giovedì 23 gennaio 2025

THE ALLMAN BROTHERS BAND Final Concert 10-28-14




Concerto storico della Allman Brothers Band non fosse altro perché è il finale della loro lunga, controversa, altalenante, esaltante avventura musicale. La sede è quella a loro più congeniale, ovvero il Beacon Theatre di New York, la loro seconda patria, la data quella del 28 ottobre 2014 per il 45esimo di carriera. C’erano stati seri problemi di salute negli anni appena precedenti, Gregg Allman si era sottoposto a un trapianto di fegato e poi aveva sofferto gravi problemi respiratori che lo avevano invalidato, Dickey Betts era già fuori dal giro da diverso tempo e nel 2012 l’ annuale residency primaverile degli Allman al Beacon era saltata. Mai come in quel periodo la band sembrava appesa ad un filo ma il 7 marzo del 2014 i sette (oltre agli storici Gregg, Jaimoe, Butch Trucks c’erano i due condottieri Warren Haynes e Derek Trucks, il bassista Oteil Burbridge ed il percussionista Marc Quinones) si presentarono sul palco dello storico locale al numero 2124 di Broadway per  dare inizio ai concerti in cartello, come ogni anno.  Durante la seconda data Butch Trucks se ne andò prima dell’encore di Southbound, una improvvisa perdita di memoria non gli permise di continuare, non aveva idea di cosa stesse facendo, era completamente smarrito. Fu sostituito da suo nipote Duane, fratello di Derek, e dal percussionista Bobby Allende. Trucks rimase tre giorni in ospedale  e gli diagnosticarono una TIA ma prima della serata del 21 marzo i  Brothers dovettero fare a meno anche di Gregg, ospedalizzato per una nuova crisi respiratoria. La band corse ai ripari ingaggiando i tastieristi Kofi Burbridge e Rob Barraco, il sassofonista Bill Evans e Susan Tedeschi nelle vesti di cantante e chitarrista. Si aggiunse alle voci il figlio di Gregg, Devon e per il concerto seguente fu convocato da Nashville il cantante di Wet Willie, Jimmy Hall, ma per le serate successive Warren Haynes fu lapidario: non si potevano tradire i fans che avevano acquistato biglietti, prenotato alberghi e pagato voli, presentando una band senza il proprio cantante. Gli ultimi quattro show newyorchesi furono quindi posticipati a data da stabilirsi e dopo alcune apparizioni estive la band si ripresentò al Beacon nell’ottobre dello stesso anno. Il rush finale iniziò il 21 ottobre, il concerto finale avvenne il 28 (ma si concluse che già era il 29, nello stesso giorno in cui 43 anni prima moriva Duane) e, dato che era l’ultimo atto, invitarono anche Dickey Betts ma il tentativo andò a vuoto. La storia è raccontata compiutamente nel libro della Shake The Allman Brothers Band-I Ribelli del Southern Rock (2021),  per la festa conclusiva del 28 arrivarono da tutti gli Stati Uniti parenti ed amici a dimostrazione del grande affetto che legava una comunità che né i lutti, i dissidi, i processi, le droghe e l’alcol, le malattie aveva scardinato. Seppure acciaccati, già dalle prime note di Little Martha si capisce che la serata avrebbe lasciato in eredità qualcosa di speciale. Non poteva essere diversamente . La fine della strada era cominciata da un poetico e nostalgico riavvolgimento del nastro dei flashback che ogni secondo di quella straordinaria storia riportava alla memoria Duane Allman. I sospiri languidi e acuti dell’emozionante brano di Duane, suonato dall’acustica di Derek in armonia elettrica con Haynes, confluiscono in un’esplosiva Mountain Jam per poi aprirsi alle due canzoni di apertura del loro primo album: Don’t Want You No More e It’s Not My Cross To Bear.  Finalmente, seppure di non facile reperibilità e a un costo non propriamente economico, almeno per quanto riguarda il supporto fisico  quella straordinaria serata è ora disponibile in un triplo CD che testimonia come la band fosse ancora in grado di ricreare la grandeur di un tempo e avere numeri da novanta nel proprio carnet, tanto che sulla rivista Rolling Stone David Fricke scrisse che quella serata non sembrava proprio un addio. Basta ascoltarsi i dieci minuti di Blue Sky per capire che la  nuova generazione ovvero i chitarristi Trucks e Haynes  non soffriva rispetto ai titolari Duane e Betts e nei tanti blues della set list il drumming di Butch Trucks stantuffava come un pistone di un bicilindrico, il percussionista Marc Quinones metteva carbone alla caldaia e Gregg, commovente nel recuperare le ultime forze a sua disposizione (nella tenera Melissa  affiora la stanchezza di una vita on the border) cantava come nelle grandi occasioni, ricavando dal suo Hammond un suono stagionato, rotondo, pastoso. Ventinove titoli sparsi su tre CD, tutta la loro carriera riassunta in una serata grazie ad uno show stratosferico, tra i migliori della loro sterminata produzione live. Assoli e jam, gioco di squadra e individualismi da fa far accapponare la pelle, blues, rock, psichedelia e soul, Final Concert 10-28-14 è la degna conclusione di una delle avventure musicali americane che hanno fatto storia.  Superfluo fare l’elenco di ogni traccia di questa grazia divina, mi limito nel segnalare i brani più lunghi, i tredici minuti e mezzo del medley You Don’t Love Me/Soul Serenade/You Don’t Love Me,  gli undici minuti di una personalissima Good Morning Little Shoolgirl di Sonny Boy Williamson, i tredici minuti di una vigorosa Black Hearted Woman,  i nove della The Sky Is Crying di Elmore James,  gli undici e passi della cosmica Dreams, i diciooto di una Elizabeth Reed mai cosi rilassata, jazzata, intervallata dal tribale numero di percussioni e batteria di JaMaBuBu,  i sedici e oltre  di una delirante Whpping  Post messa nell’encore ed una Mountain  Jam  divisa in tre momenti, quattro minuti all’inizio di concerto poi altri nove minuti nel finale e, dopo l’intermezzo della corale e celebrativa Will The Circle Be Unbroken, ulteriori undici minuti e passa. Una volta concluso l’encore di Whipping Post,  i sette membri del gruppo si schierarono di fronte al pubblico con un inchino, poi Gregg, spinto avanti dagli altri, tenne un breve discorso in quello che qui viene riportato come Farewell Speeches, ricordando il giorno in cui, per la prima volta, cantò con la formazione originale della Allman Brothers Band, in una jam session nella loro Jacksonville. Gregg citando la data precisa, il 26 marzo 1969, afferma, con voce bassa e logora: “Non avevo idea che si potesse arrivare a questo”. Fra gli applausi aggiunge: “Ora... faremo la prima canzone che abbiamo mai suonato”, ed il tributo a Muddy Waters di Trouble No More , il brano che aveva dato inizio a tutto  esce dalle voci dell’intero Beacon Theatre.

Un rammarico non aver potuto assistere a un evento del genere, una festa della musica  pur contrassegnata dalla malinconia di un addio, ci sono occasioni nella vita che non andrebbero perse anche a costo di sacrifici e altre rinunce. Relegati nella periferia dell’Impero non possiamo che accontentarci di ciò che la storia lascia dietro di sé ovvero questo irrinunciabile e fantastico documento, una miseria al confronto di poter essere stati realmente sotto quel palco. Baratterei una ventina di concerti del Boss (dei trentatrè visti) per uno dei loro ma il tempo non aspetta nessuno. 

Prodotto dalla ABB con Bert Holman, pubblicato dalla Peach Records, qualità audio di prim’ordine, se c’è un live degli Allman che porterei sull’isola deserta assieme al Fillmore East è questo.

MAURO ZAMBELLINI    GENNAIO 2025

 

venerdì 27 dicembre 2024

MY BEST of 2024

 


Nell’anno orribile che ha portato via diversi e noti giornalisti musicali tra cui Ernesto Assante, Massimo Cotto, Fausto Pirito ed in particolare Paolo Carù a cui ero legato da un consolidato rapporto professionale e di amicizia, la musica e i dischi sono stati un elemento importante di consolazione in un mondo che pare tutto il contrario di quello sperato e sognato quando, almeno per il sottoscritto, per la prima volta mi avvicinai al pop e al rock. Qualsiasi winds of change ha soffiato in senso inverso dove le canzoni di un tempo, e non parlo solo degli anni sessanta, sembravano spingere. La speranza è l’ultima a morire ma rispetto ai tempi quando si cantava contro la guerra in Vietnam, le discriminazioni razziali, il neo liberismo della Thatcher e Reagan, la nostra musica pare oggi incapace di elevarsi in un collettivo e universale urlo di protesta contro guerre e massacri, tirannie e fascismi vari, contro una tecnologia che inversamente ad essere un fattore di progresso umano nel segno della tolleranza, è invece veicolo di tecnocrazie, autoritarismi, bugie, imperi mediatici, verità capovolte. Rinchiusi nella nostra sopravvivenza, noi amanti di un mondo ormai utopico, con la sensibilità che ci siamo costruiti usando il nostro buon senso ed un “consumismo” artistico di film, libri, mostre e musica, resistiamo e come suggerisce la parola cardine del giubileo, nutriamo ancora SPERANZA.

La mia playlist annuale,che non sono i dischi migliori o più importanti o di moda ma solo quelli che mi sono piaciuti di più,  è fondamentalmente classic ma leggendo le tante classifiche social, di siti e riviste specializzate, anche un po’ fuori dal coro, dettata più da acquisti discografici fisici che da ascolti liquidi. Quella che segue è la selezione dei dischi che più ho ascoltato nel 2024, ho diviso i titoli in settori, scelta che generalmente fa imbufalire i musicisti, avversi alle categorie. L’ordine è del tutto casuale. Buon Anno a tutti.

ROCK and songwriters

Ray LaMontagne    Long Way Home      un ritorno alla semplicità dei primi album, voce sabbiosa da crooner per canzoni che distillano emozioni e storie di vita intima e sulla strada, Ray LaMontagne riannoda le fila della sua esperienza artistica e lo fa nei migliore dei modi, recuperando schiettezza, lirismo, atmosfera.

Mike Campbell & The Dirty Knobs Vagabonds, Virgins & Misfits

Dischi come non se ne fanno più, rock diretto, chitarristico, autostradale, suonato con precisione, diviso tra ganci elettrici e ballate che ti ricordano un orizzonte infuocato di sogni perduti. Onesto fino al midollo, senza coloranti né conservanti, con il fantasma di Tom Petty che aleggia sopra.

JJ Grey & Mofro   Olustee


Meno paludoso dei dischi precedenti e più soul, JJ Grey e i suoi amici ci offrono una dimostrazione di quanto il rock o presunto tale sia ancora credibile quando parla di preoccupazioni e sensibilità, un’ anima inquieta in canzoni ricche di sentimento per la vita e l’ambiente con un sound che appartiene di diritto alla tradizione southern.

Charlie Crockett     $10 Cowboy

$10 Cowboy racconta dell’America dei reietti e dei losers, di chi non vince mai e vive di stenti, di quella mitologia che ha reso grande il country americano e di cui Charley Crockett sembra l’ultimo credibile iscritto alla lista. Con un piglio tutto moderno, grazie al suo disinvolto e sciolto stile vocale, caldo e confidenziale, splendidamente comunicativo che si dispiega in sfumature jazzy, come un seducente crooner dei vicoli.

Johnny Cash      Songwriter

Canzoni registrate nel 1993 portate alla luce dal figlio John Carter Cash che  col produttore David “Fergie”Ferguson ha isolato la voce e la chitarra acustica dell’autore per poi darne nuova vita, aggiungendovi parti strumentali con musicisti che avevano già suonato col padre. Undici gemme di saggezza, tormento, amore e passione tra folk, blues e country.

X    Smoke and Fiction

Sembra non sia passato del tempo da Under The Big Black Sun l’album che nel 1982 li consacrò come i più autorevoli e accessibili paladini del punk californiano, Secco, teso, adrenalinico Smoke and Fiction ribadisce il loro status, le voci in sincrono di Exene Cervenka e John Doe, i fulminei interventi chitarristici, la sezione ritmica che ha imparato a memoria le regole del rockabilly, l’attitudine beatnick nel cantare i bassifondi della città degli angeli, se non avessi l’età che ho mi metterei a pogare.

Richard Thompson   Ship to Shore

Musicista eccelso, uno dei fondatori del folk-rock inglese, Richard Thompson mette insieme dodici tracce nelle quali vibra un suono ritmato che raramente si concede ai lunghi assoli chitarristici, comunque presenti ed efficaci nella loro stringatezza, potente nel disegnare un universo di considerazioni, riflessioni e amarezze attraverso ballate, moderni reel di derivazione celtica, sghembi rockabilly, canzoni di mare, ibridi folk e contaminazioni rock, marcette che non hanno nulla di militaresco. Canzoni con un’intelaiatura sonora ricca di sfumature e una voce, che qualcuno ha definito da cane bastonato, simpatizzante verso i vulnerabili e coloro che sono in caduta libera.

 

 

OUTSIDERS

Jake Xerxes Fussell    When I’m Called

Un disco di una bellezza pura, adamantina, incontaminata, When I’m Called è il miracoloso incontro di lamenti antichi con la sorprendente alchimia degli arrangiamenti di Elkington (un chitarrista raffinatissimo), le sfumature sonore date dai musicisti coinvolti, la chitarra e la calda e confortevole voce di Jake Xerxes Fussell. Magia e mistero ed un respiro nobile che contrasta coi detriti culturali che la società di oggi ci propina, When I’m Called è solo una zuppa cucinata in casa con ingredienti naturali ma vale di più di uno stellato piatto gourmet.

 

Jontavious Willis    West Georgia Blues 


 

Una voce profonda, espressiva, calda, che sa essere carezza e sofferenza. Dedicato alla sua terra, alla sua famiglia, ai suoi avi, West Georgia Blues è la fresca dichiarazione di un intrattenitore che non suona solo il blues ma abita quello spazio in cui questa musica si diffonde tra le corde della sensibilità regalando una visione del genere che è dolore e conforto, antico e moderno, un aiuto per affrontare la vita e alleviare la mente. 

 

Red Clay Strays     Made By These Moments


 

Stile old school per una band di fiammeggiante rock sudista  con riflessi country e colpi honky-tonk, una voce macerata nel bourbon e quel modo di concepire i dischi “in analogico” come si faceva a Muscle Shoals. Belle canzoni, un mood da America profonda’, in these magic moments ci sono gli ingredienti più saporiti della cucina dixie, dal blues al gospel, da Chris Stapleton a John Hiatt, dai Black Crowes ai Blackberry Smoke. Ma senza copiare nessuno.

 

Jeremie Albino      Our Time In The Sun

 

Ennesima scoperta di Dan Auerbach (Black Keys) e della sua Easy Eye Sound, Jeremie Albino ha i modi del cantautore elettrico ma con una voce zeppa di soul e di coloriture audaci che lo portando ad essere in confidenza sia con le ballate romantiche, sia col gusto retrò di un certo rhythm and blues, sia con uno scalpitante roots-rock di chitarre affilate e ritmi anarchici. C’è la tensione che negli anni sessanta si respirava negli studi dell’Alabama quando i cantanti “neri” trovavano alleanza nei musicisti bianchi ed insieme sfornavano dischi che sono diventati dei piccoli classici della tradizione southern.


 

Soul-Blues-Jazz

The J&F Band     Star Motel


Collettivo di musicisti americani ed italiani di cui fanno parte David Grissom, Joe Fonda, David Grissom, Tiziano Tononi, Emanuele Parrini, Jaimoe e altri, al loro quarto disco, fondono blues, rock, soul con una disinvoltura ed improvvisazione di stampo jazzistico che porta Charles Mingus a fianco di Robert Johnson, la Allman Brothers Band. sulla Route 66 e Jimmy Reed vicino a John Coltrane. Eclettici è dire poco, una esperienza di musica americana (dedicata a Dickey Betts) che travalica gli steccati dei generi per un’opera di frontiera divisa in due parti, un CD di canzoni ed uno di strumentali, con il doppio risultato di sorprendere ed estasiare.

Marcus King       Mood Swings

Non ha raccolto molti consensi l’ultima fatica di Marcus King, chitarrista eccelso originariamente uscito da quella tradizione di blues-rock sudista che ha negli Allman i padri fondatori. Da un po’ di tempo a questa parte, passando sotto le “cure” di Dan Auerbach (che gli produsse El Dorado), il ragazzotto della Sud Carolina si è innamorato del soul, quello classico che veniva sfornato a Muscle Shoals e a Memphis, e si è messo a cantarlo con una voce roca rubata al giovane Rod Stewart che gli consente di essere appassionato, sensuale e caldo. Il nuovo disco è prodotto da Rick Rubin, un nome che è una certezza, il quale gli ha abbassato il volume della chitarra per esaltare canzoni che se non sei iron man ti riducono il cuore in uno zuccherino.

Scott LaFaro     The Alchemy of Scott LaFaro


Sebbene avesse iniziato suonando il sassofono, Scott LaFaro nato a Newark nel 1936 da una famiglia di origine calabrese, divenne uno degli innovatori del contrabbasso nel mondo del jazz suonando praticamente con tutti, da Chet Baker a Victor Feldman, da Stan Getz a Stan Kenton, da Percy Heath a Tony Scott, da Bill Evans a Ornette Coleman. Vita breve, morì in un incidente automobilistico nel 1961, anche se non suonò mai come leader fu uno dei bassisti più influente del secolo scorso estendendo il ruolo del contrabbasso a non mero accompagnamento. Questa bella antologia di tre CD della Cherry Red Records riassume la sua breve ma esaltante carriera.

 

Live, Ristampe,Tributi

Jason Isbell and The 400 Unit    Live from the Ryman Vol.2

Secondo capitolo di registrazioni avvenute al Ryman di Nashville, un teatro in cui tutti vorrebbero suonare per la qualità dell’acustica. Se in studio Jason Isbell (un tempo nei Drive By Truckers) è composto e melodico, dal vivo con la sua band è una forza della natura che dal classico formato cantautorale si spinge verso gli Allman, la psichedelia, il rock stradaiolo di Tom Petty, una devastante bellezza elettrica che conferma quanto ancora il rock americano è capace di offrire in termini di pride and joy. Era parecchio tempo che non ascoltavo un live così esaltante tanto da spingermi a raggiungere, lo scorso novembre, Anversa per assistere al suo concerto. Italia dove sei?

Cracker   Alternative History: A Cracker Retrospective

I Cracker sono la perfetta alternative rock band degli anni novanta arrivata fino ai giorni nostri dopo un insperato successo nelle radio e nei campus americani ed una gestione del loro culto minore con dischi che non hanno mai abbassato il livello di qualità, tra power-pop, rock di strada, country stralunato e dondolanti ballate alla Lou Reed. Questo doppio CD ha il compito di riassumere il loro cammino discografico con una retrospettiva che come saggiamente suggerisce il titolo è una alternative history  e non un greatest hits  o antologia ufficiale, quindi le tracce più conosciute ma anche estratti di concerto, titoli minori, gemme nascoste.

Rory Gallagher   The BBC Collection

Opera colossale di 18 CD e 2 Blu-Ray in cui si racconta il rapporto tra il più grande bluesman irlandese e l’emittente più popolare al mondo nella diffusione della musica. Tutto quanto vorreste sapere dal rosso di Ballyshannon con la camicia a quadri e i basettoni, l’esaltazione della sua scrostata e amata Stratocaster, il suo proletario e sanguigno rock-blues, le sue commoventi ballate, il suo amore per il folk, la musica cajun, il country. Rory Gallagher at his best.

Faces at the  BBC

Di nuovo santa BBC con la completa selezione dei concerti e delle session avvenute negli studi e nei teatri dell’emittente tra il 1970 ed il 1973 quando il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood era la più alcolica e devastante rock n’roll band del pianeta, assieme agli amici Stones. Versioni da capogiro, canzoni che ti tolgono il fiato, un soul mischiato col rock e col blues che ha dato i natali a più di una generazione di musicisti, in primis i Black Crowes che al confronto sembrano degli scolaretti. 8 CD ed un blu-ray di sangue, sudore e lacrime.

The Rolling Stones   Live at The Wiltern/Welcome To Shepherd’s Bush

Due favolosi estratti dagli archivi degli Stones in concerto, entrambi registrazioni in locali di dimensioni ridotte quindi più appetibili per feeling, scaletta, atmosfera. Il primo testimonia uno show al Wiltern Theatre di Los Angeles nel 2002 durante il Four Licks Tour, il secondo arriva da un concerto al Shpherd’s Bush di Londra nel giugno del 1999 nel mentre del Bridges To Babylon Tour che toccò tutto il mondo tranne l’Italia. Performance di grande intensità, Pietre che rotolano con spavalderia e senso del rock-blues come se fossero al Crawdaddy all’inizio di carriera, chicche in scaletta raramente esibite, oltre ai loro immortali classici. In qualunque momento li si prenda gli Stones non deludono mai. Ottima la qualità audio.

Low Cut Connie     Connie Live


Un disco eccessivo, sporco, sguaiato, irriverente, rock n’roll spettinato e maleducato di una band dell’underground di Philadelphia che conta già un nutrito numero di album alle spalle, venerata da Elton John, Bruce Springsteen, Nick Hornby e Barack Obama. Il leader Adam Weider, pianista, cantante, compositore si è fatto le ossa nei locali gay di New York e negli squatter anarchici delle città europee, mischia teatro, glam, power-pop e quel rock della giungla d’asfalto caro a Dictators, New York Dolls, Replacements, Alex Chilton, Kinks. Spettacolo assicurato da sentire e vedere con le due coriste che fanno anche le ballerine, scudisciate elettriche ma anche ballate arrendevoli che cantano la boheme della città. Si definiscono spacciatori d’arte e c’è da credergli.

Artisti Vari      Silver Patron Saints:The Songs of Jesse Malin


Colpito nel 2023 da una rara forma di ictus alla colonna vertebrale, il cantautore newyorchese Jesse Malin ha dovuto sostenere cure pesanti con costi altissimi, e non possedendo una adeguata assicurazione medica l’associazione Sweet Relief, non nuova a tali iniziative, ha patrocinato questo bellissimo doppio CD dove musicisti amici o semplici debitori della piccola arte metropolitana di Malin, hanno interpretato le sue canzoni offrendo una sfaccettata dimostrazione di cosa sia il rock del mutuo soccorso. Ci sono nomi altisonanti come Bruce Springsteen la cui She Don’t Love Me Now da sola vale l’intero Only The Strong Survive, come i Counting Crows che paiono rinati, Ian Hunter, Elvis Costello e Lucinda Williams, Graham Parker, Susanna Hoffs, Wallflowers, Hold Steady, Willie Nile, Steve Van Zandt e altri meno conosciuti, tutti impegnati a fare opera di bene e soprattutto ad esaltare un repertorio di rock n’roll, punk, pop, garage, ballate, soul firmato da Jesse Malin.

 

Absolutely Live


Dave Matthews Band    Milano 19 aprile

Buscadero Day       Ternate 21 luglio

Robert Plant featuring Suzi Dian          Como  17 ottobre

Marcus King Band    Milano 20 ottobre

Jason Isbell and The 400 Unit     Anversa  16 novembre

Alex Gariazzo Quartet     Como 24 novembre

 

 

MAURO ZAMBELLINI  27/12/24

 

 


sabato 30 novembre 2024

THE ROLLING STONES Welcome to the Shepherd's Bush



Fino alla fine del secolo scorso i Rolling Stones sono stati la più grande rock n’roll band della storia, poi nei duemila hanno cavalcato con furbizia la loro leggenda non privando il pubblico di grandi show come testimoniano le diverse pubblicazioni uscite a seguito dei tour Four Licks, Bigger Bang, 14 On Fire e No Filter.

L’ultimo tour del secolo scorso fu allestito per promuovere l’album Bridges To Babylon,  iniziato il 23 settembre 1997 a Chicago si concluse due anni dopo il 20 giugno a Colonia in Germania. Ci fu una interruzione nella parentesi europea, un primo segmento con partenza nel giugno 1998 da Norimberga e arrivo a Istanbul nel settembre  dello stesso anno, ed una seconda tranche tra maggio e giugno del 1999. Un tour faraonico che toccò Stati Uniti, Canada, Messico, Giappone, Sud America, Germania, Belgio, Olanda, Francia, Svizzera, Austria, Spagna, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Estonia, Russia, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Grecia e Turchia, ma non l’Italia. Appendice di quella carovana fu il No Security Tour, il cui disco omonimo uscì nel novembre del 1998, con date negli Stati Uniti, in Canada ed Europa, per esibizioni in arene più piccole a differenza dei mega stadi del Bridges To Babylon, luoghi che contenessero al massimo 20 mila persone. Dall’inesauribile archivio delle Pietre Rotolanti arriva in via ufficiale la registrazione del 8 giugno 1999 al Shepherd’s Bush di Londra prima delle due serate a Wembley che raccolsero circa 70 mila persone. I Rolling Stones si esibirono per un numero di limitati fortunati (1800) nel teatro di Shepherd’s Bush, venue che sorge nel quartiere di Hammersmith noto alle cronache del rock fin dagli anni sessanta. Lo spazio ridotto, l’intimità di un pubblico sostanzialmente da club, la felicità di suonare in casa regalano un feeling paragonabile agli anni in cui gli Stones ad inizio carriera si esibivano al Crawdaddy.  Performance di classe, atmosfera da club, qualità audio eccelsa, sound meno potente rispetto a quello degli stadi, con parecchie sottigliezze strumentali,  Welcome To Sheperd’s Bush è paragonabile (pur con le diversità del caso) al Mocambo 1977  e alle esibizioni in formato teatro ( Paradiso  Amsterdam, Olympia Parigi, Brixton Academy Londra) immortalate nello splendido ed imperdibile cofanetto Totally Stripped.  Disponibile in più formati (BluRay+2CD, 2CD, 2LP, 4K UHD) Welcome To Shepherd’s Bush è un attestato della grandeur  degli Stones nel secolo scorso prima che lo spettacolo in sé prenda il sopravvento. Se la voce di Mick Jagger nel corso del tempo ha sorprendentemente tenuto, tanto che le ultime performance non hanno nulla da invidiare alle più nobili esibizioni del passato, lo stesso non si può dire per l’amato Keith Richards che dopo la “caduta dall’albero” ha un po’ smarrito quello smalto e quel graffio che da chitarrista ritmico tramutava in un diabolico e geniale colpo solista, rendendo riconoscibile dopo solo una nota la canzone intera. Ancora oggi i suoi riff sono una delle portate più attese dello show delle Pietre ma mi è capitato di assistere in concerti recenti a delle entrate che più dei riff assomigliavano a dei frastuoni metal. Poco male, va bene così per un musicista che è sul palco da più di sessanta anni, di fianco c’è l’amico Ron Wood che a tratti è il vero motore chitarristico della band, specie quando lavora di slide. Ne è sempre stato consapevole Keef fin da tempi non sospetti, affermò difatti “ Ronnie porta la giusta alchimia, a contrario di Mick Taylor è uno fatto per una band con due chitarre, la sua forza che è poi anche la mia, è suonare in coppia con un altro chitarrista. Niente menate virtuosistiche”.  Nella calda serata del Shepherd’ s Bush dove il livello di energia è costante per tutti i 96 minuti del set, Keith Richards è ancora lo stregone che con un solo tocco ti rivela cosa sia il rock n’roll  e gli Stones sono quella alchimia che ti fa dire, cazzo ma questi nella loro apparente semplicità rock-pop-blues hanno davvero venduto l’anima al diavolo. Forse lo pensavano anche i colleghi accorsi a vederli nel teatro di Hammersmith, da Pete Townshend a Jimmy Page, da Robert Plant a Lenny Kravitz, dagli Areosmith alle mogli, ed ex mogli. Nel 1999 gli Stones non avevano ancora compiuto i 40 anni di attività ma la storia l’avevano già scritta e questa è una ulteriore occasione per sentire ancora l’ odore di zolfo perché il menù non è il karaoke degli ultimi anni. Ci sono ingredienti “esotici” come Melody  che prima era stata eseguita live solo a El Mocambo e qui beneficia del raffinato lavoro di Chuck Leavell al pianoforte e Michael Davis col trombone, le rarissime rese di Moon Is Up e Brande New Car  estratte da Voodoo Lounge, una sontuosa versione di I Got The Blues e quella Route 66  che attesta la vicinanza della loro Londra a Chicago, Memphis e New Orleans.

19 titoli tra cui tre classici messi nel finale, Tumbling Dice con Richards che riffa di brutto e alle spalle la sezione fiati (Bobby Keys, Tim Ries,Micheal Davis, Kent Smith) che inscena uno smargiasso e chiassoso R&B, i sei minuti e passa di Brown Sugar  con incendiario assolo di Bobby Keys al sax e Charlie Watts inusuale “picchiatore”, ed una devastante, veemente e colossale Jumpin’ Jack Flash  che fa piazza pulita di tante altre versioni. Nel mezzo spicca Honky Tonk Women  con l’invitata di turno Sheryl Crow ( frequente sui palchi del Bridges To Babylon Tour )a fianco di Lisa Fisher ed una scoppiettante It’s Only Rock n’ Roll.  L’inizio è affidato alla lasciva e funky Shattered, alla nervosa e punkizzata Respectable , all’unico estratto di Exile  All Down The Line  resa caliente dall’infuocata sezione fiati all’unisono, e ad una intensa versione bluesata di Some Girls con Wood e Keef in gran spolvero. Lo stesso Richards si riappropria (vocalmente parlando) di Before They Make Me Run  e sfoggia un malinconico country-blues in You Got The Silver, la quale immancabilmente evoca in me una scena del film di Antonioni Zabriskie Point e mi rimanda ad un mondo che oggi mi pare sia appartenuto ad un altro pianeta. You Got Me Rocking, anch’essa di Voodoo Lounge, promossa nei successivi tour a classico del loro set, è una frustata con il magnifico slidin’ di Ron Wood e la furba Saint of Me proveniente dal loro album in studio del momento, grazie al coro del pubblico che ne allunga il finale si tramuta in quegli inni cantati da tutto lo stadio nel football inglese.  

Classe, canzoni e feeling, nel caso specifico un suono pulito da teatro con arrangiamenti di fiati e cori di prim’ordine, da qualunque parte ed in qualsiasi momento li si prenda i Rolling Stones non deludono mai.

 

MAURO ZAMBELLINI    NOVEMBRE 2024

 

mercoledì 27 novembre 2024

JAMES LEE BURKE Clete Jimenez Edizioni

Per la prima volta nella serie del detective Dave Robicheaux, l’autore James Lee Burke affida il ruolo di protagonista a Cletus Purcel, storico compagno di avventura di Robicheaux, investigatore privato, ex membro del Dipartimento di Polizia di New Orleans  allontanato per i suoi modi non propriamente ortodossi e veterano di guerra. Sempre in prima linea quando c’è da prendere la parte dei più deboli, corazza dura e pochi punti deboli, Clete sa che Dave è il cavaliere errante e lui lo scudiero ma non per questo rinuncia ad immergersi in prima persona nel lercio mondo della Louisiana del Sud stravolto dalla droga,  abitato da corrotti invischiati con la politica, da papponi capaci di accarezzare una donna solo con la frusta o sottometterla con l’eroina, da riccastri in cerca di notorietà ma semplici pedine di un gioco più grande di loro, da ambigue femme fatale disposte a tutto, da sudicie frattagli umane che inneggiano ai campi di concentramento nazisti e non si fanno scrupolo nel commerciare il leprechaun, nome di un uno gnomo irlandese per nascondere una sostanza altamente tossica capace di scatenare una epidemia mondiale. Tutto inizia quando Clete trova la sua Cadillac Eldorado del 1959 saccheggiata e fatta a pezzi da un gruppo di teppisti coinvolti nel traffico di droga, il suo passato tormentato emerge con prepotenza e scatena una reazione istintiva pensando a quegli spacciatori che hanno venduto il fentanyl  a sua nipote, morta per overdose. Si mette sulle tracce dei responsabili e viene assunto da una donna misteriosa per indagare su suo marito che sembra coinvolto con i responsabili del traffico di leprechaun, imbattendosi di conseguenza in una serie di brutali omicidi ad opera di un uomo tatuato che compare nelle situazioni più impensabili. L’intreccio si complica, Clete ha allucinazioni in cui vede Giovanna d’Arco rivelarsi  come consigliera e protettrice nell’ aiutarlo a sfuggire agguati mortali, mette in dubbio i secondi fini della donna che lo ha assunto come detective e con l’aiuto di Dave Robicheaux entra nel corto circuito di un mondo in cui i bastardi che hanno distrutto la sua Caddy ed i relativi personaggi di contorno potrebbero essere le pedine di un piano molto più oscuro e pericoloso di quanto potessero immaginare. Avvincente e violento e sorretto dall’inconfondibile prosa di James Lee Burke, umoristica, sagace, visionaria, altamente  lirica quando si dilunga nelle descrizioni di quella parte della Louisiana che si estende tra New Orleans e la regione cajun, trasportando i lettori letteralmente in quel luogo di magia e mistero.  Era un luogo antidiluviano che poteva essersi formato durante il primo giorno della Creazione e poi essere stato dimenticato: era selvatico e minaccioso in modo tranquillo, con le paludi e gli acquitrini che sfociavano nel Golfo del Messico senza che se ne vedesse la fine. La sua bellezza testimonia se stessa, come una signora vanitosa e temibile. I chilometri di canneti sommersi, tifa e muschio appeso alle querce, i pellicani che volano in  formazione, il rollio delle nuvole  e le trombe d’acqua all’orizzonte ti fanno tremare. Il sole non  cala, muore, e il suo fuoco si porta dietro il fumo rosso”,  Clete  porta una nuova prospettiva ad un serie divenuta iconica, il miglior romanzo a puntate sul profondo Sud americano nella costante lotta tra la giustizia dei deboli ed il male dei potenti e criminali, letture che non si vorrebbero mai concludere tanto perspicaci sono le metafore sociali e la vena dissacrante dei due protagonisti. Forse in Clete  sono più importanti l’analisi psicologica dei personaggi, la dettagliata descrizione ambientale, la suggestione visionaria di un Medioevo che sale  come nebbia dal bayou, più che la storia stessa, quasi un pretesto per potarci in un universo che si vorrebbe contemporaneamente vivere e fuggire. Come afferma Clete a pag.307  : “ Sempre meglio che vivere nella Città della Noia.  Come diceva il grande filosofo americano Bob Seger, datemi il vecchio rock n’roll di una volta”.

MAURO ZAMBELLINI       NOVEMBRE 2024

 

 

mercoledì 23 ottobre 2024

MARCUS KING BAND Fabrique, Milano 20/10/24


 

C’era attesa per il ritorno a Milano di Marcus King con la sua attuale band dopo la pubblicazione dell’album Mood Swings non troppo benvoluto dai fans della prima ora. Da qualche tempo il baricentro della sua musica si è spostato dal furente, chitarristico e jammato rock-blues degli esordi ad un mood più confacente alle sinuosità del soul, anche in virtù di una voce calda e leggermente arrochita che ben si adatta alle melodie di questo genere. Le prime avvisaglie si sono avute al tempo di Carolina Confessions ma sono diventate evidenti con la produzione di Dan Auerbach di El Dorado e del recente Mood Swings, il primo vicino alle ambientazioni del country-soul, il secondo un succoso modern soul che premia una voce che ha pochi eguali al momento, la più autorevole assieme a quella dell’amico Warren Haynes (entrambi della Carolina, il primo del Sud, l’altro del Nord) nel  cantare un soul-blues di derivazione americana. Lo show milanese ha tolto qualsiasi dubbio, Marcus King, uscito dal tunnel della dipendenza, è parso in forma ed immerso in questa fascinazione, ritagliandosi all’interno del concerto, un siparietto in solitario per voce e chitarra acustica a sottolineare la veste di soul songwriter. Così, con la maestria di un giovane Bobby Womack, ha dato voce ai palpiti di un cuore innamorato nella struggente Bipolar Love, in Die Alone e appunto Mood Swings. Ma non crediate che ciò che è stato il suo passato sia stato buttato alle ortiche perché la Marcus King Band seppure in formazione rinnovata possiede ancora l’artiglieria per sparare un benessere elettrico che tonifica i sensi, sia nelle intense ballate che hanno i titoli di Save Me e Goodbye Caroline, momenti in cui la commozione serpeggiava palese in platea, sia nei pezzi più muscolosi dove un secondo chitarrista, Drew Smithers, non sempre in tono e piuttosto meccanico nei suoi affondi con la slide (forse perché costretto a suonare una  Custom del 1976 visto che le sue sono scomparse nel trasferimento da Madrid a Milano) dialogava con la Gibson e la Telecaster del leader in una sincronia di esaltanti assoli di pura scuola southern rock. Se poi aggiungete il potente e dinamico batterista Jack Ryan, un bassista che per tutta la durata dell’esibizione ha sorriso come fosse ad una festa di compleanno, ed un tastierista, Mike Runyon, che con l’Hammond intrecciava i fili dell’intero sound  con quel grasso sentore di Muscle Shoals e Stax, allora era chiaro a tutti che la  Marcus King Band poteva tranquillamente innestare la sesta marcia senza mai andare fuori giri. Cappello da cowboy, basettoni da soulman anni 70, scuro abito di taglio western, Marcus coi suoi pards è stato annunciato dalle note de Il Buono, il Brutto e Cattivo prima di partire a razzo con l’arcigno rock-blues di It’sToo Late preso da Young Blood, per poi dedicarsi alla melodica e romantica Beautiful Stranger, a Hero e This Far Gone in modo da avvalorare il nuovo corso della sua discografia. Ma se le ballata soul con la loro innata sensualità sono il cuore pulsante di tali tracce, la resa live non si limita all’ elegante ammiccamento proprio del genere, perché King con i suoi compagni di ventura vitalizza il parlare d’amore con l’ elettrizzante ed energico ardore di cui sono capaci e allora quella che era semplice sensualità si trasforma in una esplosione di carnalità rock. In Inglewood Motel la stanza sembra grondante di amore, la voce di Marcus King fa vibrare l’anima e la band si scioglie in un sussulto jazzistico che rivela una bravura strumentale di prim’ordine, il brano si fonde con Azucar per poi lasciare posto al malinconico tono country di Good Time Charlie’s Got The Blues, una composizione di Danny O’Keefe che veniva interpretata anche da Presley. La robusta ed originale rivisitazione di Are You Ready for the Country di Neil Young sul giro di chitarre di Crossroads dei Cream e 8 A.M, un lascito di California Confessions, che parte lenta prima di scatenarsi in una bufera soul-rock, è quello che necessita perché dopo neanche un’ora di show la platea, finalmente divisa tra giovani e anta, donne e uomini, raggiunga la temperatura di godimento. La sanguigna Honky Tonk Hell trasuda boogie e bettole sporche di avventure da quattro soldi, Fuck My Life Up Again rimette in pista il soul prima della scorbutica e caotica jam Lie Lie Lie dove il batterista scatena tutta la sua forza in un assolo d’altri tempi per finire nel Rice Pudding del Jeff Beck Group. L’attesa per l’encore non dura nemmeno un minuto, sappiamo da una vita qual è la generosità delle band nate sotto la Mason-Dixon line, la dolce Delilah e Wildflowers & Wine, altri due estratti dai dischi prodotti da Auerbach, preparano il gran finale per una Ramblin’ Man che manda in visibilio l’intero Fabrique evocando Dickey Betts, gli Allman ed una tradizione musicale che ancora sa essere viva e contagiosa.



Nella stessa sera su altri palchi della stessa Milano andava in onda  la redenzione, la glorificazione e la santificazione del personaggio di turno, un ecumenismo di mani protratte a toccare il mito in una sorta di rito salvifico, niente di tutto questo alla periferia oscura della città, dentro le mura del Fabrique dove il rock n’roll rimaneva una manifestazione profana di sensi, cuore e turbamenti pelvici, il canto semplice e meraviglioso di un ragazzo venuto dal profondo Sud che canta e suona la chitarra come un Dio (dei bassifondi).

MAURO ZAMBELLINI     Foto di RODOLFO SASSANO

martedì 27 agosto 2024

RAY LAMONTAGNE Long Way Home


 

E’ un ritorno alla semplicità dei primi album, in particolare a Trouble, quello che esce dalle nove tracce di Long Way Home, ultimo lavoro del cantautore nato nel 1973 a Nashua nel New Hampshire. Dopo aver girovagato nel cosmo con dischi come Supernova e Ouroboros più vicini ai Pink Floyd che al folk-rock degli inizi, il ritorno a casa era stato annunciato nel 2020 da Monovision ma è diventato esplicito in Long Way Home. Con quella voce sabbiosa da crooner perso nel diluvio che contraddistingue il suo cantato e canzoni che distillano emozioni e storie di vita intima e sulla strada, Ray LaMontagne riannoda le fila della sua esperienza artistica e lo fa nei migliore dei modi, recuperando schiettezza, liricismo, atmosfera per regalare nove canzoni che arrivano al cuore per via diretta. L’amore per il folk-rock dei songwriter degli anni settanta è palese, i suoi veri vicini di casa sono Van Morrison, John Martyn, Neil Young, Jackson Browne, Nick Drake e quella schiera di trovatori dall’animo turbato che caratterizzarono quell’epoca. Senza dimenticare che la sua voce si presta molto bene al soul e qui se ne ha dimostrazione in My Lady Fair dove sembra di entrare in una registrazione della Stax dei sixties, il punteggiare di un organo memphisiano, il calibrato gioco tra ritmica e fiati, la voce “velata” alla Otis Redding, le carezze e la sensualità di Ben E.King, tutto porta in quella direzione. Non è la sola canzone a parlare quella lingua, l’iniziale Step into Your Power fa battere i piedi attorno al corale backing vocale delle Secret Sisters in uno di quei caldi quadretti di nostalgia soul anni sessanta, mentre I Wouldn’t Change a Thing apre un altro capitolo, quello del folk-rock con aromi di country music per via di una lap-steel che fa molto americana. Non molto diversa The Way Things Are potrebbe essere materia di David Crosby con quel arpeggio delicato, la voce sospesa ed il sound minimale, e Yearning un riferimento neanche troppo inconsapevole al Van Morrison delle settimane astrali, compresi quegli spigolosi accordi di chitarra sullo sfondo di contrasto a quella melodica in primo piano. Un ricordo di un’epoca meravigliosa che la seguente And They Called Her California già nel titolo lo sottolinea, se non fosse che il dolente andamento ritmico, voce compresa e quell’armonica inconfondibile trasportano di getto in On The Beach di Neil Young. Sembra proprio una outtake di quell’album del 1974. Prodotto in tandem con Seth Kauffman ( Lana Del Ray, Angel Olson, Floating Action), il nono album di LaMontagne, a detta dell’autore, parte dal ricordo di quando a 21 anni vide in club di Minneapolis suonare Townes VanZandt, un pensiero che lo ha accompagnato tutti questi anni ispirandolo nella scrittura di Long Way Home, la lenta  ballata con cui si chiude l’album omonimo, introdotta da So, Damned, Blue, un inizio atmosferico alla Fletwood Mac di Albatross per poi diventare una intimissima confessione di arrendevolezza capace di tramutarsi in un palpitante momento erotico. Finale di album strepitoso che rimette Ray LaMontagne nella cerchia dei migliori songwriter dei nostri anni.

 

MAURO ZAMBELLINI 2024

mercoledì 26 giugno 2024

JOHNNY CASH Songwriter

Registrate all’inizio del 1993 poco prima di incontrare il produttore Rick Rubin per quelle che sarebbero diventate famose come American Recordings , le undici canzoni di Songwriter  dovevano costituire un album poi accantonato perché Johnny Cash fu talmente assorbito da quella partnership musicale da proseguire una collaborazione durata per i restanti anni della sua vita. Quei demo furono registrati nei LSI Studios di Nashville e rimasero nel cassetto fino quando, trenta anni dopo, il figlio di Johnny Cash e June Carter, John Carter Cash li ha scoperti e col produttore David “Fergie”Ferguson ha isolato la voce e la chitarra acustica dell’autore per poi darne nuova vita, aggiungendovi parti strumentali con musicisti che avevano già suonato col padre. Nella Cabin di Hendersonville nel Tennessee dove Johnny Cash  era solito scrivere, registrare e rilassarsi, il figlio John Carter, chitarrista e co-produttore del progetto, con l’aiuto del fidato tecnico di studio del padre, David Ferguson e l’altro tecnico Trey Call hanno ridotto gli originali alla sola voce e chitarra  e plasmato quel materiale grazie agli interventi del chitarrista Marty Stuart, del bassista Dave Roe ed il batterista Pete Abbott. Il risultato raggiunto è prodigioso, rispettare il sound dell’epoca con un approccio di misura e di eleganza, un sottile lavoro di interventi calibrati che preserva il cuore delle canzoni proiettandole in un contesto moderno. Fondamentale il ruolo di Ferguson, probabilmente una delle persone che sapeva meglio cosa piaceva a Johnny Cash, ingegnere del suono dello studio di Jack Clement dove Cash amava registrare e con cui aveva lavorato nella maggior parte degli album per la Mercury e per le American Recordings, e grazie all’aiuto del quale sono stati selezionati i musicisti protagonisti di Songwriter,  album che permette di recuperare canzoni che mostrano l’ampiezza della scrittura di Cash secondo una veste che suona come se l’artista l’avesse registrato oggi. Il chitarrista Marty Stuart che suonò con Johnny nei Tennessee Three negli anni ottanta, ed il bassista Dave Roe in tour con l’artista nella decade successiva ed il batterista Pete Abbott già con la Average White Band, sono il nocciolo  strumentale dell’operazione a cui si sono aggiunti Matt Combs (chitarra acustica e mandolino), Mike Rojas (Hammond B3 e pianoforte), Russ Pahl (chitarra, basso, dobro e steel), Sam Bacco (percussioni), Ana Cristina Cash (cori) e altri invitati tra cui Dan Auerbach , Harry Stinson, Vince Gill e Waylon Jennings la cui voce è stata salvata dalle originali session di I Love You Tonite e Like a Soldier. “Nell’approccio siamo andati dritti alle radici, per quanto riguarda il suono, e abbiamo cercato di non esaltarlo eccessivamente, afferma John Carter Cash -  l’abbiamo costruito come se papà fosse nella stanza. Fergie e io abbiamo trascorso migliaia di ore con papà nello studio di registrazione e quindi abbiamo cercato di comportarci come se fosse lì”. “Conosco John Carter da quando era un ragazzo, aggiunge Ferguson- quindi è stato fantastico poter  lavorare con lui. Mi ha lasciato molta libertà d'azione, soprattutto in termini di groove e cose del genere. Siamo andati proprio nella stessa direzione. Non c’è mai stata una conversazione o un piano su un prodotto finale, si è semplicemente trattato di fare del nostro meglio”.

Quelle di Songwriter  sono undici canzoni che parlano d’amore, dolore, bellezza, famiglia, salvezza spirituale, lotte personali e redenzione con quella profondità vocale e compositiva e quella lucidità che hanno reso Johnny Cash una leggenda, con l’aggiunta di un pizzico di spensierato umorismo. Undici gemme di saggezza, tormento e passione a cominciare dalla stupenda Hello Out There, afflato vocale gospel trasformato in una visionaria dimensione  cosmic-country  dal magnifico riff di Marty Stuart e dalla dilatata steel di Russ Pahl, un messaggio di salvezza che l’autore aveva registrato poco prima della collaborazione con gli U2 per The Wanderer. Non da meno è la seguente Spotlight, canzone sulla perdita di un’amore impreziosita dalla chitarra bluesy di Dan Auerbach, dalle percussioni di Sam Bacco, con l’ arrangiamento d’archi di Matt Combs che accompagna l’inconfondibile voce di Cash, una vera radiografia dell’anima. Drive On come Like a Soldier  facevano parte del primo capitolo delle American Recordings, la prima risplende nel lavoro di 4 chitarre in contemporanea (Stuart, John Carter Cash, Wesley Orbison, Russ Pahl) e parla delle difficoltà sopportate dai veterani di guerra del Vietnam comunicando attraverso un sound rarefatto tutto quel dramma, la seconda tratta invece della lotta di Cash contro la dipendenza. Scritta dopo un periodo in un centro di recupero si muove su una linea country-folk con la voce di Cash che sembra cercare una rinascita accompagnato dall’amico Waylon Jennings, uno degli outlaw della country music.

Due toccanti canzoni d’amore, entrambe dedicate alla compagna della sua vita June Carter deceduta tre mesi prima della sua scomparsa nel 2003 ritraggono un Cash accorato, signorile nel condensare in poche note e parole, con pacata discrezione, un estratto di storia personale sua e della famiglia. I Love You Tonite è una commovente lettera d’amore scritta alla moglie nel 1991 mentre Poor Valley Girl  parla sia di June che di sua madre Maybelle Carter e lo fa coi modi tipici del country più asciutto e domestico, col tocco raffinato del dobro di Russ Pahli , il contrabbasso di Dave Roe ed il contributo vocale di Vince Gill. Sulla stessa falsariga Soldier Boy è un estratto di arte della semplicità, rappresentazione di una voce universale che all’epoca in cui questi demo furono realizzati era piuttosto ignorata. Cash si trovava in una fase di pausa della sua carriera, non aveva ottenuto quello che gli era dovuto seppure avesse firmato un pezzo di storia musicale a stelle e strisce, solo le American Recordings  riporteranno la giusta e meritata attenzione sulla sua opera. A maggior ragione Songwriter, dal punto di vista lirico,  è album imprescindibile di un artista colto in un momento particolare della sua vita, con canzoni per la maggior parte inedite, “rivestite” a nuovo con l’intento di portare nuove persone a scoprire e approfondire la conoscenza di un artista tanto importante. Un autore che in Have You Ever Been To Little Rock  esprime l’orgoglio per la sua terra natale su una bellissima melodia tradizionale, mentre il tema della dolcissima  She Sang Sweet Baby James  ruota attorno ad una giovane madre single che canta Sweet Baby James di James Taylor per confortare il suo bambino. Johnny era un fan di Taylor sin da quando quest’ultimo si esibì nella prima stagione del "Johnny Cash Show" nel 1971. Se Well Alright  attraverso il ritmo sardonico del classico boom chicka boom  propone con umorismo l’incontro casuale tra una lei ed un lui in una lavanderia a gettoni, Sing It Pretty Sue estratta dall’antico booksongs di Cash è la confessione di un fan che abbandonerà ogni pretesa e non dirà a nessuno del loro incontro riguardo a  lei che ha rinunciato a tutto per una carriera affascinante ed essere una star di proprietà pubblica. Chitarre acustiche ed elettriche, sezione ritmica in punta di piedi per non privare la scarna poesia degli originali, sfumature e dettagli centellinati ad arte, lap steel e contrabbasso, melodie che pulsano di amore e sofferta esistenza, Songwriter  presenta undici canzoni di rara bellezza ancora più accattivanti con questo ritocco sonoro, il giusto riconoscimento ad uno dei grandi autori, narratori e cantanti della musica popolare americana, degno di sedere a fianco di Woody Guthrie, Hank Williams, Muddy Waters,  Bob Dylan.

Songwriter  è disponibile nella versione singolo CD con gli undici titoli citati e nella versione doppio CD con altri titoli noti del suo repertorio e brani ri-registrati negli anni ottanta.

MAURO  ZAMBELLINI     GIUGNO 2024

p.s  dedicata a Paolo Carù grande fan dell’uomo in nero.