuole, è di una piacevolezza estrema, Chuck Leavell con le tastiere ci mette un  soffio di jazz, il basso pulsa funk, la batteria pur metronomica suona soffice e quando entra Bobby Keys col sax vorresti saltare indietro nel 1977 allo Studio 54 contornato da belle donne che ballano con te. Divertimento sexy. Di Honky Tonk Woman, altra my favourite thing, non posso dirvi molto perché lo streaming in mio possesso per recensire il disco si interrompe sempre al 46esimo secondo lasciandomi a bocca asciutta, ma ci pensa Keith Richards (chi se non altro) ad inumidirmela con il sound al Jack Daniels di due sue composizioni. Accolto da un fragoroso applauso mette voce (ancora udibile) e chitarra in un residuato di Some Girls, Before They Make You Run insaporita di sassofoni, cori e chitarre twangy in una versione molto southern, e nella classica Happy  sporca di uno urbanissimo stile Stax con Ron Wood che blueseggia slide e Fowler e la Fisher che esaltano il mood orgiastico del brano. A questo punto non poteva mancare il vecchio amico Mick Taylor nei dodici minuti feroci, convulsi e furiosi di Midnight Rambler. Il suo tocco è inconfondibile, l'armonica va fuori nota ma lui si lancia in un cruento e caotico assolo  che avrebbe messo paura anche allo stesso strangolatore di mezzanotte. Nulla da eccepire su questa versione anche se ne esistono di migliori, ma una volta tanto mi piacerebbe risentire  Taylor rifare assieme agli Stones Can't You Hear Me Knocking oppure quella Sway che nell'album con Carla Olson è un vero sabba sonico. Quisquilie, perché quello che arriva dopo è roba da togliere il fiato anche se la si conosce a memoria. Versioni toste, sfavillanti, energiche di Start Me Up, Tumbling Dice, Brown Sugar, Sympathy For The Devil,  You Can't Always Get What You Want (grandiosa) dove Jagger fa cantare tutto il New Jersey,Jumpin' Jack Flash ed una terrificante e assatanata Satisfaction nella quale il cantante finisce per diventare una copia di Wilson Pickett. Il padrone di casa Bruce Springsteen partecipa a Tumbling Dice col suo vocione arrochito,  gioca di forza e muscoli per farsi sentire in mezzo ai sassofoni indemoniati di Tim Ries e Bobby Keys e ad un Jagger che, trasformato in black singer, ripete a squarciagola gotta gotta gotta.

Dimostrazione della vitalità ritrovata dalla band (è mia impressione che la resa degli show della seconda decade del duemila siano mediamente migliori di quelli della prima, salvo comunque eccezioni), il concerto del 15 dicembre 2012 a Newark testimoniato da Grrr Live!  è la nitida fotografia del loro cinquantesimo sul palco ed anche un modo, oggi, per celebrare i  sessanta anni di carriera regalando (si fa per dire)  il juke box dei loro hits ma in versione dal vivo. Performer eccelsi e businessmen di classe.


MAURO   ZAMBELLINI     


giovedì 26 gennaio 2023

WILCO Cruel Country


 

 “I love my country like a little boy/red, white and blue/ I love my country, stupid and cruel”  canta Jeff Tweedy nella canzone che dà il titolo all’album ed in questo semplice verso c’è racchiuso il senso di un disco che segna il ritorno di Wilco alle atmosfere folk e country dei primi loro due lavori, pur non mancando qualche sventagliata elettrica e ardito arrangiamento ben caro alla band. Un disco lunghissimo, doppio album di 21 canzoni con una veste sonora apparentemente dimessa e sotto tono, lontana dalle spinte avanguardistiche e avventuriste dei loro album più innovativi ed incensati, a chi scrive piacciono particolarmente Sky Blue Sky e Being There anche se il più acclamato dalla critica rimaneYankee Hotel Foxtrot, quindi un ridimensionamento del ruolo di Nels Cline, autore di quegli schizzi free che hanno contribuito ad esaltare in termini alternativi il sound della band, raggiungendo l’apoteosi nei concerti, alcuni davvero indimenticabili.

La pandemia ed il lockdown hanno condizionato lo scrivere di Tweedy che alla luce di un intimismo dettato dalla situazione contingente ha iniziato a concepire alcun brani di Cruel Country durante le session del suo album solista del 2020 Love Is The King . Ma se quello si è trasformato in uno sforzo isolato, assistito solo dal figlio batterista Spencer e dal produttore Tom Schick, l’album a firma Wilco è al contrario il frutto di un lavoro collettivo da parte di tutta la band. E’ stata una liberazione per i sei trovarsi di nuovi insieme, registrando dal vivo in studio dopo diversi anni, lasciando andare i loro strumenti in una sorta di onda sonora con i ritmi che fluttuavano e le canzoni che pur abbozzate da Tweedy beneficiavano della chimica collettiva, assorbendo la felicità di sentirsi ancora insieme a creare musica. Proprio per tale ragione il disco, al di là dei temi trattati che abbracciano la politica, la storia del proprio paese, la mortalità, l’ambivalenza, l’intolleranza, l’utilità dell’arte, rappresenta un ritorno alla sobrietà e alla naturalezza delle radici sonore da cui Wilco sono nati, in particolare l’eredità degli Uncle Tupelo, sbrigativamente definiti country all’epoca ma di quel country che ha prodotto tutto il fenomeno di americana e oggi grazie al coraggio esplorativo e alla irrequietezza che ha contraddistinto la band nella sua produzione recente e passata, si è trasformato in un linguaggio rock che sfugge alle etichette, ben più ampio, innovativo e articolato. Unico, direi.  Hanno deciso di accantonare le loro voglie art-pop e sono ritornati a casa ma senza l’atteggiamento di chi sconfessa la strada percorsa, al contrario creando un insieme sonoro amalgamato, naturale, specchio dei tempi incerti che stiamo vivendo ma comunque rilassato. Al primo ascolto queste 21 canzoni possono lasciare freddi e titubanti ma è solo l’impressione iniziale perché suonando in studio come se fossero live, ed ogni membro si è trovato a proprio agio, il risultato alla distanza viene fuori ed il quadro brilla di una luce diversa, ogni brano ha una sua dinamica, i dettagli si sprecano, gli arrangiamenti con le tastiere accarezzano la malinconia di fondo, le chitarre dialogano tra loro come fosse una conversazione tra amici e pur se in qualche momento le canzoni sembrano andare alla deriva, si respira vita ed il senso di una musica non artefatta, sincera come il sentimento dell’autore che l’ ha scritta. Cruel Country è un percorso di liberazione dopo un periodo cupo, il volume è contenuto ma il calore delle esecuzioni impedisce all’album di sprofondare nell’oscurità anche quando l’andamento è lento, lamentoso e in The Plains  e Ambulance  la voce di Tweedy narcolettica.  



Prevalgono le ballate, malinconiche ma rustiche, con occasionali deviazioni verso qualche bizzarro colpo rock, un eclettico intervento delle tastiere, sottigliezze qui e là, nel caso di Bad Without A Tail/Base of My Skull addirittura una jam semiacustica con la batteria di Glenn Kotche che offre lo spunto per l’intrecciarsi avanti ed indietro delle chitarre di Tweedy e Nels Cline. In Falling Apart(Right Now) e A Lifetime To Find, quest’ultima una conversazione sulla morte che arriva all’improvviso, è evidente un approccio country-rock tipo Gram Parsons ma se di country bisogna parlare qui vale di più Bakersfield che Nashville ed in generale Cruel Country  è fatto di una materia tutta sua. Ci sono canzoni come Across The World e Hearts Hard To Find  capaci di sciogliere il cuore, una piccola magia del songwriting di Tweedy con la voce dolente ma prodiga di dolcezza, quest’ultima scritta appositamente per qualcuno in cerca d’amore come suggerisce il titolo, altre come The Universe  sono lente e lamentose, lontane anni luce dalla ipertecnologia attuale tanto da indurre la sensazione di trovarsi di fronte ad un album in analogico, autentico nella sua sobrietà. Story To Tell pare una out-take di Being There , Many Worlds diafana e sospesa è l’apparente fotografia di un paesaggio nordico con l’eco del mare e l’arpeggio di chitarre acustiche, come se Michael Chapman fosse resuscitato e avesse re-incontrato Steve Gunn, Mysery Binds è un’altra piccola dolcezza in punta di piedi con squarci sonori dall’effetto visionario.

Il country di Merle Haggard e Buck Owens viene integrato da Wilco come al tempo fecero i Dead, i Flying Burrito Brothers, i Byrds e i New Riders of Purple Sage nel rock psichedelico, c’è un sound nostalgico ma l’istinto esplorativo proprio della band persiste nei dettagli e il rifugiarsi nel passato qui è sintomo di conforto, naturalezza, perfino benessere. Ne è esempio Country Song Upside-Down, altra perla del disco e dimostrazione della capacità di Tweedy e compagni di non apparire revivalisti, attuali nonostante il sapore elegiaco . I Am My Mother  è un valzer sulle speranze di un immigrato nel quale Tweedy contempla un paese amaramente divisivo, in Cruel Country l’autore piagnucola che “tutto ciò che devi fare è cantare in un coro”, Tonight’s The Day  è una riflessione sull’ambivalenza di bene e male, Hints con la sua fresca aria pop scarabocchiata da una lap steel si chiede se è ammissibile che “non ci sia una via di mezzo quando l’altra parte preferirebbe uccidere piuttosto che scendere a compromessi”.  Tweedy non offre direzioni o soluzioni, le sue sono solo osservazioni (in questo assomiglia a Lou Reed )su un paese crudele che peraltro continua ad amare.

Inspiegabilmente messo on line durante l’anno passato ma pubblicato “fisico” solo ora, Cruel Country  è l’attestato di una band che dopo un periodo di appannamento ha ricominciato la sua corsa, guardandosi dentro e riallacciandosi alle proprie esperienze e alle proprie radici, con umiltà e maturità. Disco splendido.

 

MAURO ZAMBELLINI   

 

 

venerdì 13 gennaio 2023

LUCINDA WILLIAMS Teatro Lirico-Giorgio Gaber MILANO 10/01/23


Si è scritto molto sui social il giorno dopo l'esibizione milanese di Lucinda Williams a proposito se sia giusto presentare sul palco un'artista in evidente difficoltà, reduce da un ictus che le ha lasciato problemi di deambulazione e per di più funestata la sera stessa da una faringo-laringite che l'ha costretta a tossire e soffiarsi il naso continuamente.C'è stato chi, indignato, ha lasciato la propria poltrona dopo solo qualche brano, altri hanno evidenziato il cinismo di chi ha portato in tour Lucinda Williams in queste condizioni oppure qualcuno ha ipotizzato che l'artista americana sia in qualche modo costretta ad esibirsi per pagarsi l'assicurazione che negli Stati Uniti garantisce le cure per la malattia. Facile fare della dietrologia, la verità non la conosceremo mai e nemmeno interessa perché quello che personalmente mi ha emozionato, commosso, meravigliato è stata la forza di una donna che spogliata del suo mito, fragile e “nuda”davanti ad un pubblico meraviglioso e partecipe del suo dramma, è riuscita a rimettere in piedi, dopo un inizio agghiacciante con lei in evidente stato confusionale e la band che cercava di mettere insieme i cocci, scambiando sguardi impauriti di incoraggiamento, un concerto che dopo due ore  ed un bis di tre canzoni, è finito trionfale con l'intera platea in piedi ad incitarla e a seguirla in una corale Rockin' In The Free World di Neil Young. Un momento memorabile, il potente realismo del rock n'roll, un' artista aggrappata alla vita grazie alla sua musica con quella voce vivida ed espressiva che nemmeno la malattia ha cambiato, una voce che è dolore, malinconia, abbandono, rabbia e accettazione, la voce di chi non vuole arrendersi e pur nella precarietà contingente manda messaggi di resistenza. Il concerto più umano che mi sia capitato di assistere, traballante all'inizio, liberatorio alla fine, con la Williams che malferma  si portava appresso l'asta del microfono fino al limite del palco e pur scusandosi per gli inceppi, le false partenze, i colpi di tosse, l'acqua rovesciata, lo smarrimento in alcuni momenti, trascinava l'intero teatro  nella più tangibile affermazione che per alcuni grandi artisti come lo è lei arte e vita sono la stessa cosa.




Certo l'inizio ha messo tutti in un silenzio glaciale, facendo presagire la fine prematura del concerto, accompagnata sul palco dal road manager la Williams accennava a Blessed per fermarsi subito, smarrita e confusa, guardando con terrore i due chitarristi, Stuart Mathis e Doug Pettibone, che con dolcezza cercavano di darle fiducia tranquillizzandola e rimettendo in moto l'esibizione.



Starnuti, tosse, sguardo assente hanno fatto presagire il peggio, Protection non possedeva minimamente il carisma dell'originale, così come Right In Time ed una esangue Drunken Angel. Poi la Williams ha preso forza, il fantasma di Tom Petty in Stolen Moments, canzone a lui dedicata, l'ha benedetta e complice una band superlativa con un batterista da favola con tanto di cappello da cowboy in grado di ottenere il massimo col minimo del gesto, un bassista (David Sutton) che definire efficace è dire poco e due chitarristi, uno ( Stuart Mathis) con la Gibson SG, l'altro ( Doug Pettibone) prima con una Gretsch, poi con una Stratocaster e la lap steel, capaci di "illustrare" con ricami di alta scuola come deve essere il suono americano anche quando si lavora a volumi bassi. Dimostrazione eccelsa di tecnica, gusto, feeling, conoscenza, saggezza sonora che ha supportato e spinto la rockeuse di Lake Charles a dare il meglio di sé in Big Black Train, in Lake Charles, nella scapigliata e rockata Let's Get The Band Together, nuova di scrittura e nella bluesata, scura e paludosa Pray The Devil Back To Hell. Uno dei momenti topici del concerto assieme alla commovente e palpitante Born To Be Loved suonata in punta di piedi quasi fosse un jazz di un combo acustico, ed una Copenhagen da pelle d'oca che grondava malinconia come fossero lacrime di un innamorato abbandonato. 



La ruvida Honey Bee lasciava divertire la band con il ritmo e gli assoli, contenuti ma graffianti, in Essence come Righteously la Williams reiterava parole e versi  creando un mantra circolare di effetto ipnotico, è lo stile di tante sue ballate, 



Hot Blood la vedeva ritornare sul palco dopo solo qualche minuto dalla fine dell'esibizione, acclamata da tutto il teatro prima dell'apoteosi di Rockin' In The Free World dove la Williams pur ferita dal destino e quasi imbarazzata per trovarsi in quello stato ci buttava in faccia una grande verità: non sempre è facile vivere su un palco e sotto i riflettori e solo chi crede profondamente nella propria arte alla fine ne esce vincitore. Concerto che non dimenticherò mai.

TESTO di MAURO ZAMBELLINI        

FOTO di GIUSEPPE VERRINI



mercoledì 28 dicembre 2022

FOLLOW THAT DREAM L'esordio di Tom Petty and the Heartbreakers

Pubblicato originariamente sul N.458 del Buscadero (settembre 2022) questo è il primo di un trittico di articoli sulla carriera di Tom Petty. A seguire il resto

 

Sebbene nativi della Florida fu la Città degli Angeli a catalizzare la nascita di Tom Petty and the Heartbreakers. Il nucleo originario esisteva ben prima del 6 novembre 1976, data di uscita del loro esordio discografico, perché dalle parti di Gainsville, nella Florida settentrionale, i Mudcrutch erano diventati popolari tra quanti bazzicavano i club e i raduni della zona. Tom Petty era cresciuto nella difficile relazione col padre Earl, rappresentante commerciale, e la musica gli era parsa l’unica salvezza per evadere dalla famiglia e cercarsi un’alternativa. Nato nel 1950, era il classico figlio dell’età della televisione e probabilmente è questa la ragione per cui Los Angeles divenne nella sua mente il luogo ideale dove realizzare i propri sogni. Il primo incontro con il rock n’roll non fu difatti un jukebox ma un set cinematografico. Lo zio di Petty, Earl Jerrigan aveva il compito di perlustrare il tribunale di Ocala, 40 miglia a sud della casa di Petty a Gainsville, per una scena del film di Elvis Presley Follow That Dream  e invitò Tom ad accompagnarlo. Tom non conosceva il  Re del rock n’roll ma, incuriosito, accettò. Quando si trovò al cospetto di Elvis non disse una parola ma rimase visibilmente impressionato: “ sembrava di una specie irreale, come se stesse brillando, era sbalorditivo, quasi spirituale”.  Tom Petty quel giorno vide il suo futuro e rientrato a casa scambiò la sua fionda di marca Wham-O per un box di 45 giri di Presley. Tre anni dopo Petty ebbe un’altra visione cosmica quando assistette all’esibizione dei Beatles all’Ed Sullivan Show. Non passò molto tempo che convinse alcuni amici del quartiere a mettere insieme una band sul modello di quello che aveva visto e sebbene avesse solo quattordici anni capì che quella era la strada per evitare una vita mediocre.  Ci furono delle band scolastiche ma l’avventura vera e propria iniziò quando gli Epics si trasformarono in Mudcrutch. Ne facevano parte il chitarrista e cantante Tom Leadon,  il batterista  Randall Marsh e l’altro chitarrista Mike Campbell, ai quali poi si aggiunse il tastierista Benmont Tench. Petty si occupava di canto e basso ed il suo background abbracciava quel rock e quel beat che riusciva ad intercettare nelle radio locali. La scena musicale degli anni sessanta e primi settanta che si concentrava attorno all’Università della Florida era abbastanza fertile ma a Petty sembrò un segno premonitore che Bernie Leadon, il fratello maggiore di Tom, fosse emigrato a Los Angeles diventando un membro degli Eagles ed il più giovane Tom Leadon, rimpiazzato nei Mudcrutch da Danny Roberts, in California avesse trovato lavoro nella band di Linda Ronstadt. Agli occhi di Petty, Los Angeles  significava la mecca dei propri ideali, la città in cui tutto era possibile e i suoi sogni si sarebbero realizzati. In seguito il rapporto con la città non sarà così idilliaco e solo fonte di successo, causa la travagliata relazione con l’industria discografica. E difficoltoso sarà all’inizio farsi accettare nella scena californiana, sia coi Mudcrutch prima che con gli Heartbreakers poi, la stampa sarà piuttosto restia a considerare la loro musica un prodotto della West Coast preferendo scrivere di gruppo punk o southern rock o addirittura una band di heartland rock . Ma in quei giorni di gioventù è Los Angeles  il pantheon dove abitavano i miti di Petty che ascoltava alla radio, ovvero i Beach Boys, i Byrds, i Buffalo Springfield e i Flying Burrito Brothers.  Il primo viaggio nella Città degli Angeli Petty lo fa con Roberts e l’amico McAllister, è il 1974 e si portano appresso un demo dei Mudcrutch. Ma prima di arrivare in California si fermano agli studi della Capricorn Records a Macon dove la Marshall Tucker Band stava registrando il secondo disco A New Life.  Aspettarono tutto il giorno prima che qualcuno gli desse retta e ascoltasse il loro demo ma la risposta fu lapidaria : “troppo inglese questa roba, grazie e arrivederci ”.  Rivelò anni più tardi Petty che “in quel momento il Sud era inondato dalla musica della Allman Brothers Band e tutti, tranne noi, cercavano di imitarli. A noi piacevano gli Allman ma odiavamo le imitazioni, pensavamo che fosse una cosa stupida. Los Angeles rimaneva la nostra vera opportunità, là c’erano i Byrds, là volevamo fare quello che non potevamo fare in Florida”.



Prima di lasciare Gainsville, i Mudcrutch avevano già inviato il demo  di On The Street, registrato su due piste nel soggiorno della casa dei genitori di Benmont Tench, a varie case discografiche ricevendo unica risposta da Peter Welding, A&R della Playboy Records e storico del blues e del jazz che aveva lavorato con artisti “oscuri”, il quale pur rifiutando il materiale proposto ne analizzò i singoli brani mettendone in evidenza i difetti e suggerendo possibili migliorie. Arrivati a Hollywood, i tre si trovarono immersi in un mondo che non conoscevano e da ogni parte guardassero trovavano compagnie discografiche. Il feeling con la città fu immediato e la MGM offrì loro la possibilità di registrare un singolo. Presero tempo dopo che in un diner Petty si appuntò da un elenco telefonico i numeri di una ventina di etichette discografiche tra cui la Shelter, ubicata in un bungalow in una zona piuttosto fatiscente di East Hollywood. L’ufficio aveva però un aspetto pittoresco, il legno con cui era rivestito conferiva un fascino campagnolo in contrasto con il decor urbano di luci e cemento del sobborgo. Lasciarono lì il nastro dimostrativo e continuarono il loro giro interpellando anche le più titolate Capitol e London. Fecero in tempo a fare una sortita nel mitico Whiskey a Go-Go di West Hollywood rimanendo incantati dal luogo e dal pubblico che lo frequentava ma di fatto a Petty e compagni non rimase che tornare in Florida sperando  di ricevere qualche telefonata importante, che arrivò quando Denny Cordell, il produttore inglese che era stato alle spalle dei successi di Procol Harum, Moody Blues e Joe Cocker e co-proprietario della Shelter Records li chiamò. Aveva ascoltato il loro demo  e li invitò a fare tappa a Tulsa in Oklahoma dove Leon Russell, l’altro socio della Shelter, aveva allestito un suo studio in una vecchia chiesa. Cordell  incontrò i Mudcrutch al completo in una tavola calda di Tulsa e negli studi di Russell Petty e soci incisero una versione di Cry To Me  di Solomon Burke, I Can’t Fight It  ed una primitiva Don’t Do Me Like That  tutte e tre rintracciabili nel box antologico Playback del 1995. Il viaggio continuò fino a Los Angeles perché la Shelter era fermamente interessata a loro.  Anni dopo, Tom Petty confidò “ arrivai a L.A ed in una settimana avevo in mano il contratto, per disfarmene ci vollero parecchi anni”. Insieme a Petty c’era la nuova moglie Jane, sposata poco prima di lasciare la Florida, con cui diede al mondo la figlia Adria nel novembre del 1974. I Mudcrutch presero alloggio all’Hollywood Premier Motel in Hollywood Boulevard non molto distante dagli uffici della Shelter.  Passò del tempo prima che le cose in sala di registrazione funzionassero, i soldi scarseggiavano e la band fu costretta a spostarsi in due case affittate nella San Fernando Valley, a nord di Hollywood. Ma Cordell fu un vero mentore per loro ed invitò più volte Petty a raggiungerlo nel suo ufficio nell’orario di chiusura per fargli ascoltare i dischi più disparati, da Lloyd Price ai Rolling Stones, da Dylan al reggae, cose di cui il musicista era piuttosto a digiuno perché nei giorni di Gainsville con pochi soldi a disposizione non poteva permettersele e l’unica fonte rimaneva la radio. Fu una bonanza di informazioni e non solo discografiche. Il futuro batterista degli Heartbreakers, Stan Lynch mantiene un identico punto di vista a proposito di Cordell: “ero ancora molto giovane e non sapevo cosa significavano in termini musicali groove e feel. Lo chiesi a Denny il quale mi invitò ad andare con lui ad un concerto di Bob Marley and The Wailers. Mi fece accomodare sulla sua Ferrari, mi passò le chiavi e mi disse di guidarla, spronandomi ad accelerare. Una volta raggiunta una velocità sostenuta, mi disse, ecco cosa significa il groove. Al concerto, Marley ipnotizzò la platea con la sua performance, qualcuno  passò un joint attraverso la balconata, e Cordell disse, questo è il feel”.

La prima menzione sui Mudcrutch in L.A apparve il 31 agosto 1974 su Billboard, annunciava che stavano registrando con Cordell come produttore e Rick Heenan come ingegnere del suono al Village Recorder, uno studio ricavato negli anni sessanta da un tempio Masonico. Quegli studi furono fondamentali nella carriera di Petty ma il primo approccio non fu facile, pareva che i Mudcrutch  si trovassero meglio a registrare nel salotto di Tench che al Village Recorder ma nonostante tutto ne uscì un singolo, Depot Street, con venature reggae, e come B side un più commerciale Wild Eyes. L’idea di un singolo reggae può sembrare balzana conoscendo oggi la discografia completa di Petty ma al tempo la mossa non fu così strana visto che in quel 1974 Clapton scalava le classifiche con I Shot the Sheriff.  Comunque Depot Street non ricevette ne particolari attenzioni radiofoniche ne recensioni, a parte una segnalazione nella rubrica First Time Around di Billboard come nuovi artisti valevoli di ascolto. Le vendite furono inesistenti. La band uscì dallo studio delusa e senza nulla in mano se non un mediocre singolo reggae. La scena rock di Los Angeles era in completa evoluzione, i vecchi miti californiani erano in stand by o pagavano gli eccessi del passato, ed il Sunset Strip era preso d’assalto da nuove e giovani band punk e new-wave. Nell’etere teneva banco un certo Rodney Bingenheimer sulla stazione radio KROQ col programma Rodney on the ROQ dove passava la nuova musica emergente della città.  Nel frattempo i Mudcrutch avevano perso Danny Roberts che aveva fatto ritorno in Florida e al suo posto venne reclutato Charlie Souza, un veterano della scena rock di Tampa con i Tropics. Dal momento che i soldi per le registrazioni erano esauriti, Petty e company furono indirizzati nello studio casalingo di Leon Russell a Encino dove per qualche mese tentarono di incidere qualcosa. Charlie Souza fece in tempo a partecipare alla versione dei Mudcrutch di  Don’t Do Me Like That il singolo che avrebbe lanciato qualche anno più tardi l’album Damn The Torpedoes e segnato in modo indelebile la carriera degli Heartbreakers. La canzone era stata scritta al pianoforte da Petty agli Alley Studios e sempre nello studio di Russell fu registrata Hometown Blues , poi finita nell’esordio degli Heartbreakers, con Randall Marsh alla batteria, Charlie Souza al sassofono e Donald “Duck” Dunn al basso. Ma in ultima analisi le session furono piuttosto fallimentari e Cordell fu costretto a convocare Petty nel suo ufficio dicendogli che le perdite erano tali da imporgli di licenziare la band ma, credendo ciecamente in lui, era disposto a rinegoziare il contratto con la Shelter come  solista. Situazione analoga a quella capitata sempre a Los Angeles quando la Liberty si sbarazzò degli Hourglass ovvero del nucleo originario degli Allman tenendosi stretto il solo Gregg Allman.


(foto estratta da Rick's Airport Recorders)

Tom Petty con la moglie Jane si spostò a vivere al Winone Motel e cominciò a lavorare al suo disco solista negli studi della Warner Bros.  di Burbank ricevendo ancora una volta una telefonata da Leon Russell, il quale lo coinvolgeva in un progetto ambizioso. L’idea di Russell era pianificare un album in cui ogni brano avrebbe goduto di un produttore diverso offrendo a Petty la possibilità di scrivere assieme al lui alcune canzoni. Lo portò a casa di Brian Wilson, gli fece conoscere Ringo Starr,  George Harrison e il  batterista Jim Keltner che in quel mentre si trovavano a L.A e poi Terry Melcher il produttore di diversi hits dei Byrds. Fu una esperienza formativa per Petty entrare in contatto e vedere all’opera simili leggende, anche se alla fine non fu accreditato di nessun brano sebbene la sua Satisfy Yourself  fu riscritta da Russell come I Wanna Satisfy You e apparve nel disco del 1976 di quest’ultimo, Wedding Album, col titolo di Satisfy You. Nello stesso tempo sebbene Dennis Cordell gli avesse messo a disposizione musicisti come Al Kooper e Jim Keltner,  le session per il nuovo disco di Petty non produssero molto se non la romantica Since You Said You Loved Me e la prima versione di Louisiana Rain entrambe contenute in Playback.  Da parte sua Benmont Tench era rimasto a L.A dopo la dissoluzione di Mudcrutch formando un suo gruppo e nel sottobosco musicale di Hollywood era rimasto anche Mike Campbell. Del giro faceva parte anche il bassista Ron Blair che telefonò al batterista Stan Lynch per proporre assieme agli altri due una session con Tom Petty.  La luce si accese, così anni dopo rivelò Petty “Benmont li aveva portati tutti lì e di colpo vidi gli Heartbreakers nascere. Quella era la mia casa”. In verità Randall Marsh, presente in quelle session, non fu incluso nella iniziale line up, al suo posto c’era Jeff Jourard presente nelle prime foto pubblicitarie del gruppo. Quest’ultimo fece in tempo a mettere la sua chitarra in alcuni brani dell’album d’esordio, come nella strepitosa Strangered in the Night e partecipare alla prima uscita di Tom Petty and Nightro al Van Nuys Recreation Center il 19 marzo 1976. Quando Cordell coniò il nome Heartbreakers  scartando Tom Petty and the King Bees la band era già in pista di decollo con Campbell, Tench, Lynch e Blair. Il nome di Tom Petty rimaneva in primo piano, sostanzialmente perché il contratto discografico era a suo nome, e lui sarebbe rimasto se la band non fosse riuscita a prendere piede. Fu reclutato il roadie Alan “Bugs” Weidel che divenne il confidente ed il braccio destro del leader. Molti dei brani dell’album d’esordio degli Heartbreakers furono registrati negli studi della Shelter fatti costruire da Cordell in un vecchio night club armeno dove l’unica vista esterna era un teatro gay porno. In quindici giorni di duro lavoro nell’estate del ’76 vennero messe a punto Fooled Again (I Don’t Like It)  negli studi della WB e Mystery Man registrata live in una sola seduta  agli A&M Studios precedentemente chiamati Charlie Chaplin Studios perché lì il regista ci girò alcuni suoi film, nelle sale della Shelter nacque invece uno dei brani più famosi della discografia di Petty ovvero American Girl, registrata nel giorno del bicentenario il 4 luglio 1976. Molti asserirono che il tema della canzone fosse il suicidio di una studentessa dell’Università della Florida, l’autore spiegò invece che più semplicemente fu scritta a proposito del traffico a ridosso  dell’appartamento in cui viveva. “Abitavo in un appartamento a Encino vicino alla freeway e le macchine passavano in continuazione. Il rumore aveva su di me l’effetto delle onde dell’oceano. Era il mio oceano, la mia Malibu dove sentivo la risacca delle onde, ma invece erano le auto che sfrecciavano. Ispirarono il testo, era il giorno del bicentenario, c’erano tante cose americane che giravano attorno, era tutto rosso, bianco e blu”.   Altro pezzo da novanta dell’album è Breakdown , cavallo dei suoi concerti, scritta al pianoforte comprato proprio in quei giorni. Confrontati ai Mudcrutch, da subito gli Heartbreakers si rivelarono più sapienti e consci delle proprie possibilità, il processo di scrittura e la registrazione furono molto più facili e naturali, le canzoni vennero fuori quasi spontaneamente, registrate per di più dal vivo. “ Eravamo molto eccitati, non avevamo paura di sperimentare qualsiasi cosa, era una gioia suonare insieme e fummo orgogliosi di quello che facemmo”.  Ancora oggi l’album Tom Petty and the Heartbreakers suona come uno dei debutti migliori nella storia del rock americano, canzoni divenute la forza delle esibizioni live nelle decadi successive come Breakdown, Anything That’s Rock and Roll, American Girl, Fooled Again, scampoli di cosmica psichedelia come in Luna, misteriose ballate come Strangered In The Night e Mystery Man  e soprattutto quella diffusa attitudine nel rinfrescare un rock a stelle e strisce che nella seconda metà degli anni settanta si stava imbolsendo.

Ad eccezione di Rockin’ Around (With You) co-scritto con Campbell, tutti i brani sono accreditati a Petty, il disco fu pubblicato il 9 novembre 1976 e ricevette ovunque recensioni positive. Billboard lo incluse nel suoi “LP raccomandati”, Breakdown entrò nella heavy rotazione della stazione radio KWST e nella classifica di Billboard,   la rivista Sounds disse che il disco incorporava il suono delle band degli anni sessanta ma rimaneva puro ed unico, Robert Hilburn sul Los Angeles Times definendolo l’album dell’anno, scrisse che “come la musica dei Rolling Stones, la musica di Tom Petty guadagnava dopo ripetuti ascolti tanto da diventare seduttiva, era la miglior dose di puro mainstream rock da parte di una band americana dai tempi di Rocks degli Areosmith”.  Tom Petty and the Heartbreakers  ancora oggi mantiene la sua solidità e non soffre il tempo, è sfaccettato come un mosaico con quei molteplici rimandi ai Beatles, agli Stones, a Eddie Cochran, alle garage band dei sixties, cantato con la passione di un vero rocker compulsivo. L’uscita permise alla band di andare in tour nella East Coast e soprattutto di apparire più volte in quell’agognato Whiskey A-Go-go fin dai tempi dei Mudcrutch. Divisero il palco con Blondie nel febbraio del 1977 e ci ritornarono per due show nell’aprile seguente, poi “aprirono” per Bob Seger al Winterland di San Francisco.  Andarono in tour per sette settimane in Inghilterra toccando anche Francia, Germania, Svezia e Olanda, paesi dove il singolo American Girl/Anything That’s Rock n’ Roll stava sbancando ma l’impressione, una volta tornati a casa, appena scesi  dall’aereo fu quella di sentirsi di nuovo delle nullità. Non era così, in California il loro nome era ormai sulla bocca di tutti ed il mondo intero li stava aspettando, bastava solo avere un po’ di pazienza. Singolare in quei giorni fu l’incontro tra Petty ed uno dei suoi miti, Roger McGuinn, il quale gli confidò di aver ascoltato American Girl ma di non ricordarsi quando l’aveva incisa. Timoroso Petty gli fece presente che “ mi spiace sir, ma veramente quella è una mia……” al ché McGuinn lo tolse dall’imbarazzo complimentandosi per la bellezza della canzone e manifestando la volontà di interpretarla”. “Grazie sir-ribatté  Petty-avete la mia benedizione”.. Di nuovo Hilburn sulle colonne del L.A Times dichiarò American Girl come il singolo rock debutto dell’anno e ciò non fece che lievitare la popolarità della band, finalmente adottata dalla scena musicale californiana. Ma l’episodio che più di ogni altro focalizza le bizzarrie di quel periodo pionieristico e chiude il cerchio, è ciò che racconta Petty nelle note annesse al box Playback : “ ero a casa a Los Angeles e fu un giorno davvero strano perché fu la prima volta che mi sentii alla radio. Stavo ascoltando KROQ e appresi che Elvis era morto, rimasi sbigottito e, potete non credere, ma KROQ non aveva a disposizione nessun disco di Presley. Inaudito. Allora per supplire alla mancanza misero sul piatto alcuni artisti che Elvis aveva ispirato e scelsero proprio me. Fui stupito ma mi sembrò assurdo che una stazione radio specializzata in new wave e punk non avesse un disco del Re del rock n’roll. Una situazione davvero surreale, la cosa più strana che mi sia mai capitata, essere il sostituto di colui che più di ogni altro mi aveva indicato a seguire un sogno……. poi a mente fredda, riflettendo mi sono detto…..beh ogni generazione ha bisogno delle proprie band”.

Mauro Zambellini