giovedì 28 dicembre 2023

MY BEST OF 2023

 

Niente ristampe, edizioni deluxe, vecchi concerti ritrovati, solo dischi dell’anno. Questa è la sporca dozzina, un disco  al mese.



LUCINDA WILLIAMS  Stories from a rock n’roll heart

Il disco più nerazzurro dell’anno, lo dice la copertina, anche il più rock n’roll



IAN HUNTER     Defiance part 1

Il disco brit-rock dell’anno. Non fatevi ingannare dalla carta d’identità, qui c’è una vitalità che è rimasta ai tempi dei Mott The Hoople. Forever young.



JOHN MELLENCAMP   Orpheus Descending

Un disco  che unisce la grande canzone d’autore americana con la protesta socio-politica e la malinconia del tempo che passa. Caldo, arguto,confortante



THE ROLLING STONES    Hackney Diamonds

Una delle poche certezze rimaste da un secolo a questa parte



ANGELO leadbelly ROSSI   It don’t always matter how good you play

Come aprire un juke joint dalle parti di Gallarate e far divertire ogni sera con un show diverso. Blues a geometria variabile ed un tocco psycho



THE FUZZMEN     The Fuzzmen

Italian third mind. Shakerare garage, Traffic, jazz, Curtis Mayfield, southern e psychedelia. Servire a temperatura ambiente.



ROSE CITY BAND  Garden Party

Bucolici e psichedelici, rilassanti e gradevolmente erbivori. Nel senso della panama red.



DUANE BETTS   Wild & Precious Life

Paesaggio pastorale, chitarre in libera uscita, ballate al profumo delle magnolie, un pianoforte che svolazza e quella vecchia fascinosa aria del Sud. Come ringiovanire di 30 anni padre Dickie.



LANKUM    False Lankum

Tradizionali e solenni, cupi e dronati, celtici e psichedelici. Folk irlandese d’avanguardia. Mettersi il maglione di lana.



VAN MORRISON   Movin’ on Skiffle

Irriducibile. Le tradizioni “povere” della musica Americana trattate con un irish beat, una voce che è uno strumento e pinte di swing.



CHRIS   STAPLETON     Higher

Come unire il country di Nashville meno  edulcorato  con il soul di casa Muscle Shoals, il tutto dietro ad una voce forte ed autorevole



ROBERT FINLEY    Black bayou

I misteri, l’oscurità ed il blues del bayou, come nei racconti di James Lee Burke. Louisiana mon amour.

 


 

giovedì 23 novembre 2023

GOV'T MULE Teatro Dal Verme MILANO 20/11/23


 

 

Esiste la serata perfetta nel rock ? Si quando in città, nella fattispecie Milano, arrivano i Gov’t Mule e suonano in un teatro comodo, dall’acustica ottimale, davanti ad un pubblico caldo e competente che ricambia la bellezza che arriva dal palco con applausi e partecipazione sentita, così da instaurare quella sinergia tra artisti e pubblico che gli Allman chiamavano hittin’ the note. Avrò visto 8/9 concerti dei Muli ma questo del 20 novembre a Milano rimarrà impresso indelebile nella mia memoria, una band mostruosa costituita da quattro eccezionali solisti  che si fondono nella chimica di un insieme che non ha eguali oggi, per tecnica, amalgama e inventiva, regalando musica sublime anche quando, come nella prima parte dello show, può apparire dura, contorta, difficile ma sempre legata ad una idea di sperimentazione che si traduce al momento, mentre suonano  col sorriso sulle labbra, in assoli, rallentamenti, stacchi e ripartenze, parti cantate e torrenziali flussi sonori che portano l’ascoltatore in un paradiso del vero sentire dove si pensava fosse ormai già esaurito il numero dei concerti memorabili. 


Il dimagrito Warren Haynes, sempre modesto e affabile, è il condottiero di questa pattuglia che definire rock è limitativo perché nel loro concerto c’è di tutto ma solo esclusivamente musica, a parte il suggestivo gioco di luci di vago sapore psichedelico che illumina il palco. Solo musica perciò, che sa essere rock, blues, jazz, free, psichedelia, reggae, hard, fusi in composizioni che lasciano comunque trasparire il senso della canzone, anche quando questa si traduce in una jam che si vorrebbe non finisse mai. Haynes suona le chitarre con delicatezza come se le stesse accarezzando ma ne trae un fiume in piena, le conosce come se fossero suoi figli, non hanno segreti per lui, e canta con quella voce fatta apposta per strappare commozione nelle ballate blues, salvo urlare ogni tanto quando il tema diventa duro e rabbioso. Ma non è mai una rabbia iconoclasta, piuttosto una reazione a qualcosa di irragionevole ed ingiusto come nelle tematiche del blues, è statico in scena ma è la musica creata che vola, si innalza, attorciglia le emozioni, ti porta dove sogneresti essere. Di fianco a lui Danny Louis 


è la ragnatela sonora che collega il solismo di Haynes con lo stantuffo ritmico, avvolgendo il tutto. I suoi tocchi sono nobili ed estasianti, è solenne e drammatico, è lieve e fluido, sia quando è frontale verso la platea col suo Hammond o voltato di fianco sul piano elettrico. Berretto di lana, occhiali, sobrio nel look ma straripante con le dita è l’alchimista dei Muli, il lato melodico dell’ensemble, il contraltare del sempre più contratto (nelle pose) e magro Matt Abts  il treno su cui viaggia la musica dei Gov’t Mule.


 La quintessenza del batterista, picchia quando è il momento e poi diventa così soffice e delicato da sembrare che non abbia in mano nemmeno le bacchette quando Haynes smorza il pezzo, lo addormenta dolcemente in un affascinantissimo mood jazzy, dove sono solo i sussurri e i celestiali tocchi a tenere ancora in vita la canzone. Per poi riesplodere in un magma sonoro dove la Les Paul del leader  ricorda, a seconda dell’istante, B.B King o Santana, Duane o Elmore James (quando va di slide). 


Kevin Scott è il nuovo bassista, vecchia scuola non possiede il funambolismo del  dimissionario Jorgen Carlsson ma non sbaglia un tempo, è tosto ed il timing con cui risponde ad Abts è dimostrazione di dinamiche assolute. Alto, robusto, barbuto pare uno dei Metallica ma si è inserito perfettamente nel gruppo e quando fa il suo assolo gli altri lo assecondano come si deve, in un pulsante ed ipnotico drive. 


Energici, potenti e duttili i Muli affrontano la prima parte dello show con più durezza ma offrendo lampi di assoluto trance come Thorazine Shuffle  e diversi ripescaggi dal lontano passato. Riemergono Temporary Saint, Bad Little Doggie con cui si è aperto il concerto, l’omaggio a Monk di Thelonius Beck, la splendida sincopata Broke Down The Brazos e poi due titoli che giustificano il fatto che il tour è all’insegna della recente pubblicazione. Da Peace…..Like a River  arrivano difatti Peace I Need,  una chicca con quel carico di blues da pelle d’oca, e After The Storm, nella seconda parte ci sarà tempo anche per Shake Our Way Out. Chiude il set I Asked Her For Water e potrebbe essere già sufficiente se non fosse che dopo venti minuti di break, ciò che si ascolterà nell’altra ora e trentacinque minuti di concerto (durata totale 2 ore e quaranta) sfiora il soprannaturale. Haynes menziona Heavy Load Blues  e il blues sale in cattedra. Dopo la mirabolante Endless Parade e la reggatissima Unring The Bell,  chiama sul palco l’armonicista Fabio Treves e con lui eseguono Good Morning Little Schoolgirl  frazionata in un ritmo molto diverso dall’originale classica, quasi singhiozzante. Poi i Muli si scatenano nella lunga Sco-Mule  che tra rallenty, ripartenze, impennate e scorribande strumentali con un il drive bestiale di Matt Abts (sia Santo subito), Carlos Santana dell’età dell’oro sembra lì sul palco. Il momento più romantico dello show è affidato al colpo al cuore di Beautifully Broken e allora il Teatro Dal Verme ha ormai cambiato galassia e per chi è in sala non resta che abbandonarsi al piacere sensoriale di una musica totale. Potrebbero fare tre concerti in un giorno con scalette tutte diverse tanto è immenso il loro repertorio e la loro versatilità, scelgono Shake Our Way un funky nero come la pece e la lunga Feel Like B.U.S.H,  un blues urbano ad alto numero di ottani per chiudere lo show. L’encore non si fa attendere,  Haynes canta solo a-cappella e commuove con Grinnin’ in Your Face  di Son House, poi richiama Treves in Long Distance Call di Muddy Waters, l’amore di entrambi, e trascina Muli e pubblico adorante in Soulshine, finale previsto di un concerto straordinario. Eleganza e sensibilità,  Soulshine  non è solo la canzone più nota dei Gov’t Mule ma è anche il filo che riconduce agli Allman (uscì nell’album Where It All Begins ), la band che ha dato i natali a tutta questa fantastica storia musicale che dura tutt’ora.

 

MAURO ZAMBELLINI 

Le foto sono dell’amico Zanza

 

giovedì 19 ottobre 2023

THE ROLLING STONES Hackney Diamonds


Diciotto anni di attesa sono tanti, nonostante la parentesi cover blues di Blue and Lonesome, ma ne valeva la pena perché Hackney Diamonds è un album sorprendentemente fresco e al passo coi tempi. I Rolling Stones dimostrano la loro longevità artistica con un album forte, brillante, energico, evocativo dove sono presenti gli elementi caratteristici del loro stile ma spostati in avanti in virtù di una produzione, il newyorchese Andrew Watt (Elton John, Iggy Pop) che ha saputo conferire al loro sound quella lucidità e modernità necessarie per non scivolare in un prodotto di nostalgia o una ripetizione di uno standard. Registrato in diversi studi sparsi per il mondo, da Los Angeles a New York, da Londra a Nassau, ed intitolato come lo storico Hackney Empire, epicentro dell’arte pionieristica nell’East London da almeno 125 anni, e suonato dai tre rimasti del gruppo più una pletora di collaboratori tra cui Benmont Tench, Paul McCartney, Elton John, Matt Clifford, con la presenza di Steve Jordan alla batteria (ma in un paio di brani c’è ancora Charlie Watts ed in uno Bill Wyman), Hackney Diamonds è una dimostrazione di vitalità senza eguali, la testimonianza di una band rimasta ancorata a quel flusso di rock n’roll e blues che ha forgiato la loro essenza artistica e la loro passione, nonché la loro carriera. Si rimane sbalorditi davanti a dei musicisti instancabili che pur conoscendo così tanti saliscendi, baciati dal successo ma anche avversati da lutti e capitomboli, riescono ad essere ancora oggi portavoce di un rock n’roll che nonostante il fiorire di tanti altri idiomi musicali, rimane una plausibile fonte di piacere, eccitazione e consolazione. Mick Jagger, Keith Richards e Ron Wood e con loro tutti quelli che si sono portati appresso in questa cavalcata selvaggia, hanno realizzato un lavoro che appaga i desideri di qualsiasi fan, dove ballate romantiche e polverose convivono con micidiali e feroci pugnalate rock, canti gospel inneggianti a quegli anni settanta di cui loro furono angeli e diavoli si intrecciano con sensuali e maliziosi funk di scuola soul, vecchi blues acustici dell’età della pietra si accompagnano a smargiassi pop-rock adatti a riempire di eros, macchine e cuoio nero un video con cui far ballare il mondo intero (se questo pensasse di più a divertirsi che a creare guerre). Insomma Hackney Diamonds è un disco che ha lasciato di stucco anche un vecchio fan come me e questo non è lavoro per cui bisogna dire l’età degli autori per esaltarlo o semplicemente giustificarlo, questo è un ottimo disco di rock, senza tempo e senza ma. Parte con Angry, il singolo pubblicato il cui video diretto da Francois Rousselet riassume la risaputa iconografia glamour del gruppo tra scenari urbani, auto sportive, belle ragazze e cartellonistica amarcord, ma subito dopo si entra in pista con le scalpitanti note di Get Close in cui appare chiaro come  la voce di Jagger sia ancora giovane e squillante e come il drumming di Steve Jordan sia ben diverso da quello di Charlie Watts, più tosto e meno swingante e quindi più in linea con la moderna produzione di Watt. Detto questo, chi scrive non dimentica che la peculiarità ritmica degli Stones sia stato lo swing del maestro Watts. Matt Clifford e Elton John lavorano con le tastiere, il produttore Andrew Watt si occupa del basso, in altri pezzi ci penserà Keith Richards, le chitarre graffiano. A metà irrompono il sassofono di James King e Ron Blake e allora è facile ricordare quello che facevano Bobby Keys e Jim Price quando c’era bisogno di sporcare il rock con il rhythm and blues del Sud. Arriva Depending On You e le acque si calmano, una superba ballata con tanto di arrangiamento d’archi (dovrebbero prendere nota quelli invaghiti dalla pompa magna delle stelle dell’Ovest ) evoca l’antica bellezza di Waiting For A Friend, un’ aria di romantico e corale country&western infonde un sapore epico. Al pianoforte c’è Andrew Watt, l’organo è di Benmont Tench, Jagger è un mattatore, il crescendo mette al tappeto anche i più duri del reame, traspare commozione. Niente lacrime di circostanza, gli Stones innestano la marcia e con due brani estraggono l’armamentario da battaglia. Bite My Head Off è di una violenza inaudita, chitarre a palla, suono compatto, furia punk, giro ossessivo, muscoli ed urla. La cosa che lascia di stucco è il basso nelle mani Paul McCartney, ovvero come schiaffeggiare una carriera con tre minuti e mezzo di hard-rock. Non da meno è Whole Wide World, una sorta di rockabilly metallizzato alleggerito da un refrain cantabile e indurito dal secco e arrembante assolo di chitarra di scuola British. Andando di questo passo ai tre verrebbe un infarto e allora in  Dreamy Skies la slide di Ron Wood ricama uno sfilacciato country della serie Faraway Eyes. Jagger parlotta citando Hank Williams e l’honky tonk, le chitarre acustiche ci mettono una elegia western e la sezione ritmica lavora in punta di piedi. Al contrario in Mess It Up gli Stones si ricordano di aver fatto ballare tutte le discoteche del pianeta con Miss You, Charlie Watts swinga ed il brano si traduce in un funk-dance piuttosto furbetto, col falsetto di Jagger che rimanda alle leggerezze pop di Emotional Rescue. Niente di grave, Elton John, Bill Wyman e Charlie Watts rimettono le cose in carreggiata, Live By The Sword è tagliente come una lama, suona come una registrazione live, inizia con una nota rubata a Spoonful e poi diventa un duro pop-rock venato di blues per cui gli Artic Monkeys farebbero carte false per averlo. Chitarre strapazzate e martellate da parte di Jordan, delirio e caos. Come da copione il ritmo rallenta, Driving Me Too Hard è un'altra ballata polverosa e stradaiola, da gustarsi in autostrada. Jagger è superlativo e sa che di lì a poco entrerà in scena Keith Richards per una di quelle sue ballate dondolanti di soul esangue ed intimo ma emozionante da morire. Keef non si smentisce e lascia il segno nella lenta Tell Me Straight. Siamo alla traccia numero undici ed è il momento di alzarsi in piedi per un applauso fragoroso. Nei sette e passa minuti di Sweet Sound of Heaven, un canto celestiale di spiritualità biblica, convergono il soul, il gospel delle chiese battiste del Sud, riverberi old shool, You Got The Blues e You Can’t Always Get What You Want, Gimme Shelter ed una magnifica Lady Gaga che qui fa la Merry Clayton della situazione dialogando con l’inarrivabile Mick Jagger in una ascesa vocale che porta direttamente in Paradiso. Al pianoforte c’è Stevie Wonder, il finale e la coda sono brividi caldi di estasi e piacere, pura  leggenda, tra le cose migliori dei Rolling Stones dal 1972 ad oggi.

Dove è nata tutta la storia, si chiude. In due minuti e 45 secondi Jagger e Richards, nudi e soli, voce, chitarra e armonica, rileggono la genesi del loro viaggio nella musica con una scarna , primitiva e spartana Rolling Stone Blues dove il blues di Muddy Waters incontra quello di Skip James. Eleganza, amore e riconoscimento verso i padri fondatori di tutto quello che è venuto dopo, i Rolling Stones rimangono la più grande rock and roll band del pianeta, vecchi e solo in tre in un mondo che ha perso la ragione.

 

MAURO  ZAMBELLINI    OTTOBRE 2023 

giovedì 21 settembre 2023

DUANE BETTS Wild & Precious Life

Tale padre, tale figlio. Richard “Dickie” Betts ha passato la sua arte musicale al figlio Duane ed il risultato è qui da sentire, Wild & Precious  è un ottimo disco che rinfresca come meglio non  poteva l’immortale e amato sound della Allman Brothers Band, catapultandolo ai giorni nostri senza troppe rughe e nostalgia. Il merito è tutto di Duane Betts anche se va riconosciuto al padre di essere stato un maestro perfetto perché come canta e suona la chitarra il figlio è frutto di una educazione tecnica e sentimentale che non lascia dubbi in merito. Wild & Precious Life è il primo disco completo di Duane Betts, dopo essere stato nella band di suo padre, The Great Southern. Nel 2018 aveva pubblicato un interessante Ep a suo nome, Sketches of American Music  per poi dare vita col figlio di Gregg Allman, Devon e con Berry Oakley Jr., figlio del bassista della ABB, alla Allman Betts Band. Due album a loro nome, tre chitarre soliste in azione, compresa quella di Johnny Stachela e due cantanti dalle voci molto diverse, lui e Devon. Adesso il salto solista, e che salto. Accompagnato al basso da Berry Oakley Jr., da Johnny Stachela, dal batterista Tyler Greenwell e dalle tastiere di John Ginty, co-produttore dell’album, Duane Betts inforca la chitarra e canta dieci canzoni scritte di proprio pugno, inconfondibilmente allmaniane nello stile ma arricchite da una personalità che, pur risentendo di tale background, infonde emozioni che i due album della Allman Betts Band non trasmettevano. Merito suo come compositore e del superbo team di musicisti coinvolti, dove non mancano invitati speciali come Derek Trucks, Marcus King e Nicki Bluhm. Certo ci sono momenti che rievocano il passato, in Waiting on a Song è facile ritrovare Blue Sky  con quell’assolo che produce arpeggi squillanti e armoniche sequenze che erano pane per Dickey Betts, e la strumentale Under The Bali Moon ricorda l’architettura sonora di Elizabeth Reed , una jam di jazz e rock che si sviluppa su un pianoforte tintinnante a supporto delle chitarre, ma Duane Betts sa prendere quei momenti nella sua direzione e li usa in modo singolare. Con estrema fluidità va su e giù sul manico della chitarra, fornendo paesaggi sonori lussureggianti di un southern rock non ancora in archivio e regala canzoni di perdita e di amore, di lotta e gioia, con correnti di note, frasi su frasi, ponti strumentali dove il leader e Johnny Stachela dialogano da grandi performer e il puntiglioso lavoro al pianoforte e all’Hammond di John Ginty, un gigante, ricama il tutto. L’iniziale Evergreen è un biglietto da visita coi fiocchi, l’arpeggio delle chitarre acustiche, il piano e l’Hammond come detonatori della forza propulsiva della sezione ritmica e delle chitarre prima che la tromba di John Reid metta disordine al brano con un finale jazzy. Forrest Lane è bucolico country-rock di forme dolci e ondulate, ricorda quanto fece il padre Dickey nel primo album dei Great Southern, anche qui l’Hammond è determinante nell’economia sonora del brano, quasi sulla stessa lunghezza d’onda Colors Fade emana una rilassatezza country-blues con la voce di Niki Bluhm e note accarezzate da chitarre da sogno. Nei sette minuti di Saints to Sinners,  Betts e Stachela si dividono i compiti in una jam che ripristina la dualità chitarristica della Allman Brothers Band, quando entra in scena Derek Trucks in Stare at The Sun  i suoi brucianti e convulsi fraseggi marchiano un brano dalla forte impronta blues. E’ invece Marcus King l’invitato in Cold Dark World, lui e Betts, con la complicità di Stachela, si rincorrono a suon di roventi riff sullo sfondo del lamentoso Hammond di Ginty mentre basso e batteria incalzano con un dinamismo da combo jazz . Circles in The Stars chiude le danze, una romantica ballata dove regnano il pianoforte, la lap steel e la melodiosa voce di Duane Betts.

Registrato allo Swamp Raga Studio di Derek Trucks e Susan Tedeschi a Jacksonville, Wild & Precious Life  finalmente ridà voce con dignità a quello che una volta chiamavamo southern rock, una brillantezza e freschezza anni luce distante dalla retorica caricaturale di tante band del settore. Blues, country, rock e swing cucinati con spezie regionali e tocco da grande chef.

 

MAURO ZAMBELLINI     SETTEMBRE  2023

 

 

sabato 26 agosto 2023

WILCO Todays Festival TORINO 25/08/23


 

Non pensavo di emozionarmi ancora così tanto ad un concerto rock visto l’età e la mole di eventi simili alle mie spalle, ma è successo e quando le luci sul palco si sono spente a mezzanotte di un caldissimo 25 agosto torinese, da una parte ero amareggiato perché avrei voluto partecipare a quella festa dello spirito e dei sensi per un’altra ora, e da una parte viaggiavo alto su una nuvola di benessere per aver assistito ad uno show che mi ha riconciliato coi valori più veri del rock n’roll. Attorniato da un pubblico finalmente molto più giovane di me, salvo una buona dose di eccezioni, che cantava a memoria e ballava di felicità sulle note della più straordinaria rock band degli ultimi venticinque anni, sebbene il sottoscritto ami anche con ardore i Drive By Truckers pur con le dovute differenze. Bello il pubblico, bella l’atmosfera ruvida e non celebrativa del Todays Festival, salvo le consuete interminabili file per un panino (ci ha salvato un chiosco di kebab proprio prima di imboccare l’autostrada al ritorno, frequentato da un campionario umano che se ci fosse stato lì Tom Waits avrebbe fatto minimo un doppio album), niente pit e tokens e finalmente di livello internazionale il sistema audio, suono pulito e volumi giusti anche quando le frizioni rock imponevano watt a valanga. L’ultima volta che avevo visto Wilco era il settembre del 2019 al Fabrique di Milano e pur essendo stato un buon concerto avevo pensato che il meglio di loro, sia su disco che su palco, fosse passato, avvertii una flessione nell’ entusiasmo, un ripetersi senza troppa energia, rispetto a quanto vidi negli anni precedenti. Quello era il mio quinto concerto e con dispiacere mi sorse il dubbio che la strada verso una dignitosa standardizzazione fosse stata imboccata. Sbagliavo e proprio in quello sta la forza di una band capace di scatenare le emozioni, quella di smentirti, di sorprenderti, di spiazzarti, inebriandoti ancora con la propria musica, che nel caso di Wilco non è cambiata, caso mai si è arricchita di altre sfaccettature. La pausa per la pandemia, i lavori solisti del leader Jeff Tweedy ed un disco ispirato come il recente Cruel Country hanno ridato fiato e impeto alla band tradotte in una performance, quella del Todays Festival (ma non è stata da meno quello della sera precedente a San Mauro Pascoli) che ha raggiunto le vette di quella magistrale esibizione del luglio 2007  nello stesso luogo, quando ad un certo punto dell’esecuzione di Spiders (Kidsmoke) la corrente saltò e Jeff Tweedy trascinò il pubblico a seguirlo nel cantare all’unisono il refrain della canzone per quasi dieci minuti. Una dimostrazione di sinergia tra artista e pubblico rara da trovare nelle arene del rock, ebbene Tweedy ricordandosi di quel magico momento ha iniziato lo show torinese con la stessa canzone stoppando la band ad un certo punto e riprendendo di nuovo a cantare assieme al pubblico il ritornello, come se la storia si fosse fermata a quindici anni fa e noi e loro fossimo ancora lì a gustarci quella magia. E di fatto eravamo ancora lì, magari aumentati di numero a rispettare una band ed una musica come non ce ne sono altre, capace di infonderti una felicità che almeno nel mio caso avevo dimenticato in un concerto. Tweedy ha dimostrato di avere con Torino un rapporto particolarmente intimo, per tutto il concerto ha sorriso, così come i suoi compagni di ventura, divertiti di trovarsi davanti ad una platea che non ha lesinato applausi e gesti di riconoscenza e amore. Non poteva iniziare meglio lo show che si è poi rivelato di una forza, potenza e lucidità straordinarie con oasi bucoliche di ballate dal profumo californiano e momenti di assoluta controllata baraonda rumorista, dove Nels Cline faceva urlare le sue chitarre in territori limitrofi al free jazz indirizzandosi su ardite scale elicoidali, e Pat Sansone, abbandonate per un attimo le tastiere, gli rispondeva con una veemenza chitarristica che lasciava di stucco per come fondeva Television e Johnny Thunders, sferzante rock anni 70 e punk, Crazy Horse e artiglieria tedesca. In mezzo, ingrassato, paffuto e stranamente solare Jeff Tweedy teneva il timone con le sue chitarre acustiche, quelle canzoni che sembrano frutto di un improvvisato colpo di genio ed invece posseggono una ricchezza che sintetizza metà della storia della musica rock e quella voce tra il trasognato, il romantico e il malinconico, a tratti sorniona a volte liberata in urla di rabbiosa gioia. Di fianco a lui un bassista poco menzionato, ma assistere a come pompava nell’iniziale Spiders per rendersi conto che John Stirratt è uno degli elementi cardini del sound della band e assieme al vulcanico picchiatore Glenn Kotche, uno dei migliori batteristi in circolazione, costituisce una sezione ritmica capace di fare la differenza, e come per gli Heartbreakers di Tom Petty, distingue una rock band da una grande rock n’roll band quali sono oggi Wilco. Potrà sembrare superfluo ma anche l’uomo nell’ombra, il pianista e tastierista Mikael Jorgensen, è basilare nell’economia del gruppo, e lo si sente quando accompagna con note basse le ascese verticali di Cline, che detto tra noi è colui che ad un certo punto ha cambiato l’impatto live della band dandogli una connotazione meno classica, più sghemba, improvvisata, aperta a schegge impazzite anche quando la canzone pare iniziare come una innocua ballad country&western rubata a Gram Parsons. Se qualcuno si aspettava che Cruel Country potesse limitare l’impatto sonoro del set di Wilco con una dimensione più dimessa e minimale, è stato smentito perché molte sono le ballate che la band mette in campo creando suggestioni pastorali e sognanti orizzonti folkie, e da quell’album sono arrivate la canzone titolo, I Am My Mother e Falling Apart (Right Now), ma le versioni che ne danno è fuori da qualsiasi copia e incolla ed è bastato ascoltarsi come hanno trattato Bird Without A Tail/Base of My Skull con Cline e Sansone scatenati con le chitarre per capire la qualità rivoluzionaria del loro gesto, in molti momenti pronto a tradursi in jam che lasciano increduli e senza fiato. Ma Wilco sono stati forgiati da un passato di dischi preziosi e fondamentali, fa ancora piacere vedere un album come Being There che contrassegnò il distacco definitivo dall’eredità di Uncle Tupelo mandare in visibilio il pubblico con Misunderstood  e I Got You at The End of The Century, che ogni volta mi dà per un attimo l’impressione di essere una cover dei Big Star, e Outtasite(Outta Mind) con cui si è chiuso il concerto. Da A Ghost Is Born sono state estratte oltre al brano di apertura, Hummingbird, una sorta di scanzonato cabaret alla Kinks e la magnifica The Late Greats che assieme a Jesus, Etc. racchiude l’irresistibile sapienza melodica della scrittura di Tweedy. Impossible Germany iniziata in sordina ma poi scarabocchiata con cruente senso free dall’assolo di Cline ha mandato in visibilio l’intero festival ed un altro applauso fragoroso ha accompagnato I Am Trying To Break Your Heart dove si consuma il delirio sonico della loro musica tra margini angelici e celestiali del cantato di Tweedy e lo sprofondamento nella infernale tempesta elettrica creata dal resto della ciurma, un sabba che evoca il kraut rock. A Shot In The Arm, unico estratto da Summerteeth ha il potere, ed è una delle loro caratteristiche, di creare una eccitante e sospesa aspettativa prima della deflagrazione finale, con le voci che man mano lasciano il posto al forsennato accavallamento degli strumenti con Kotche che picchia come un ossesso e Sansone e Cline che se la sparano a mille in una battle of guitars che non fa prigionieri. Rimangono sul campo altri titoli tra cui Random Name Generator presa da Star Wars e Downed On Me da The Whole Love ma ormai il Todays Festival è ai loro piedi e Jeff Tweedy e compagni rispondono con l’assoluta semplicità delle anti-star, nessuna enfasi celebrativa, solo il grande potere di un rock n’roll che ha assorbito il passato, le giungle urbane, i colori tranquillizzanti delle campagne lungo le highways, l’amarezza del presente e uno sguardo amorevole verso il futuro. Wilco rimangono qui a farci credere che il rock n’roll sia ancora un grande sogno.

MAURO ZAMBELLINI   AGOSTO 2023

La foto è dell'amico Paolo Baiotti

 

 

martedì 4 luglio 2023

ROBICHEAUX James Lee Burke


 Il ritorno nell’editoria italiana di James Lee Burke non può che far piacere agli estimatori del noir hard-boiled americano che nell’autore nato nel 1936 a Houston ma residente oggi nel Montana, ha una delle attuali punte di diamante. Dopo la raccolta di racconti Gesù dell’Uragano, quelli di Jimenez pubblicano un romanzo uscito originariamente nel paese d’origine nel 2018 col titolo di Robicheaux ovvero il cognome del detective inventato da Burke protagonista della stragrande maggioranza dei suoi scritti. Tale scelta mette in luce l’intento narrativo, quello di riversare nelle dense 459 pagine del romanzo l’intero universo del mondo e delle storie che da anni circondano Dave Robicheaux come fosse l’obbligata sintesi della sua visione tribolata, romantica, allucinata di un profondo Sud americano, in particolare New Orleans e la Louisiana, che concede poche chance all’ottimismo e alla lotta dei ricchi corrotti e dei demagoghi contro gli ultimi e i senza colpe. Tormentato tra gli incubi ricorrenti sul Vietnam, visioni deformate di una Guerra Civile che ancora vive in un retaggio culturale alienato, la battaglia contro l’alcolismo e la perdita della moglie Molly in un incidente automobilistico, i suoi pensieri sono diventati sabbie mobili e lo spettro della ricaduta è sempre lì pronta ad addentarlo, come una scimmia sulla schiena. Il suo codice etico lo rende santo in una società che ha perso il senso di grandezza e ha ereditato la vergogna, ma i suoi peccati e le sue debolezze sono altresì un bagaglio nascosto salvo riemergere all’improvviso nella loro drammaticità. Durante un’indagine  scopre che potrebbe essere lui stesso l’assassino dell’uomo che ha tolto la vita alla sua Molly, ma la memoria è offuscata dall’alcol consumato quella sera e sulla sua strada trova un collega il cui codice morale è peggio di quello di uno stupratore che pensando di essere immune da un torbido passato, lo vuole incastrare. Mentre si adopera per ripulire il proprio nome e smontare l’assurda congettura contro di lui, Robicheaux incontra un incredibile cast di personaggi che non solo paiono i soggetti di un film ma sono aggrovigliati in una quanto mai strampalata velleità di sentirsi orgogliosi del loro essere del Sud tentando di realizzare un film sulla Guerra Civile. Fat Tony è l’obeso mafioso locale che prima di uscire di scena, ammazzato da uno psicopatico giustiziere che fa ridere i bambini e piangere chi è sulla sua lista dei cattivi, sogna di produrre il film, Jimmy Nightingale è l’altolocato locale dai modi signorili e dai progetti loschi, ambisce ad un posto al Senato della Repubblica sollecitando gli istinti più bassi dell’elettorato, Levon Broussard è uno scrittore stimato che si porta appresso un senso di colpa irrisolto, con al fianco una moglie Rowena le cui paure sono il risultato di violenze subite nella vita precedente. Il groviglio sembra portare la storia su binari diversi da quello che è l’originale plot di Robicheaux, risolvere un caso di omicidio, ma la Louisiana che si estende tra i ricordi di una New Orleans che non esiste più e le limacciose acque del Bayou Teche nei pressi di New Hiberia è la terra più fertile per annebbiare la verità e le menti, fomentare dubbi e confusioni e far rinascere forze oscure che minacciano di distruggere tutti coloro che Robicheaux ama. Come la figlia Alafair, laureatasi in scrittura e anche lei coinvolta nella realizzazione del film storico, come il ribollente Clete Purcel, amico di lunga data, selvaggio e dolce come può esserlo una palude della Louisiana, che lo aiuta a mettere insieme un puzzle in cui una serie di reati, dallo stupro agli omicidi efferati, si sovrappongono nella strana, e perduta, lotta di offrire un briciolo di senso al tutto. Clete salva la vita di un uomo che odiava, Jimmy Nightingale è diventato senatore degli Stati Uniti, l’assassino soprannominato Smiley si è dileguato in Messico o in qualche isola dei Caraibi, Levon e Rowena hanno adottato il figlio di un pregiudicato (assassinato) che lo aveva abusato da bambino e Dave Robicheaux ancora una volta, tra una seduta dell’Anonima Alcolisti e l’altra, ha imparato a lasciare che le stagioni facciano il loro corso e a non opporsi all’attrazione terrestre, al movimento delle maree e all’ammonimento che per correre non basta essere agili, anche perché la terra rimane sempre la stessa. Molta confusione sotto il cielo, tutto bene quindi, un romanzo crudo, suggestivo e mordace, stappatevi una birra e ascoltatevi Willy DeVille periodo New Orleans.

MAURO ZAMBELLINI   4 luglio 2023


lunedì 19 giugno 2023

JOHN MELLENCAMP Orpheus Descending


 

 

L’invecchiamento e la morte sono diventati temi ricorrenti nel rock, mai come oggi. La longevità artistica di molti autori permette tale riflessione dopo che nel passato molti di quelli che avevano inventato la cultura rock se ne sono andati prematuramente o avevano abbandonato il campo. Per fortuna c’è tutta una generazione che è rimasta, è sopravvissuta, ha resistito al tempo e ai cambiamenti ed è diventata anziana con lo stesso rock n’roll. Cosi abbiamo artisti che raccontano il loro percorso dall’età della gloria giovanile a quella senile, mi vengono in mente i più noti, Eric Clapton, Bob Dylan, Van Morrison, Paul McCartney, Bruce Springsteen e appunto John Mellencamp che nella sua carriera ha attraversato tutte le tappe, dall’euforia giovanile di American Fool al canto di protesta di Scarecrow,  dagli Stones di Uh-Uh alle celtic roots di The Lonesome Jubilee, dalla pura e quadrata essenza rock di Whenever We Wanted al Woody Guthrie di Trouble No More fino al rauco, dimesso, country-folk blues degli ultimi album, compreso il recentissimo Strictly A One-Eyed Jack, parente stretto del nuovo Orpheus Descending. Il rischio di affrontare un tema così insidioso come quello dell’invecchiamento è cadere nella tristezza fine a sé stessa, in un tedio asfissiante, nell’autocommiserazione o al contrario nella glorificazione di sé e del proprio passato. John Mellencamp evita il tranello senza barare, senza truccare le carte, senza esibire un artefatto giovanilismo, piuttosto incastra tale tema su una osservazione ancora vivida, critica, amara ma capace di infondere forza e resistenza, della realtà  che lo circonda, in particolare quella del suo paese. Cosi attraverso undici canzoni di alto livello compositivo e sonoro risulta si essere saggio come lo può essere un settantenne ma che ancora cammina sull’altra parte della strada, quella parte che non è  mainstream e nemmeno il muscolare rock adulto di tanti veterani di questa musica. John Mellencamp è invecchiato bene nella sua musica e nella sua sensibilità sociale, pur con una voce incatramata da migliaia di sigarette che lo fanno assomigliare oggi più a Tom Waits che all’amico di Jack and Diane. Orpheus Descending è un disco maturo, emozionante, caldo e profondo fatto di ballate malinconiche dove è il ripensare alla vita che è trascorsa ( cercherò di fare del mio meglio nella vita che rimane suggerisce  nella conclusiva Backbone) il motivo ispirante, di polveroso folk-rock sullo stato delle cose ( nella terra dei cosi detti liberi non ci sono eroi da nessuna parte canta in The So-Called Free) ma anche di gagliardi colpi rock decisi e ben assestati dove si ascolta con piacere il suono della National resofonica (il fido Andy York) ed il ritorno del violino di Lisa Germano. Orpheus Descending suona come un atto di resistenza, nella ricerca di un bagliore di luce e speranza, anche se il mondo è andato nella direzione opposta di come si desiderava. C’è’ sempre un fottuto modo per reagire indica la canzone titolo, Mellencamp nonostante tutto mantiene il suo ottimismo, per quanto doloroso possa sembrare e offre con la sua musica un grido di battaglia lungo la strada. Senza fare sconti a nessuno, come l’inizio crudo e diretto dell’album suggerisce. Hey God sul tema della violenza delle armi in Usa è una rock song dal ritmo conciso ed insistente, sibila il violino di Lisa Germano e Mellencamp, per stare in tema, mostra le sue cartucce da sparare. La seguente The Eyes of Portland è commovente e non potrebbe essere diversamente, l’incontro con una senzatetto pone sul piatto il problema della povertà e dell’esclusione. La slide, la voce waitsiana e l’arrangiamento paiono sottolineare le ingiustizie di un mondo siffatto con un afflato che sta tra Steve Earle e il blues antico. Ancora la National blueseggia in The So-Called Free ma il ritmo meno metronomico è dinamico ed in levare, con la linea di organo che infonde sapori di Muscle Shoals. Voce gutturale e arpeggi di chitarra la portano nelle strade del Sud. The Kindness of Lovers,  Perfect World e Understated Reverence adottano un tono più dimesso ed intimista, il violino suona funereo nella prima, il brano più cupo del lotto, c’è tanto Dylan nella seconda, accompagnato dall’armonica e  dall’Hammond, un elegiaco pianoforte (ed il violino) regalano dolcezza alla terza come se fosse il Mellencamp di Big Daddy. Ma l’urgenza non è dissolta anche se il disco conserva un suono uniforme che a molti parrà ripetitivo, come è successo in anni recenti,  One More Tick attraverso ritmi scomposti che era dai tempi di Mr.Happy Go Lucky che non si sentivano crea un ardito gioco tra latin, blues e rock, e la canzone titolo esibisce la scioltezza e l’appeal di quel pezzo da novanta che era Freedom’s Road. Forse il brano che meglio sintetizza tutto l’album è la lunga ballata Lighting and Luck dove il racconto di Mellencamp ci prende per mano e nel verso usa quello che hai per ottenere ciò che vuoi confida che le cose possono cambiare se le persone sono disposte ad impegnarsi. Ancora il violino di Lisa Germano, le chitarre baritonali, le voci femminili ed un John Mellencamp con la voce sgraziata dal tabacco e dal tempo ma in grado di tenerci ancora attaccati a lui, alla sua musica, al messaggio di chi è rimasto un outsider.

MAURO ZAMBELLINI     GIUGNO 2023

mercoledì 31 maggio 2023

GOV'T MULE Peace......Like a River

 

Registrato durante le sedute di Heavy Load Blues presso The Power Station nel New England con il produttore John Paterno (Elvis Costello, Los Lobos, Bonnie Raitt)che ha affiancato Warren Haynes, i due dischi sono però stati realizzati in sale diverse senza usare le stesse apparecchiature. Peace....Like A River è un potente album di rock che non sfigura nella discografia in studio dei Gov’t Mule per varietà ed ampiezza espressiva. Dodicesimo album della loro collezione ( senza contare i numerosi live) ribalta un po’ l’idea generale venutasi a creare nel tempo che i Muli siano sostanzialmente una band live bravissima nelle cover ma piuttosto debole nello scrivere in proprio e nel lavoro in studio. Peace…..Like A River respinge questo punto di vista attraverso tredici tracce, ma ce ne sono altre cinque contenute nell’Ep Time of The Signs che accompagna il CD, che oltre a fornire ottimo materiale da sviluppare nelle performance dal vivo, mostra quanto sia sfaccettata la musica dei Muli oggi, non riducendosi solo al lato più imponente e granitico. Certo, anche qui i Muli si confermano una potente macchina da guerra con un impianto tecnico e strumentale da paura, a cominciare dal bassista Jorgen Carlsson cresciuto in maniera vertiginosa negli anni e dal lavoro non più solo  riempitivo del tastierista Danny Louis, per non dire del drumming quadrato e killer di Matt Abts e di Warren Haynes, per il quale ormai sono stati consumati tutti gli aggettivi sia per quanto riguarda la chitarra che il modo di cantare, ma Peace….Like A River è anche un disco di canzoni una diversa dall’altra dove non mancano fantasia, arrangiamenti di fiati, echi di rock, soul, blues e jazz dell’epoca d’oro, melodie e armonie vocali degne di un ottimo songwriting. Ne viene fuori uno stile compositivo il più possibile conciso che coesiste con le sortite solistiche individuali, brani che rimangono compatti pur lasciando spazio alle divagazioni strumentali. Muscoli e cuore, potenza e romanticismo, Peace….Like A River a livello tematico affronta gli eventi che hanno investito il mondo in anni recenti a cominciare da pandemia e guerre, per chi scrive è un ottimo compromesso tra songriwiting e suono. La presenza di alcuni invitati aggiunge brillantezza al quadro generale, se Same As It Ever Was è l’apertura classica che ti aspetti da un disco dei Muli, con l’alternanza di pause e frustate sonore che ti portano sulle montagne russe del loro rock-blues fino al dirottamento finale tenuto saldamente in mano dalla chitarra di Haynes e dall’organo di Louis, l’arcigno funky-blues Shake Our Way Out dà modo a Billy Gibbons di inscenare quel power-sound da trio tipico degli ZZ Top dove basso e batteria sono una vera deflagrazione tellurica. Granitico, duro, possente, è uno degli episodi di continuità coi Gov’t Mule delle origini. Di diversa ambientazione è Dreaming Out Loud scritta da Haynes citando discorsi di Martin Luther King , John e Robert Kennedy, Danny Louis col piano elettrico costruisce il terreno ritmico dove si innesta una elegante sezione fiati mentre gli interventi vocali di Ivan Neville e della blueswoman Ruthie Foster accompagnano Warren Haynes in quello che sembra un numero di revue R&B da grande orchestra. Un’altra cantante fa la comparsa nel disco, l’ emergente Celisse Henderson si infila nelle note della lenta e bluesata Just Across The River, ennesimo titolo che usa il fiume come metafora, al contrario il talkin’oscuro e deep south di Billy Bob Thornton caratterizza The River Only Flows One Way, brano che scorre sulle dinamiche di un reggae visionario, dubbato e ipnotico con tanto di sezione fiati nel rispondere alla sezione ritmica. Se questo è il banchetto con gli invitati, il resto non è certo un menù da ospedale. After The Storm mischia Santana e jazz-rock di primissimo taglio che lascia spazio all’Hammond di Louis di giganteggiare e a basso e batteria di creare un groove sornione ed irresistibile, gli sporadici interventi di Haynes con la chitarra sono schizzi da grande illustratore. Long Time Coming sembra studiato apposta sulle sonorità tra jazz, blues orchestrale e rock dell’omonimo album degli Electric Flag, Gone Too Long si sviluppa come una ballata appassionata dai risvolti romantici e l’ assolo di Haynes è da antologia , Made My Peace è piacere assoluto per le orecchie,  Head Full of Thunder e  Peace I Need sono scuola per bassisti e batteristi.



Ad un album di per sé già piuttosto lungo, si aggiungono nell’edizione in CD le cinque tracce dell’Ep. Vale la pena citare la tesa e jazzata Stumblebum, Time Stands Still colorata dal coro femminile e dal funambolismo delle tastiere, i toni scuri, sibilanti e notturni di Blue, Blue Wind con tanto di tromba che imita Miles Davis e The River Only Flows One Way questa volta cantata dallo stesso Haynes.

Senza i Gov’t Mule il rock non avrebbe più quella avventurosa attitudine alla sperimentazione che fu di grandi band del passato, Allman e Dead in primis, detto questo non resta che alzare il volume e sedersi sulla riva guardando scorrere Peace….Like A River.

 

 

MAURO ZAMBELLINI     MAGGIO 2023

 

 

lunedì 1 maggio 2023

ANGELO leadbelly ROSSI it don't always matter how good you play

 



Parco di registrazioni in studio, tre album a suo nome di cui l’ultimo nel 2006 ed uno come Nerves & Muscles del 2012, ma ricco di esibizioni live, Angelo Leadbelly Rossi torna con un disco che può considerarsi il punto climax della sua carriera, un lavoro che racchiude tutte le anime e gli spiriti della sua musica. Non solo blues difatti, perché in It Don’t Always Matter How Good You Play, titolo che esemplifica la filosofia dell’autore ovvero non sempre importa quanto tu suoni bene perché è da sempre il feeling che fa la differenza, ci sono elementi che sconfinano nel rock dei settanta, nel jazz, nella psichedelia, nell’ indie-folk, nelle jam band, idiomi tenuti insieme da una performance vocale che sembra buttata lì quasi per caso, svogliata e dolente ed invece è il viatico di una dimensione sonora profonda, intensa, genuina. Il groove è da sempre alla base del gesto di Rossi, lontano da narcisismi e leziosità ma piuttosto portato a creare una sorta di trance ipnotico che ammalia e seduce l’ascoltatore, qui punteggiato dai sublimi interventi della chitarra elettrica di Roberto Luti, le cui frasi impreziosiscono un sound  che non abbandona mai l’atmosfera di un down-home blues che rumoreggia naturale e vitale. Accanto ai due c’è l’attenta sezione ritmica di Simone Luti (basso) ed Enrico Cecconi (batteria), insieme hanno trascorso tre giorni nel gennaio del 2021 al Gianbona Lab di Livorno registrando dal vivo l’album, apportando solo minime variazioni. Il risultato è un lavoro sfaccettato che possiede però una tematica sonora riconoscibile,  ripetuta nelle otto tracce concedendo ad ognuna di queste una sua personalità, a cominciare dalla lenta Desperate People cantata in un talkin’ malinconico e desolato, con Luti abile ad insaporirla con le sue nervose frasi di chitarra. Nell’ipnosi ritmica di Wait a Little Longer More Rossi canta con un fremito di rabbia dentro un decor sonoro che pare arrivare direttamente dalle colline a Nord del Mississippi portandosi appresso invitati quali Fred McDowell, Junior Kimbrough e Luther Dickinson. Splendido il lavoro di Luti. Who Gonna Remember What? incede ossessivo, la voce leggermente roca di Rossi evoca Jim Morrison, la sua chitarra e la sezione ritmica impongono il drive mentre Luti apre, chiude, svolazza, graffia e ci mette un pizzico dei Grateful Dead dell’era PigPen. Sono invece i Fleetwood Mac di Peter Green che si affacciano nell’apertura di Old Memories Sound Good To Me dove Rossi sceglie di cantare come un crooner country che cerca di convincere una sua vecchia fiamma a ricordarsi di quanto bene stavano insieme. Il momento delle dolcezze si chiude quando parte Get me outta here! uno dei brani topici del disco. L’insistente invocazione del suo cuore pronto per il Signore marcia di pari passo con il groove contagioso creato da Rossi che qui usa la voce come uno strumento schiamazzando un po’, la sezione ritmica è un metronomo e Luti dipinge blues come fosse un pittore impressionista. How Long Will It Take è Rossi-style al 100%, inizio lento e quasi sognante con la chitarra elettrica che ricama, il talkin’ ipnotico, ancora Luti che estrae magie dallo strumento tra Bloomfield e Peter Green, un blues etereo che si infila nel cosmo senza esaltazioni e assoli fini a sé stessi ma estremamente coinvolgente. Più terrea è Swinging Seventies, Rossi brontola blues con rabbia, non c’è nostalgia ma determinazione, un organo rubato a quella decade entra a dare manforte alla quadrata sezione ritmica e lascia il segno, Luti cesella e Leadbelly gli fa da spalla. La conclusiva Grateful Be Here parte sorniona e addormentata ma poi si trasforma in una vera jam dove si sentono i Dead, gli Allman, le super session e soprattutto questo quartetto capace di espandere i confini del blues verso qualcosa di progressivo ed “in divenire” senza perdere la melodia e i rustici sapori roots. It Don’t Always Matter How Good You Play è un disco dove il blues è più un attitudine che un numero di battute, ed è la tangibile dimostrazione del sound posseduto da Angelo Leabelly Rossi improntato al lessi is better ma ugualmente stravagante, ipnotico, appassionato. Grande ritorno.



MAURO  ZAMBELLINI 

domenica 9 aprile 2023

MUSICA una storia sovversiva TED GIOIA




 

Tutti gli appassionati di musica dovrebbero leggere questo affascinante e dettagliato trattato con cui Ted Gioia, critico jazz e storico della musica americana, intraprende una straordinaria operazione di rovesciamento intellettuale rivendicando il peso giocato in ogni importante innovazione musicale da tutti coloro che sono ai margini della società. Ecco spiegato il sottotitolo, Una storia sovversiva , lunga quattromila anni, dal suono del vento quando ancora l’uomo non era comparso sulla terra fino alle innovazioni tecnologiche e alle neuroscienze del nuovo millennio, passando dai primi strumenti recuperati dai corni degli animali o dall’arco dei cacciatori, dalla Grecia antica e la Roma Imperiale, dal Medioevo ed il Rinascimento, dai primi trovatori, dalla diaspora africana, dal blues, dal jazz, dal rock n’roll, dal punk, dal grunge, dal hip-hop e la techno. Con una scrittura affilata e colta ma scorrevole, l’autore si addentra in tutti gli aspetti della Musica mettendone in evidenza aspetti poco noti, come per esempio il fatto che per lungo tempo le percussioni furono prerogativa solo femminile, finché il loro uso in campo militare non divenne prevalente, oppure di quanto la Chiesa osteggiò e bandì la polifonia perché anticamera del trance, oppure della lira che, in quanto strumento ben accordato, promuoveva l’armonia e l’ordine sociale, mentre il flauto sfruttando il fiato umano per i suoni strazianti fu istigatore pericoloso di passione ed estasi. Ted Gioia, come conseguenza di un capillare ed approfondito lavoro di ricerca, ci racconta come avveniva la trasmissione dei canti tra gli antichi aedi greci, e del perché i trovatori francesi medioevali nella loro ispirazione e nel loro stile fossero debitori dei girovaghi ispano-arabi. Ma anche come la musica nell’antichità agisse come gesto propiziatorio, celebrazione della sessualità e base della prosperità e di quanto le canzoni siano state alla radice di quella che oggi si chiama psicologia , in parole povere un modo per celebrare le emozioni e gli atteggiamenti privati, molto prima che la vita interiore fosse giudicata degna di rispetto in altre sfere della società e nei luoghi del potere ecclesiastico. Divertente  la parte riguardante  Bach, Mozart e Beethoven inconsapevolmente sovversivi,  la citazione da Tracce di Rossetto  di Greil Marcus per i possibili  collegamenti tra l’eresia catara nella Francia medioevale ed il punk-rock oppure le credenze, alimentate dal potere religioso, per cui i bardi e gli artisti itineranti venivano accusati di stregoneria tanto che il demonio assumeva le fattezze di un menestrello. E ancora gli schiavi e i loro discendenti che hanno continuamente reinventato la musica, dal ragtime al blues, dal jazz al R&B, e infine soul, rap, hip, hop, perfino le origini della musica country nel Neolitico e il rito sacrificale nel rock n’roll con gli amplificatori devastati dai Who, la chitarra incendiata da Hendrix, Altamont e Sid Vicious.

La tesi di Ted Gioia afferma la musica come agente del cambiamento nella vita umana, un motore di trasformazioni e magie che nei secoli ha dovuto farsi strada tra ostacoli, superstizioni, divieti. Nei  secoli, scrive l’autore, la libertà di canto è stata importante quanto la libertà di parola, e spesso assai più controversa, temuta per via dell’intrinseco potere di persuasione. Le canzoni incarnano  frequentemente nuove idee pericolose molto prima che qualsiasi politicante sia disposto ad esternarle e per tale motivo re, potenti, autocrati, tecnocrati e leader religiosi tendono a delegittimare le innovazioni musicali, congelarle, omologarle e assorbirne le spinte,  trasformando le forme primarie e originarie. Dimostrazione di ciò che accade oggi, dove potenti interessi economici vogliono la musica limitata alle forme più prevedibili dell’industria dello spettacolo, sempre più incarnate da algoritmi che promettono di rimuovere ogni difficoltà e ostacolo al consumo musicale anche se sacche di resistenza insistono ad usare la musica in modi inattesi e disordinati. La diversità, secondo Gioia, favorisce l’innovazione  e le esperienze musicali più intense vanno cercate tra gli emarginati, tra schiavi e forestieri, più che nella classe dirigente che invece ha tutto l’interesse nell’ omogeneizzarle tanto che, come spesso è accaduto, il ribelle è diventato mainstream. Le istituzioni e le imprese non creano innovazioni musicali, si limitano a riconoscerle a posteriori e a farle proprie. La musica, secondo il trattato di Gioia, è sempre stata collegata al sesso e alla violenza, i primi strumenti grondavano sangue, le prime canzoni  promuovevano la fertilità, la caccia, la guerra e i più grossi cambiamenti musicali sono affiorati in città portuali come Liverpool e Amburgo e in città malsane come Deir-El Medina e New Orleans. Ma le canzoni possiedono ancora la magia e trasmettono amore, non hanno età e sfidano le barriere tra generazioni. Musica- Una storia sovversiva  è un libro avvincente che non finisce di sorprendere e meravigliare e non tralascia nulla, dalla musica gregoriana a Beethoven, dal Canto dei Cantici a Lesbo,  dallo Shijing a Scott Joplin, da Duke Ellington a Robert Johnson, da Miles Davis a Elvis Presley, da Marvin Gaye ai Beatles, dai Doors  ai Sex Pistols,  da Kurt Cobain al South Bronx, dai festival pop ai rave (le ultimissime dimostrazioni del potere della musica come accesso al trascendente e agli stati alterati della coscienza), da Napster al K-pop, dall’Auto Tune a Spotify. Senza scordarsi come suggerisce Ted Gioia che “quando cantiamo l’ormone ossitocina immesso in circolo con un messaggio partito dall’ipotalamo ci fa provare un legame emotivo con chi appartiene al nostro gruppo, ecco perché gli stati hanno l’inno nazionale e i tifosi cantano l’inno della propria squadra. Ma l’ossicitina è anche l’ormone dell’amore e delle coccole, salta fuori in situazioni di stress e può spedire la gente in trincea o ad una protesta di piazza”.

La musica intrattiene ma non può mai essere ridotta ad un intrattenimento, quattrocento pagine dense, corpose, che esaltano il potere rivoluzionario della musica, la sua funzione sociale e di benessere individuale. Libro documentatissimo, coinvolgente, istruttivo, visionario e godurioso. Un capolavoro.

MAURO ZAMBELLINI    EASTER 2023