mercoledì 26 giugno 2024

JOHNNY CASH Songwriter

Registrate all’inizio del 1993 poco prima di incontrare il produttore Rick Rubin per quelle che sarebbero diventate famose come American Recordings , le undici canzoni di Songwriter  dovevano costituire un album poi accantonato perché Johnny Cash fu talmente assorbito da quella partnership musicale da proseguire una collaborazione durata per i restanti anni della sua vita. Quei demo furono registrati nei LSI Studios di Nashville e rimasero nel cassetto fino quando, trenta anni dopo, il figlio di Johnny Cash e June Carter, John Carter Cash li ha scoperti e col produttore David “Fergie”Ferguson ha isolato la voce e la chitarra acustica dell’autore per poi darne nuova vita, aggiungendovi parti strumentali con musicisti che avevano già suonato col padre. Nella Cabin di Hendersonville nel Tennessee dove Johnny Cash  era solito scrivere, registrare e rilassarsi, il figlio John Carter, chitarrista e co-produttore del progetto, con l’aiuto del fidato tecnico di studio del padre, David Ferguson e l’altro tecnico Trey Call hanno ridotto gli originali alla sola voce e chitarra  e plasmato quel materiale grazie agli interventi del chitarrista Marty Stuart, del bassista Dave Roe ed il batterista Pete Abbott. Il risultato raggiunto è prodigioso, rispettare il sound dell’epoca con un approccio di misura e di eleganza, un sottile lavoro di interventi calibrati che preserva il cuore delle canzoni proiettandole in un contesto moderno. Fondamentale il ruolo di Ferguson, probabilmente una delle persone che sapeva meglio cosa piaceva a Johnny Cash, ingegnere del suono dello studio di Jack Clement dove Cash amava registrare e con cui aveva lavorato nella maggior parte degli album per la Mercury e per le American Recordings, e grazie all’aiuto del quale sono stati selezionati i musicisti protagonisti di Songwriter,  album che permette di recuperare canzoni che mostrano l’ampiezza della scrittura di Cash secondo una veste che suona come se l’artista l’avesse registrato oggi. Il chitarrista Marty Stuart che suonò con Johnny nei Tennessee Three negli anni ottanta, ed il bassista Dave Roe in tour con l’artista nella decade successiva ed il batterista Pete Abbott già con la Average White Band, sono il nocciolo  strumentale dell’operazione a cui si sono aggiunti Matt Combs (chitarra acustica e mandolino), Mike Rojas (Hammond B3 e pianoforte), Russ Pahl (chitarra, basso, dobro e steel), Sam Bacco (percussioni), Ana Cristina Cash (cori) e altri invitati tra cui Dan Auerbach , Harry Stinson, Vince Gill e Waylon Jennings la cui voce è stata salvata dalle originali session di I Love You Tonite e Like a Soldier. “Nell’approccio siamo andati dritti alle radici, per quanto riguarda il suono, e abbiamo cercato di non esaltarlo eccessivamente, afferma John Carter Cash -  l’abbiamo costruito come se papà fosse nella stanza. Fergie e io abbiamo trascorso migliaia di ore con papà nello studio di registrazione e quindi abbiamo cercato di comportarci come se fosse lì”. “Conosco John Carter da quando era un ragazzo, aggiunge Ferguson- quindi è stato fantastico poter  lavorare con lui. Mi ha lasciato molta libertà d'azione, soprattutto in termini di groove e cose del genere. Siamo andati proprio nella stessa direzione. Non c’è mai stata una conversazione o un piano su un prodotto finale, si è semplicemente trattato di fare del nostro meglio”.

Quelle di Songwriter  sono undici canzoni che parlano d’amore, dolore, bellezza, famiglia, salvezza spirituale, lotte personali e redenzione con quella profondità vocale e compositiva e quella lucidità che hanno reso Johnny Cash una leggenda, con l’aggiunta di un pizzico di spensierato umorismo. Undici gemme di saggezza, tormento e passione a cominciare dalla stupenda Hello Out There, afflato vocale gospel trasformato in una visionaria dimensione  cosmic-country  dal magnifico riff di Marty Stuart e dalla dilatata steel di Russ Pahl, un messaggio di salvezza che l’autore aveva registrato poco prima della collaborazione con gli U2 per The Wanderer. Non da meno è la seguente Spotlight, canzone sulla perdita di un’amore impreziosita dalla chitarra bluesy di Dan Auerbach, dalle percussioni di Sam Bacco, con l’ arrangiamento d’archi di Matt Combs che accompagna l’inconfondibile voce di Cash, una vera radiografia dell’anima. Drive On come Like a Soldier  facevano parte del primo capitolo delle American Recordings, la prima risplende nel lavoro di 4 chitarre in contemporanea (Stuart, John Carter Cash, Wesley Orbison, Russ Pahl) e parla delle difficoltà sopportate dai veterani di guerra del Vietnam comunicando attraverso un sound rarefatto tutto quel dramma, la seconda tratta invece della lotta di Cash contro la dipendenza. Scritta dopo un periodo in un centro di recupero si muove su una linea country-folk con la voce di Cash che sembra cercare una rinascita accompagnato dall’amico Waylon Jennings, uno degli outlaw della country music.

Due toccanti canzoni d’amore, entrambe dedicate alla compagna della sua vita June Carter deceduta tre mesi prima della sua scomparsa nel 2003 ritraggono un Cash accorato, signorile nel condensare in poche note e parole, con pacata discrezione, un estratto di storia personale sua e della famiglia. I Love You Tonite è una commovente lettera d’amore scritta alla moglie nel 1991 mentre Poor Valley Girl  parla sia di June che di sua madre Maybelle Carter e lo fa coi modi tipici del country più asciutto e domestico, col tocco raffinato del dobro di Russ Pahli , il contrabbasso di Dave Roe ed il contributo vocale di Vince Gill. Sulla stessa falsariga Soldier Boy è un estratto di arte della semplicità, rappresentazione di una voce universale che all’epoca in cui questi demo furono realizzati era piuttosto ignorata. Cash si trovava in una fase di pausa della sua carriera, non aveva ottenuto quello che gli era dovuto seppure avesse firmato un pezzo di storia musicale a stelle e strisce, solo le American Recordings  riporteranno la giusta e meritata attenzione sulla sua opera. A maggior ragione Songwriter, dal punto di vista lirico,  è album imprescindibile di un artista colto in un momento particolare della sua vita, con canzoni per la maggior parte inedite, “rivestite” a nuovo con l’intento di portare nuove persone a scoprire e approfondire la conoscenza di un artista tanto importante. Un autore che in Have You Ever Been To Little Rock  esprime l’orgoglio per la sua terra natale su una bellissima melodia tradizionale, mentre il tema della dolcissima  She Sang Sweet Baby James  ruota attorno ad una giovane madre single che canta Sweet Baby James di James Taylor per confortare il suo bambino. Johnny era un fan di Taylor sin da quando quest’ultimo si esibì nella prima stagione del "Johnny Cash Show" nel 1971. Se Well Alright  attraverso il ritmo sardonico del classico boom chicka boom  propone con umorismo l’incontro casuale tra una lei ed un lui in una lavanderia a gettoni, Sing It Pretty Sue estratta dall’antico booksongs di Cash è la confessione di un fan che abbandonerà ogni pretesa e non dirà a nessuno del loro incontro riguardo a  lei che ha rinunciato a tutto per una carriera affascinante ed essere una star di proprietà pubblica. Chitarre acustiche ed elettriche, sezione ritmica in punta di piedi per non privare la scarna poesia degli originali, sfumature e dettagli centellinati ad arte, lap steel e contrabbasso, melodie che pulsano di amore e sofferta esistenza, Songwriter  presenta undici canzoni di rara bellezza ancora più accattivanti con questo ritocco sonoro, il giusto riconoscimento ad uno dei grandi autori, narratori e cantanti della musica popolare americana, degno di sedere a fianco di Woody Guthrie, Hank Williams, Muddy Waters,  Bob Dylan.

Songwriter  è disponibile nella versione singolo CD con gli undici titoli citati e nella versione doppio CD con altri titoli noti del suo repertorio e brani ri-registrati negli anni ottanta.

MAURO  ZAMBELLINI     GIUGNO 2024

p.s  dedicata a Paolo Carù grande fan dell’uomo in nero.

 

 

 

 

 

lunedì 17 giugno 2024

In memory of Richard Forrest Betts


 

 

Per tutti coloro che hanno amato la Allman Brothers Band ed in generale il rock americano, la scomparsa di Richard Forrest Betts, nato il 12 dicembre 1943 a West Palm Beach in Florida, lascia un vuoto incolmabile anche se ad onore del vero Dickey era uscito di scena qualche anno fa, da quando nel 2018 era stato curato per una lesione cerebrale conseguente ad una caduta e a causa di un ictus aveva dovuto annullare un tour. E’ morto a 80 anni nella sua casa di Osprey nelle vicinanze di Sarasota in Florida, il suo manager David Spero ha affermato che Betts era malato di cancro e di una malattia polmonare cronica ostruttiva. Personaggio difficile ma chitarrista mostruoso che suonava con sicurezza e creatività in uno stile unico e riconoscibile con un fraseggio melodico dove confluivano country, blues e jazz, Betts in gioventù aveva cominciato con l’ukulele per poi passare al mandolino e banjo nel road show famigliare denominato World of Wonder. Optò per la chitarra elettrica per far colpo sulle ragazze e all’età di 16 anni lasciò la famiglia per unirsi a degli adolescenti che lavoravano in un circo itinerante. Facevano una decina di spettacoli al giorno in una sorta di vaudeville e per Betts fu un modo di sentirsi parte di un gruppo, ma man mano che la sua reputazione musicale cresceva anche il suo lato selvaggio ne traeva vigore. Quando venne assunto da una band dell’Ohio, i Jokers, per uscire dallo stato natale ebbe bisogno del permesso del giudice perché era stato messo in libertà vigilata dopo aver scavalcato la recinzione di un vicino e sparato ad una mucca. Con il bassista Berry Oakley, il tastierista Reese Wynans e la moglie Dale diede vita ai Blues Messengers che il proprietario dello Scene Club di Jacksonville, dove divennero la residency band, ribattezzò Second Coming perché a suo dire Berry Oakley assomigliava a Gesù Cristo e quel nome presupponeva un secondo avvento. Le influenze musicali di Betts sono state varie e diverse fin dagli inizi, se il primo approccio riguardava il bluegrass e l’hillbilly dei Monti Appalachi nel tipico retaggio famigliare, poi arrivò la passione per il rock n’roll di Chuck Berry e soprattutto il blues di B.B King e Albert King, ma amava anche il gypsy jazz di Django Reinhardt ed il folksy sound psichedelico dei Grateful Dead. Un background che assorbì senza porsi mai limitazioni di genere, possedeva un orecchio incredibile ed il suo tocco poteva trasformare in un istante una melodia gentile in un fuoco aggressivo. I suoi riconoscibili morbidi e melodici assoli di chitarra, valga l’esempio di In Memory of Elizabeth Reed e High Falls, sapevano dipingere in note gli armoniosi paesaggi del suo Sud, quel saliscendi di colline irrorate dal profumo delle magnolie che divennero un segno distintivo del suo stile, specie dopo la morte di Duane Allman quando si trovò ad essere l’unico chitarrista della Allman Brothers Band, una svolta country-rock squisitamente espressa da titoli come Ramblin’ Man e Jessica e da un album leggendario come Brothers and Sisters. Elogiato in veste di chitarrista, Betts è altrettanto indimenticabile come autore e cantante. Le sue prime composizioni per la ABB risalgono al secondo album, Idlewild South (1970) dove firmò la monumentale In Memory of Elizabeth Reed divenuta nel tempo emblema del fluido e torrenziale melting della band negli show dal vivo, sintesi di quel geniale mescolamento jam che offriva a ciascun musicista la possibilità di divagare ed improvvisare secondo un’attitudine jazzistica che traeva spunto dai dischi di Miles Davis e John Coltrane, e Revival, una canzone gioiosa e ritmata introdotta da una sei corde acustica, la cui linea melodica ricorda Jesus is Just Alright dei Byrds ed il cui finale si dilata fino a rammentare Love the One You’re With di Stephen Stills. Il debutto nel ruolo di cantante solista nella ABB avvenne con il dolce e melodico country&western Blue Sky, assieme all’incantevole numero acustico Little Martha ultimo brano a presentare la splendida armonizzazione di chitarre di Betts e Duane Allman in coppia. Dedicata alla moglie di allora, una ragazza indiana di nome Wabegijig che significa “cielo azzurro”, Betts chiese a Gregg Allman di interpretarla ma fu il produttore Tom Dowd a convincere Betts nel cantarla lui stesso. Con le sue morbide linee, quella canzone prefigura una pastorale cavalcata tra i bucolici paesaggi del Sud-Est degli Stati Uniti con una sequenza di frasi chitarristiche  che i due maestri sembrano eseguire rilassati e senza alcun sforzo, Duane rendendo il suono simile a quello di una pedal steel proiettandosi in uno degli assoli più tenui e delicati della sua carriera, mentre Betts regge una salda linea melodica con meravigliosi turbinii di note. La si trova sul doppio album Eat a Peach (1972) e non è l’unica sua composizione di quel disco: il lungo strumentale Les Brers In A Minor , titolo che in francese cajun significa “fratelli in La minore”, anticipa i cambiamenti in atto nella ABB seguiti alla scomparsa di Duane con un andamento cinematico dettato dalla scioltezza esecutiva di accento jazz di Betts, dal calibrato uso dell’organo da parte di Gregg, dal potente basso di Oakley usato come una seconda chitarra solista e da strati e strati di percussioni in una poderosa ma fluida sequenza sonora. Ma è con Brothers and Sisters che Dickey Betts sale in cattedra affiancando Gregg nella scrittura delle canzoni, assumendo il ruolo di condottiero della band, seppure in parte riluttante, in un momento di sbandamento e di incertezze per le morti improvvise (dopo Duane quella di Oakley)tanto che la stessa Atlantic non sembrò, a torto, credere al loro futuro. I concerti del periodo immediatamente post-Duane non furono tutti esaltanti e si può capirne la ragione ma ancora prima dell’entrata in scena di Chuck Leavell e del bassista Lamar Williams, Betts con l’orgoglio tipico del southern man si rimboccò le maniche, imparò a suonare la slide in quello che prima era compito del solo Duane e creò una valida alternativa a Gregg nel cantare. Responsabile la dipendenza all’eroina di Gregg, assunse il ruolo di leader e trainò la band verso una nuova stagione. Se ne ha dimostrazione nel concerto del 7 aprile 1972 alla Manfield House della Syracuse University (disco recensito su Buscadero n.474) dove nella anomala line up a cinque, la ABB interpreta un’altra parte della propria storia con una sontuosa e commovente performance nella quale Betts si erge mattatore, Oakley tuona con un basso dal drive forsennato e Gregg con la sua voce trasforma il dolore in gioia.



In Brothers and Sisters sono quattro i brani firmati da Betts che sottolineano il naturale spostamento verso un originale sound country-rock per una band che da doppia sezione ritmica e due chitarre si tramutava in una band con doppia sezione ritmica e due tastiere complementari, il pianoforte di Leavell e l’organo di Gregg. La cavalcata country-blues di Pony Boy scritta e cantata da Betts con l’umore  tipico delle liriche di Willie McTell racconta la tradizione famigliare di uno zio bevitore che cavalcava un cavallo verso casa da una taverna per evitare il controllo delle forze dell’ordine sulla guida in stato di ubriachezza, mentre la scoppiettante Ramblin’ Man cantata con voce schietta dallo stesso chitarrista, inizialmente considerata troppo country dal resto del gruppo, divenne un hit nella top 10 di Billboard narrando della voglia di viaggiare di un uomo "nato sul sedile posteriore di un autobus Greyhound che percorre l'autostrada 41".  La muscolosa Southbound cantata da Gregg ma scritta da Betts  dava modo al nuovo arrivato Chuck Leavell di dimostrare quanto poteva arricchire l’alchimia sonora della band, mentre l’interplay tra pianoforte e chitarra solista raggiungeva l’apoteosi nello strumentale Jessica dedicata alla figlia.

La storia è nota, un processo a carico del roadie Scooter Herring per traffico di stupefacenti e collusione con la Mafia Dixie, il patteggiamento e la deposizione di Gregg nello stesso processo per evitare il carcere, quintali di droga, liti, risse e matrimoni consumati come sigarette mandano in tilt una band che fino a poco tempo prima era sinonimo di comune, se non addirittura di famiglia. Esemplare la descrizione di Phil Walden, il creatore della Capricorn Records: “a quel punto eravamo tenuti insieme con lo spago, tutti conducevano una vita a dir poco sregolata, spendendo soldi come se non ci fosse un domani, ognuno aveva la propria suite d’albergo e la propria limousine, assumendo  quantità di stupefacenti a dir poco prodigiose, consumando in una sera tanto alcol quanto ne consumava l’intera clientela di un bar ben frequentato in un fine settimana”. Una sera Betts ubriaco demolì i locali della Capricorn rivoltando scrivanie e sbattendo a terra i dischi d’oro appesi alle pareti, la moglie Sandy altrimenti detta blue sky divenne vittima di pesanti maltrattamenti e chiese il divorzio, il marito accettò di pagare alla moglie un indennizzo di 56 mila dollari. La situazione andò fuori controllo ma prima dello scioglimento del 1976 ci fu ancora tempo per ottima musica. A detta del produttore Johnny Sandlin la realizzazione di Win, Lose or Draw fu uno dei compiti più ardui della sua carriera, le tensioni e le divisioni all’interno della ABB erano al massimo, Gregg  stava costantemente a Los Angeles a consumare la sua burrascosa love story con Cher, le assenze erano in numero maggiore delle presenze, gli unici a suonare sempre insieme in studio erano Leavell, Jaimoe e Williams, ognuno registrava separatamente i propri assolo, fu un miracolo che quell’album uscì. Vituperato in maniera eccessiva dalla critica, in Win, Lose or Draw c’è a mio modo di vedere uno dei numeri più brillanti del Betts musicista: High Falls. Quindici minuti e oltre di armonioso e liquido jazz-blues con un inizio etereo e sognante dove Betts si dileggia in una delle sue dolci e liriche geometrie tanto da evocare paesaggi country pur facendo presagire uno stile “fusion”. 



L’album fu pubblicato nel 1975 un anno prima di Highway Call, primo disco di Betts a suo nome e meraviglioso affondo nella musica delle sue origini, il bluegrass, con il virtuoso di violino Vassar Clements, il suonatore di pedal steel di Conway Twitty John Hughey, il chitarrista Tommy Talton, il gruppo bluegrass dei Poindexters e quello gospel dei Rambos, oltre a Chuck Leavell e ad una sezione ritmica. Niente zucchero e sviolinate Nashville ma jam e libere improvvisazioni in nome di un progressive country con una attitudine tesa a scompaginare le regole del genere in un mix di ballate, western swing, strumenti tradizionali ed elettrici. Il senso di una musica solare e corale, sullo sfondo di una festa agreste tra le boschive pendici dei monti Appalachi, canzoni che riconoscevano il desiderio di una vita rurale più semplice, forse un riflesso della tensione negli incessanti tour della ABB. Non fu l’unica  sua iniziativa solista nel periodo “ognuno per la sua strada” della ABB, nel tentativo di racimolare denaro causa i debiti per il divorzio da Sandy e grazie agli anticipi della Arista si inventò una copia dei Brothers assoldando due batteristi, il valente chitarrista “Dangerous” Dan Toler, il bassista Ken Tibbets ed il tastierista Tom Broome per formare i Great Southern. Un primo album firmato Dickey Betts and The Great Southern (1977) 


rappresenta il caldo viaggio tra bouganiville, palme, distese marine all’insegna di un sinuoso blues dettato dal suo raffinato stile chitarristico, un secondo lavoro col titolo di Atlanta’s Burning Down (1978)con “Rook” Goldflies al basso ed il fratello di Dan Toler, David alle percussioni, nonostante la presenza della cantante Bonnie Bramlett e del tastierista Reese Wynans, indurisce un po’ la materia ma  sconta il modo in cui fu prodotto ed inserite le parti vocali. Fu un flop ma col senno di poi è meno peggio di quanto sembrò all’epoca, quando il fantasma della ABB continuava ad aleggiare sulle scelte fatte dai singoli membri, Gregg con Laid Back ed il tour con l’orchestra, gli altri con i Sea Level. Risposatosi con un’ amica di Cher, Paulette e risolti momentaneamente i suoi problemi grazie alla frequentazione degli Alcolisti Anonimi, Betts si riconcilia con Gregg dopo che alla rivista Rolling Stone, a seguito della deposizione dell’Allman contro Scooter Herring, aveva confidato di non volere mai più salire sul palco con lui. Si porta appresso dai Great Southern, Dan Toler e David Goldflies e nel novembre del 1978 la ABB si ricompone attorno a Gregg e Dickey con Butch Trucks, Jaimoe e i due nuovi arrivati. Enlightened Rogues fa ben sperare e Dickey Betts ne è protagonista firmando cinque canzoni su sette, tra cui Blind Love con l’amico e attore Don Johnson ma la resurrezione dura poco, due album mediocri se non pessimi come Reach For The Sky e Brothers of The Road segnano la fine della prima era della ABB. Corrispose all’arrivo degli anni ottanti dove tutto cambiò: trend musicali, look, suoni e marketing. Con il debutto del compact disc sul mercato, una sempre maggiore diffusione di sintetizzatori digitali e batterie elettroniche oltre ai campionamenti, aveva stravolto le modalità di registrazione della musica, il synth-pop sostituì le chitarre, fu un periodo duro per i musicisti vecchio stampo. Il Southern rock aveva assunto un significato dispregiativo, divenne un marchio che andava stretto all’ufficialità del rock, e scomodo per il business che ormai non ne voleva più saperne di stivali, cowboy, capelli lunghi e jam chilometriche. Con Mtv, l’ art department poteva svoltare la carriera di un artista, la cultura visuale della popular music cambiò radicalmente da un giorno all’altro. Gregg Allman fu costretto a mettersi alla ricerca di serate nei bar per tirare a campare, barcamenandosi in situazioni quantomeno approssimative suonando davanti a veterani e vecchi hippie, Dickey Betts mise insieme i BHLT con Leavell, Trucks e Jimmy Hall di Wet Willie  esibendosi nei night-club, si proposero per registrare un album ma trovarono porte chiuse ovunque. Alla fine Gregg assemblò una piccola band coi fratelli Toler e grazie al vecchio manager della ABB Willie Perkins allestì un tour nel Nord-Est degli Stati Uniti e per economizzare sui costi unì le forze col vecchio amico Dickey nel Double Bill Tour ovvero prima suona uno, poi l’altro e alla fine jam insieme. I biglietti si volatizzarono in un attimo a dimostrazione che molti fans non li avevano dimenticati e quello fu un prologo della reunion. Nel 1987, a sorpresa, Gregg riuscì a pubblicare un album I’m No Angel che diventò disco d’oro mentre Dickey Betts dopo continui cambiamenti d’organico, ridefinì la sua band ingaggiando il talentoso emergente chitarrista Warren Haynes ed il tastierista Johnny Neel che andarono ad aggiungersi a Matty Privette e al batterista  Matt Abts, il quale tempo dopo sarebbe finito nei Gov’t Mule. 


Nello studio Pegasus di Butch Trucks a Tallahassee, ospite del disco, come Dickey Betts Band registrarono Pattern Disruptive, un solido e dignitosissimo compendio di rock, blues e country. Ma fu la pubblicazione nel 1989 di uno dei primi box in CD, Dreams con cui si ricapitolava la storia della ABB, e la nascita di un nuovo format radiofonico, il classic rock, a favorire la resurrezione degli Allman. Per quegli strani corsi e ricorsi della storia le radio americane avevano avviato un parziale cambio di direzione rispolverando la musica di un tempo riproposta con rinnovato entusiasmo, il blues riappariva in scena grazie a Steve Ray Vaughan, Fabulous Thunderbirds, Robert Cray, e Rolling Stones e Who tornarono on the road coi loro show. La Allman Brothers Band li seguì andando in tour ancora prima di pubblicare il nuovo disco con la Arista. Di nuovo Gregg, Dickey, Jaimoe e Trucks si trovarono a fianco l’uno dell’altro, con le aggiunte di Warren Haynes e Johnny Neel sopraggiunti dalle session di Pattern Disruptive, e del bassista Allen Woody transfugo dal gruppo del batterista dei Lynyrd Skynyrd Artimus Pyle. Dopo che gli Allman si ricomposero, molti giornalisti scrissero di un ritorno dei dinosauri, chiedendosi se fossero ancora in grado di fare buona musica, la cosa non fece che dare più spinta e determinazione a Dickey, Gregg e compagni che sul campo risposero con ottimi dischi(a cominciare da Seven Turns del 1990), e grandi tour rilanciando una epopea che li avrebbe portati fino al concerto d’addio al Beacon Theatre di New York nel 2014. Seven Turns fu un cambio di rotta rispetto alle scialbe prove con la Arista, le chitarre di Haynes e Betts resuscitarono il classico sound della ABB e Gregg riacquistò carisma pur essendo ancora in lotta con la dipendenza. Riassunsero il produttore di At Fillmore East,  Tom Dowd il quale fu decisivo per un album importante nella ricostruzione di un rapporto umano e artistico tra i due leader, e Betts si ritrovò di fianco un chitarrista, Haynes, di grande tecnica che lo poteva liberare nei suoi assoli senza che avesse l’impegno della slide. Sette canzoni su nove sono scritte da Betts con le parti vocali distribuite tra lui, Johnny Neel, Haynes e Gregg. Tra le cose migliori spiccano Good Clean Fun, lo strumentale True Gravity una poderosa escursione sui sentieri del jazz con Ornette Coleman nella mente, altro amore di Betts, e la canzone che dà il titolo album dove Dickey ricrea l’atmosfera di Blue Sky attraverso un delicato arpeggio di chitarra acustica prima di immergersi in una vera e propria ballata. I seguenti Shades of Two Worlds (1991) e Where It All Begins (1994)convalidano la sinergia esistente tra Betts e Haynes e quest’ultimo acquista peso nella composizione in titoli come End of The Line, Kind of Bird e Soulshine ma il vecchio timoniere ha ancora colpi in canna e basta Nobody Knows per far capire quanto il suo ruolo sia stato fondamentale nell’intera storia della ABB, coniando con il suo stile un sound che quando di lì a poco sarà allontanato dalla truppa, non sarà più lo stesso. Nel 1995 la ABB fu inserita nella Rock and Roll Hall of Fame ma Gregg era troppo ubriaco per fare il discorso di accettazione, fu il passo decisivo per dare un taglio a tutto, comprese le sigarette, e ripulirsi. Introdotti da Willie Nelson, Betts si cimentò in un esplosivo assolo nell’esecuzione di One Way Out ma poi, imperterrito continuò nella sua dieta a base di alcol e complice il suo atteggiamento dispotico assunse un comportamento molesto nel confronto degli altri compagni. Spesso se ne stava in disparte, raggiungendo sbrigativamente l’albergo a fine dello show, venne arrestato e tradotto in cella nello stato di New York per resistenza a pubblico ufficiale e turbamento dell’ordine pubblico a seguito di un violento alterco con la sua quinta moglie Donna. Sul palco si limitava ai suoi assoli e appariva svagato ed insofferente, era diventato aggressivo e pericoloso, in Oregon prese a pugni Allen Woody e quando Haynes si allontanò temporaneamente dalla scialuppa per andare a formare i Gov’t Mule, il sostituto Jack Pearson, già sofferente di acufeni, fu sottoposto agli esagerati decibel imposti da Betts così da abbandonare la band. L’innesto di Derek Trucks diede entusiasmo a Betts, contento di trovarsi un giovane a fianco ma quando Trucks si cimentava nel suo assolo, si metteva in disparte osservandolo come un falco. Continuava ad ingurgitare ettolitri di birra e spesso farfugliava sulle canzoni suonando ad un volume incredibile, alla fine gli altri lo invitarono a staccare momentaneamente la spina per una cura disintossicante. Avrebbero suonato senza di lui per qualche mese ma le cose non si sistemarono affatto, Betts continuò ad accusare Gregg di averlo licenziato con una telefonata, alla fine fu lui stesso a lasciare i Brothers e la diatriba finì in un arbitrato davanti ad un mediatore per i diritti delle canzoni ed il merchandising. Betts era stato uno dei fondatori della ABB, oltre che una pedina fondamentale per il loro particolare stile rock-blues, il cowboy che in tante occasioni aveva guidato la carovana e risollevato la baracca dopo la morte di Duane ma il suo nome non era mai comparso in quello della band che faceva riferimento solo ai fratelli Allman, e ciò lo indispettiva. Non stette a leccarsi le ferite per tanto tempo, nel giro di un anno aveva già messo in cantiere un gruppo con tanto di sassofonista ed inciso il traboccante Let’s Get Together



un bel album con parecchi riferimenti al be-bop e qualche brano, Rave On e One Stop Be Bop, che i Brothers avevano suonato negli anni precedenti dal vivo ma poi lasciato da parte. Riformò i Great Southern con un manipolo di bravi musicisti tra cui la cantante Twinkle e soprattutto il figlio Duane, degno continuatore di una lezione musicale ed uno stile chitarristico da salvaguardare nel tempo, come dimostra l’eccelso suo album Wild & Precious Life del 2023. Il brillante The Official Bootleg riporta estratti del tour nord-americano di Betts coi Great Southern del 2006 dove trovano posto tutti i classici del suo songbook, da High Falls a Blue Sky, da Seven Turns a Elizabeth Reed, da Southbound a Jessica e Ramblin’ Man mentre per la serie Rockpalast i Great Southern con in squadra Duane Betts e l’altro chitarrista di scuola allmaniana, Andy Aledort, li troviamo nel 2008 in un set altrettanto incandescente. Purtroppo i vecchi rancori con Gregg Allman non consentiranno una reunion con la ABB, Betts ritornò a suonare a New York nell’intima Concert Hall a pochi isolati dal Beacon Theatre nel 2014, ma sebbene invitato non prese parte al concerto d’addio della Allman Brothers Band nell’ottobre dello stesso anno. Insieme a suo figlio Duane, partecipò sabato 3 giugno 2017 a Macon al funerale di Gregg Allman alla Snow's Memorial Chapel, sepolto vicino al fratello maggiore Duane e al compagno di band Berry Oakley nello stesso cimitero di Rose Hill a Macon dove erano soliti scrivere canzoni tra le lapidi, non lontano da quella US Highway 41 cantata da Dickey in Ramblin' Man. L’ottantesimo compleanno di Richard Forrest Betts coincise con uno spettacolo alla Van Wezel Performing Arts Hall di Sarasota dove Dickey viveva con la quinta moglie Donna, ed in quella occasione Devon Allman, figlio di Gregg, e Duane Betts unirono le loro chitarre.  Dopo la morte del padre, Duane ha affermato. “Sono così grato di aver avuto un padre come lui, è sempre stato il mio eroe, il mio mentore e il mio chitarrista preferito al mondo. Voglio ringraziare tutti voi che avete inviato messaggi, pregato e trasmesso buona energia alla mia famiglia e a lui."

Per tutti noi che abbiamo amato le gesta della Allman Brothers Band, Dickey Betts rimane un faro acceso che non si spegnerà mai.

 

MAURO  ZAMBELLINI    MAGGIO 2024

 

 

 

 

 

martedì 19 marzo 2024

JJ GREY & MOFRO Olustee


 

Cambio di formazione rispetto all’album precedente Ol’ Glory di cinque anni fa, dei vecchi Mofro sono rimasti il bassista Todd Smallie e i due trombettisti Marcus Parsley e Dennis Marion, l’unico sassofono ed il flauto sono ora in mano a Kenny Hamilton, c’è una terza tromba, John Reid, il chitarrista è Pete Winders, il tastierista Eric Brigmond e la sezione ritmica è composta dal batterista Craig Barnett e dal percussionista Eric Mason. Un nutrito cast di voci, il fagotto, il fadolin (uno strumento a sei corde usato come un violino ma capace di creare anche i suoni di una viola ed un violoncello) ed un trombone completano la big band, a cui si aggiunge in un paio di brani l’Orchestra Sinfonica di Budapest.



Come si evince dallo schieramento in campo, l’album presenta una diversa complessità rispetto ai precedenti lavori e lo si nota subito con l’iniziale The Sea un’ode all’amato oceano, lenta e melodica dove l’orchestra ne sottolinea il clima di tranquillità, accompagnata dal pianoforte e dalla chitarra acustica. Il verso io appartengo al mare/casa dei liberi svela il profondo coinvolgimento dell’autore in simile contesto. Di tutt’altra pasta la seguente Top of the world, le coriste rispondono alla chiamata di JJ Grey mentre la sezione fiati imbandisce un banchetto di musica New Orleans. Se sei venuto per cambiare il mondo, lascia che ti mostri la porta-canta JJ Grey e il brano si trasforma in una musica festosa e contagiosa, prima che la seguente On a breeze rallenti il ritmo pur mantenendo  intatta la carica di speranza in oh my love, che tu possa vedere cieli sereni e tutto ciò che meriti. Con Olustee ritroviamo il JJ Grey del passato in una storia che evoca i tragici incendi che hanno devastato sette contee della Florida settentrionale nel giugno 1998 provocati dai fulmini sulle campagne aride. Il brano è forte e duro, il lungo devastante assolo di chitarra elettrica dà la sensazione del pericolo e del fuoco che incalza, una esortazione a correre più forte per scampare la morte. L’incendio costrinse a chiudere 135 miglia della highway 95 che collega Jacksonville e Titusville e sospendere l’annuale competizione del Daytona International Raceway. L’alternanza di R&B e ballate trova conferma in Seminole Wind, cover di John Anderson, un grido per la preservazione delle Everglades : il progresso è arrivato e ha voluto il suo prezzo, ed in nome del controllo delle inondazioni hanno fatto piani per prosciugare la terra, ora le radure si stanno inaridendo. Il soul-rock ecologico di JJ Grey prende la piega di una ballata con le trombe al centro della canzone ed un crescendo corale che racchiude tutto il dolore dell’uomo delle paludi nel veder compromessa la ricchezza del territorio dove lui, la sua famiglia, gli amici e la comunità sono vissuti in equilibrio con la natura. Il rhythm and blues di casa Stax si fa strada prorompente in Wonderland, coriste all’attacco e ritmo che incalza con tutta la sezione fiati alle spalle, mentre la seguente Starry Night come da copione allenta la tensione elettrica dando spazio agli arrangiamenti d’archi e all’abbraccio di un canto d’amore che si conclude con la sezione fiati in avanscoperta. Free High è energia allo stato puro, stacchi, urla, schiamazzi gioiosi, Sly and Family Stone sugli scudi ed un arrembante voglia di far casino con tutto quanto di meglio l’epoca d’oro del soul e R&B ha lasciato dietro di se. Ancora soul ma lento e appassionato in Waiting dove l’autore confida non sono mai stato ciò che potevo essere, e so che non è mai stata colpa di nessuno se non mia, mentre in Rooster canta la donna è l’anima di un uomo, riesce a tenere tutto insieme quando tu non puoi, lei è la fonte da cui sgorgo, mi insegna molte cose che non faccio, ma io sono un gallo e questo è un dato di fatto, quindi sai come mi comporterò. E non poteva che essere un funky sincopato e nerissimo, dal ritmo dance ad accompagnare tale affermazione di presunta virilità, per poi abbandonarsi alla circospetta riflessione di Deeper than relief, melodia fin troppo accorata e sinfonica con flauto e archi protagonisti, per i modi schietti di JJ Grey e la sua band. Suona come la chiusura del cerchio e si ricongiunge con la romantica, iniziale The Sea. Accantonati gli aspetti più strettamente blues della sua musica, con Olustee  JJ Grey & Mofro ci offrono una dimostrazione di quanto il rock o presunto tale sia ancora credibile quando parla di preoccupazioni e sensibilità, un anima inquieta in canzoni ricche di sentimento per la vita e l’ambiente con un sound che appartiene di diritto alla tradizione southern.

 

MAURO ZAMBELLINI      MARZO 2024

p.s articolo retrospettivo su JJ Grey& Mofro su Buscadero di aprile

lunedì 4 marzo 2024

THE BLACK CROWES HAPPINESS BASTARDS



Hanno riavvolto il nastro i Black Crowes e sono ritornati alla linea di partenza. Dopo anni ognuno per la sua strada, Chris e Rich Robinson dal 2019 hanno ricominciato a parlarsi e a fare musica insieme, prima sfruttando la ristampa del loro album d’esordio Shake Your Money Maker  per allestire un tour che li ha visti esibirsi in venti paesi per un totale di 150 show, a cui è seguito un disco live, e adesso mettendo in circolazione il decimo album della loro discografia, dopo quindici anni dal loro ultimo lavoro con brani originali. Happiness Bastards  lo spavaldo titolo con cui si ripresentano è un chiaro e rinfrescante ritorno ai suoni e al vigore degli esordi, un tuffo nel più quintessenziale schietto e viscerale rock n’roll tinteggiato con una buona dose di rhythm and blues. In un periodo in cui questa musica sembra messa alle strette dalle nuove ondate tecnologiche e pop, loro e gli Stones con le recenti registrazioni tengono in vita una idea antica ma ancora in grado di ossigenare sangue e menti di molti ascoltatori, ribellandosi ai destini segnati da trend più importanti per i meccanismi e i calcoli aziendali che per il benessere delle masse. Ammesso che queste siano disposte a lasciarsi contagiare da un classicismo che stando alle cifre di vendita di Hackney Diamonds  miete ancora proseliti. D’altra parte come diceva un rocker tutto di un pezzo, Tom Petty “c’erano ideali in quella musica degli anni cinquanta e sessanta e voglio vedere quegli ideali rimanere intatti”. Scarno, asciutto e diretto, Happiness Bastards  è la lettera d’amore dei Black Crowes al rock n’roll, un concentrato di ingredienti atti a svegliare gli animi intorpiditi di rockers pronti per un ultimo ballo. Inossidabili i Corvi Neri non paiono avere paura del tempo, fanno urlare le chitarre, soffiano il blues in un’armonica che non è un semplice strumento ma la reliquia lasciata dal Grande Fiume, scatenano un ritmo a palla dietro l’inconfondibile voce del leader, lo sciamano che implora una urgente sometimes salvation e ad ogni ascolto fa salire la febbre. E quando chiudono un album come Happiness Bastards  suonato senza mai toccare il freno, con una ballata del calibro di Kindred Friend  allora ti accorgi che il cuore ed il sentimento sono ancora lì, in chi non ha ancora svenduto il proprio guardaroba anni settanta, musica fatta di riff brucianti, organi di Chiesa, voci rapite dall’esaltazione del momento. Pazienza se non ci sono più le galoppate psichedeliche di Marc Ford e album visionari come Amorica  e Three Snakes and One Charm, anche le atmosfere bucoliche care a The Band di Before The Frost…Until The Freeze…..,  sono accantonate salvo qualche rara ballata, ciò che i Black Crowes offrono nel nuovo album è quel gagliardo, maleducato, sensuale approccio con cui negli anni novanta si fecero spazio nell’affollato panorama dominato dal grunge preferendo confondersi con le borchie del metal piuttosto che vestire le camicie di flanella. Happiness Bastards  è figlio di Shake Your Money Maker  ma di acqua ne è passata e ciò che è stato, comprese le avventure soliste dei due fratelli, fa parte della continuazione di una storia con tutto il bagaglio di esperienze vissute, il tentativo di rincorrere il tempo perduto. Parte con l’acceleratore a tavoletta Happiness Bastards  e se non fosse che le note del disco dicano di Jay Joyce come produttore, si penserebbe che dietro canzoni fulminanti come Bedside Manners e Rats and Clowns  ci sia la mano di Andrew Watt, l’uomo alla consolle negli ultimi lavori di Stones ed Iggy Pop. Siamo comunque sotto la Mason Dixon-Line, qui il sound è più sporco e meno metallico nonostante la sezione ritmica (Sven Pipien e Cully Symington) sia roba da fabbrica metallurgica ma non puoi togliere il Sud dai Black Crowes e allora quando è il turno di Cross Your Fingers il ritmo singhiozza, la batteria accentua la crudezza delle chitarre, Rich Robinson se la gioca e fratello Chris quando stacca lascia  al backing vocale e alle tastiere il pretesto per creare quell’orgiastico gospel di cui sono maestri . L’inizio rutilante di Wanting and Waiting non lascia dubbi, loro non sconfessano nulla, né il boogie né i tumulti famigliari e le gelosie, difatti sembra una nuova versione di uno dei loro primi cavalli di battaglia, Jealous Again. Chris è abile nel trascinarsi dietro sia i cori che l’Hammond ed il battere ottuso della batteria, le chitarre sono morsi velenosi, il sabba è di nuovo in scena. Me la vedo già in concerto, sarà impossibile stare seduti agli Arcimboldi. Pezzo da novanta. Con la cantante Lainey Wilson, una che si veste come loro pur bazzicando il country, i Corvi concedono la prima pausa in tanta euforia, Wilted Rose si apre con le chitarre acustiche, Chris sembra immerso in una sorta di preghiera, ma ad un certo punto tutto sembra andare a carte e 48 in un terremoto elettrico che sconvolge quella che avrebbe dovuto essere una pacifica ballata. E’ caos ma poi la Wilson riconduce il brano sulla via di una ballata gotico-sudista. Viene lasciato all’Hammond il compito di riaprire le danze, Dirty Cold Sun puzza di Stones in un ambiente dove il fumo ed il bourbon sono i propellenti di un rock che non ne vuole sapere di diventare saggio e se i loro miti nel 1969 cantavano Let It Bleed , adesso loro rispondono con Bleed It Dry pur con gli stessi umori, ovvero l’armonica, la slide e la voce febbricitante di Chris ad inscenare un blues da strada sterrata.  Forse la concessione al mainstream arriva con Flesh Wound, col suo drumming da marcia militare ed il coro trionfale ma le chitarre in apertura di Follow That Moon citano i Led Zeppelin prima che diventi un rhythm and blues killer che scuote corpo e anima. Il trance di Chris nel cantarla suona come la felicità ritrovata nel sentirsi di nuovo unito a fratello Rich e allo storico bassista Sven Pipien, salvo smentite sempre in agguato quando si tratta di una brothers band. Ma la sontuosa ed emozionante ballata Kindred Friend non può essere una illusione, quel romanticismo polveroso dell’ amico affine è la speranza che il nuovo corso non si esaurisca troppo in fretta. Alzate il volume, i Corvi Neri stanno ancora cavalcando nelle praterie del rock n’roll.

 

MAURO  ZAMBELLINI       

 

giovedì 28 dicembre 2023

MY BEST OF 2023

 

Niente ristampe, edizioni deluxe, vecchi concerti ritrovati, solo dischi dell’anno. Questa è la sporca dozzina, un disco  al mese.



LUCINDA WILLIAMS  Stories from a rock n’roll heart

Il disco più nerazzurro dell’anno, lo dice la copertina, anche il più rock n’roll



IAN HUNTER     Defiance part 1

Il disco brit-rock dell’anno. Non fatevi ingannare dalla carta d’identità, qui c’è una vitalità che è rimasta ai tempi dei Mott The Hoople. Forever young.



JOHN MELLENCAMP   Orpheus Descending

Un disco  che unisce la grande canzone d’autore americana con la protesta socio-politica e la malinconia del tempo che passa. Caldo, arguto,confortante



THE ROLLING STONES    Hackney Diamonds

Una delle poche certezze rimaste da un secolo a questa parte



ANGELO leadbelly ROSSI   It don’t always matter how good you play

Come aprire un juke joint dalle parti di Gallarate e far divertire ogni sera con un show diverso. Blues a geometria variabile ed un tocco psycho



THE FUZZMEN     The Fuzzmen

Italian third mind. Shakerare garage, Traffic, jazz, Curtis Mayfield, southern e psychedelia. Servire a temperatura ambiente.



ROSE CITY BAND  Garden Party

Bucolici e psichedelici, rilassanti e gradevolmente erbivori. Nel senso della panama red.



DUANE BETTS   Wild & Precious Life

Paesaggio pastorale, chitarre in libera uscita, ballate al profumo delle magnolie, un pianoforte che svolazza e quella vecchia fascinosa aria del Sud. Come ringiovanire di 30 anni padre Dickie.



LANKUM    False Lankum

Tradizionali e solenni, cupi e dronati, celtici e psichedelici. Folk irlandese d’avanguardia. Mettersi il maglione di lana.



VAN MORRISON   Movin’ on Skiffle

Irriducibile. Le tradizioni “povere” della musica Americana trattate con un irish beat, una voce che è uno strumento e pinte di swing.



CHRIS   STAPLETON     Higher

Come unire il country di Nashville meno  edulcorato  con il soul di casa Muscle Shoals, il tutto dietro ad una voce forte ed autorevole



ROBERT FINLEY    Black bayou

I misteri, l’oscurità ed il blues del bayou, come nei racconti di James Lee Burke. Louisiana mon amour.

 


 

giovedì 23 novembre 2023

GOV'T MULE Teatro Dal Verme MILANO 20/11/23


 

 

Esiste la serata perfetta nel rock ? Si quando in città, nella fattispecie Milano, arrivano i Gov’t Mule e suonano in un teatro comodo, dall’acustica ottimale, davanti ad un pubblico caldo e competente che ricambia la bellezza che arriva dal palco con applausi e partecipazione sentita, così da instaurare quella sinergia tra artisti e pubblico che gli Allman chiamavano hittin’ the note. Avrò visto 8/9 concerti dei Muli ma questo del 20 novembre a Milano rimarrà impresso indelebile nella mia memoria, una band mostruosa costituita da quattro eccezionali solisti  che si fondono nella chimica di un insieme che non ha eguali oggi, per tecnica, amalgama e inventiva, regalando musica sublime anche quando, come nella prima parte dello show, può apparire dura, contorta, difficile ma sempre legata ad una idea di sperimentazione che si traduce al momento, mentre suonano  col sorriso sulle labbra, in assoli, rallentamenti, stacchi e ripartenze, parti cantate e torrenziali flussi sonori che portano l’ascoltatore in un paradiso del vero sentire dove si pensava fosse ormai già esaurito il numero dei concerti memorabili. 


Il dimagrito Warren Haynes, sempre modesto e affabile, è il condottiero di questa pattuglia che definire rock è limitativo perché nel loro concerto c’è di tutto ma solo esclusivamente musica, a parte il suggestivo gioco di luci di vago sapore psichedelico che illumina il palco. Solo musica perciò, che sa essere rock, blues, jazz, free, psichedelia, reggae, hard, fusi in composizioni che lasciano comunque trasparire il senso della canzone, anche quando questa si traduce in una jam che si vorrebbe non finisse mai. Haynes suona le chitarre con delicatezza come se le stesse accarezzando ma ne trae un fiume in piena, le conosce come se fossero suoi figli, non hanno segreti per lui, e canta con quella voce fatta apposta per strappare commozione nelle ballate blues, salvo urlare ogni tanto quando il tema diventa duro e rabbioso. Ma non è mai una rabbia iconoclasta, piuttosto una reazione a qualcosa di irragionevole ed ingiusto come nelle tematiche del blues, è statico in scena ma è la musica creata che vola, si innalza, attorciglia le emozioni, ti porta dove sogneresti essere. Di fianco a lui Danny Louis 


è la ragnatela sonora che collega il solismo di Haynes con lo stantuffo ritmico, avvolgendo il tutto. I suoi tocchi sono nobili ed estasianti, è solenne e drammatico, è lieve e fluido, sia quando è frontale verso la platea col suo Hammond o voltato di fianco sul piano elettrico. Berretto di lana, occhiali, sobrio nel look ma straripante con le dita è l’alchimista dei Muli, il lato melodico dell’ensemble, il contraltare del sempre più contratto (nelle pose) e magro Matt Abts  il treno su cui viaggia la musica dei Gov’t Mule.


 La quintessenza del batterista, picchia quando è il momento e poi diventa così soffice e delicato da sembrare che non abbia in mano nemmeno le bacchette quando Haynes smorza il pezzo, lo addormenta dolcemente in un affascinantissimo mood jazzy, dove sono solo i sussurri e i celestiali tocchi a tenere ancora in vita la canzone. Per poi riesplodere in un magma sonoro dove la Les Paul del leader  ricorda, a seconda dell’istante, B.B King o Santana, Duane o Elmore James (quando va di slide). 


Kevin Scott è il nuovo bassista, vecchia scuola non possiede il funambolismo del  dimissionario Jorgen Carlsson ma non sbaglia un tempo, è tosto ed il timing con cui risponde ad Abts è dimostrazione di dinamiche assolute. Alto, robusto, barbuto pare uno dei Metallica ma si è inserito perfettamente nel gruppo e quando fa il suo assolo gli altri lo assecondano come si deve, in un pulsante ed ipnotico drive. 


Energici, potenti e duttili i Muli affrontano la prima parte dello show con più durezza ma offrendo lampi di assoluto trance come Thorazine Shuffle  e diversi ripescaggi dal lontano passato. Riemergono Temporary Saint, Bad Little Doggie con cui si è aperto il concerto, l’omaggio a Monk di Thelonius Beck, la splendida sincopata Broke Down The Brazos e poi due titoli che giustificano il fatto che il tour è all’insegna della recente pubblicazione. Da Peace…..Like a River  arrivano difatti Peace I Need,  una chicca con quel carico di blues da pelle d’oca, e After The Storm, nella seconda parte ci sarà tempo anche per Shake Our Way Out. Chiude il set I Asked Her For Water e potrebbe essere già sufficiente se non fosse che dopo venti minuti di break, ciò che si ascolterà nell’altra ora e trentacinque minuti di concerto (durata totale 2 ore e quaranta) sfiora il soprannaturale. Haynes menziona Heavy Load Blues  e il blues sale in cattedra. Dopo la mirabolante Endless Parade e la reggatissima Unring The Bell,  chiama sul palco l’armonicista Fabio Treves e con lui eseguono Good Morning Little Schoolgirl  frazionata in un ritmo molto diverso dall’originale classica, quasi singhiozzante. Poi i Muli si scatenano nella lunga Sco-Mule  che tra rallenty, ripartenze, impennate e scorribande strumentali con un il drive bestiale di Matt Abts (sia Santo subito), Carlos Santana dell’età dell’oro sembra lì sul palco. Il momento più romantico dello show è affidato al colpo al cuore di Beautifully Broken e allora il Teatro Dal Verme ha ormai cambiato galassia e per chi è in sala non resta che abbandonarsi al piacere sensoriale di una musica totale. Potrebbero fare tre concerti in un giorno con scalette tutte diverse tanto è immenso il loro repertorio e la loro versatilità, scelgono Shake Our Way un funky nero come la pece e la lunga Feel Like B.U.S.H,  un blues urbano ad alto numero di ottani per chiudere lo show. L’encore non si fa attendere,  Haynes canta solo a-cappella e commuove con Grinnin’ in Your Face  di Son House, poi richiama Treves in Long Distance Call di Muddy Waters, l’amore di entrambi, e trascina Muli e pubblico adorante in Soulshine, finale previsto di un concerto straordinario. Eleganza e sensibilità,  Soulshine  non è solo la canzone più nota dei Gov’t Mule ma è anche il filo che riconduce agli Allman (uscì nell’album Where It All Begins ), la band che ha dato i natali a tutta questa fantastica storia musicale che dura tutt’ora.

 

MAURO ZAMBELLINI 

Le foto sono dell’amico Zanza