Superato
il suoi problemi di alcol e droga, riacquistato concentrazione e motivazioni,
Lou Reed nel 1988 (ma il disco uscirà nel gennaio dell’anno seguente),
concepisce un album in termini letterari, come se fosse un romanzo o una
raccolta di racconti brevi. Il suo stile nello scrivere si portava appresso
l’influenza della letteratura fin dagli esordi, uno dei suoi primi maestri di
gioventù fu quel Delmore Schwartz il cui Nei
Sogni Cominciano le Responsabilità l’aveva fortemente suggestionato, per
poi continuare con i libri di William Burroughs e con Hubert Selby Jr. di Ultima Fermata a Brooklyn, con Raymond
Chandler e le visioni gotiche di Edgar Allan Poe. Ma in New York la sua scrittura raggiunge un livello
superiore, in qualche modo paragonabile alla letteratura di Walt Withman,
Nelson Alger, Edgar Lee Masters. Prende le distanze da quello che l’artista
riteneva l’infantilismo del rock n’roll, l’uomo che per diverso tempo aveva
dichiarato di fare rock n’roll adulto, in New York oltrepassa qualsiasi barriera
espressiva mettendo in scena un’ opera che racconta con inflessibile sguardo
critico una città sotto assedio, in un’ epoca in cui nei cinque distretti
urbani si contavano di norma oltre duemila omicidi all’anno, dove stava
infuriando un’epidemia di AIDS che decimò molte delle comunità con cui Reed
aveva legami di lunga data, quella dei gay, dei tossici, degli artisti. Pur
amandola visceralmente, Lou Reed non fu per nulla accondiscendente con la
propria città e lanciò un attacco verbale contro una New York vittima di AIDS
ed ipocrisia, nella quale gli amici “scomparivano” giorno dopo giorno, una
città di bambini violentati e donne picchiate, di bigotti e predicatori
razzisti, di poliziotti uccisi da gang criminali, di migliaia di senza tetto
che frugavano nei cestini dell’immondizia alla ricerca di cibo, dormendo per
strada, nei vicoli, nei portoni. Ha scritto l’americano Viktor Bokris nella sua biografia (Lou Reed, il lato selvaggio del rock, Arcana Editrice,1999) : “ New
York fotografa un mondo di
ipocrisia, egoismo e degrado che in confronto Desolation Row di Bob Dylan è come un picnic in campagna”.
Nel
libretto che accompagnò l’album, Lou Reed scrisse che il disco andava ascoltato
di seguito, come fosse un libro, e lo spettacolo di sei serate che Reed mise
insieme al St.James Theatre, nel cuore di Broadway, per presentare l’opera (cosa
poi ripetuta nelle altre date del tour), era strutturato come una sorta di
rappresentazione teatrale dove nella prima parte veniva suonato l’intero album
integralmente e senza interruzioni, con la sequenza originaria delle canzoni, mentre
nella seconda parte lasciava spazio agli altri pezzi del suo repertorio, tra
cui le immancabili Sweet Jane e Walk On The Wild Side.
Nell’intera discografia dell’artista, New York stabilisce un cambiamento nel modo di porsi di Reed, ovvero si distacca dalla freddezza chirurgica con cui l’autore aveva raccontato storie di ordinaria follia e straordinaria depravazione, di ascesa e caduta, di tossici e femmine fatali, senza mai dare giudizi sui comportamenti ma accettandoli come una imprescindibile manifestazione della natura dell’uomo. Al contrario, adesso, sembrava assumere un atteggiamento più umano, più partecipativo alle emozioni altrui, grazie anche ad una consapevolezza politica che da qualche anno si era formata in lui. Il centro della sua scrittura non era solo sé stesso e i mondi che aveva frequentato, ciò che la Presidenza Reagan ed i suoi accoliti, in primis Rudolf Giuliani, avevano causato all’America e alla sua New York lo avevano profondamente segnato, c’era rabbia, responsabilità sociale, vetriolo contro il potere. La sua poesia poteva sembrare ora più lavorata, più colta, senza perdere un briciolo della genuinità della strada e del rock n’roll, ogni solco di New York risuona di echi profondi e Reed si erge al pari di un “cronista” abile nel raccontare l’amaro affresco di una città in decadenza morale, tra ricchezze spropositate e corruzione politica da una parte e homeless e malati di AIDS dell’altra, una città cupa di pregiudizi razziali ed ingiustizie sociali, dove la droga non è ne la cocaina o l’eroina ma il crack che lascia morti dimenticati nei vicoli e falcidia intere comunità, a cominciare da quella ispanica i cui Romeo Rodriguez e Pedro “vivono” nei versi di Romeo Had Juliette e Dirty Boulevard, due dei pezzi più significativi dell’album.
Lou
Reed registrò New York nella seconda metà del 1988 con il nuovo chitarrista Mike Rathke (subentrato al fenomenale
Robert Quine) marito della sorella di Sylvia Morales, la seconda moglie
dell’artista. Dopo New Sensations e Mistrial due dischi piuttosto contradditori,
troppo clean per il personaggio e mai
troppo amati dal suo pubblico, Reed chiude gli anni ottanta riposizionando la
sua musica verso uno schietto e asciutto rock n’roll che nelle diverse parti
acustiche suona addirittura come uno scheletrico folk urbano. Al basso recluta Rob Wasserman mentre alla batteria si
alternano Fred Maher e Moe Tucker,
la vecchia compagna nei Velvet Underground. Avrebbe dovuto esserci anche John
Cale il quale saputo della presenza della Tucker declinò l’invito, sospettando
una sorta di reunion dei Velvet. Cosa che immancabilmente successe un anno
dopo, il 30 novembre del 1989 quando nell’ultima serata all'Opera House della Musical
Academy di Brooklyn in ricordo dello scomparso Andy Warhol, Reed e Cale furono
raggiunti sul palco proprio da Maureen Tucker in una sorta di estemporaneo come back dei Velvet Underground, reunion
che ufficialmente si concretizzò tre anni dopo in occasione dell'inaugurazione
della Andy Warhol Exposition promossa dalla Fondazione Cartier a Joiy-en-Josas,
periferia di Parigi, raggiunti anche dal chitarrista Sterling Morrison per una versione di Heroin. Da lì i quattro VU si involeranno in un rischioso tour
europeo testimoniato da un disco ed un video col titolo di Live MCMXCIII.
Ma tornando a New York, l’impressione di trovarsi di fronte ad un capolavoro è palese già dal primo ascolto. Quel suono scarno, agro, povero di strumenti ma ricco di emozioni, entra immediatamente sotto pelle come un noir d’annata, è un album crudo e dai colori lividi, "un disco da leggere, un libro da ascoltare" come viene riportato sulla copertina dell'album, “ un album di rabbia e compassione, realistico e spirituale al tempo stesso, cesellato e scolpito nel timbro della grande poesia”, scrive Daniele Federici nel suo Lou Reed (Editori Riuniti, 2004). Venne ideato subito dopo la scomparsa di Andy Warhol, avvenuta nel 1987, ed è il primo capitolo di una trilogia del dolore assieme a Songs for Drella e Magic and Loss, il primo dedicato a Warhol, il secondo per la morte degli amici Doc Pomus e Rita (che molti dicono essere Rachel la sua compagna/o negli anni settanta), nella quale Reed si appropria di una visione morale della vita, lontano dalle trasgressioni che avevano contraddistinto il suo passato. New York è un atto nei confronti della sua città, ma forse è anche un esame di coscienza sul proprio essere, e a tale proposito l’autore disse: “ questo album è il risultato della convergenza, di tutto quello che è successo nel passato. Ciò significa tutte le cose che ho imparato, tutti gli errori fatti, tutti i maledetti casini in cui mi sono infilato”. New York fu accolto positivamente da critica e pubblico, nonostante l'assenza di brani e trucchi radiofonici, fu il disco più venduto di Lou Reed dai tempi di Sally Can’t Dance, e probabilmente il più venduto in assoluto della sua discografia solista. Nonostante i temi trattati è anche un disco divertente e perfettamente godibile, la misura di un genio capace di emozionare e addentrarsi in profondità psicologiche senza eccedere in accademie e risultare tronfio, altezzoso, palloso. Lou scelse quel disco per abbandonare la RCA e accasarsi con la Sire, l’etichetta diretta da Seymour Stein, succursale della WB, che negli anni mise sotto contratto Ramones, Talking Heads, Smiths, Cure, Pretenders, Depeche Mode e Madonna. Lou Reed non aveva propriamente la nomea di hitmakers ma era un personaggio culto amato da giornalisti ed intenditori, la lungimiranza di Stein fu tale che il periodo con la Sire fu quello commercialmente più felice nella carriera di Reed.
Il disco inizia con Romeo and Juliette, una ballata scarna il cui sound a base di
chitarra permea l’intero disco. “Il
cantautore James McMurtry ricorda di aver parlato del disco con John Mellencamp
che disse: sembra prodotto da uno studente di terza media, ma mi piace” ( Vita e opere di Lou Reed, Anthony DeCurtis,
Caissa Italia, 2018). Assieme a Hold
On, qui il talking di Lou è sostenuto dai colpi assestati dalla batteria e
dalla distorsione delle chitarre, e Dirty
Boulevard sono i brani ambientati nelle strade di New York, nelle vite di
personaggi che non sono necessariamente i vecchi frequentatori delle canzoni di
Lou, tossici, puttane, travestiti, artisti bohemien, ma piuttosto cittadini comuni che grazie agli otto anni di
Reagan e alla ferrea politica d’ordine di Giuliani, hanno perso qualsiasi
certezza in una società polarizzata tra una classe di benestanti sempre più in
alto e persone sempre più in basso, la cui vita è sospesa ad un filo. Dirty Blvd. è uno dei brani emblematici del
disco, ricorda vagamente nelle sue ondulazioni Sweet Jane, Lou canta con dolente partecipazione di una cruda storia
di abusi mentre il pathos è sottolineato dal misurato lavoro ritmico e dal coro
di voci, a cui partecipa Dion DiMucci,
uno degli idoli musicali di Reed, introdotto dallo stesso nella Rock and Roll
Hall of Fame lo stesso mese di pubblicazione di New York.
Se c’è forse un brano del disco che può ricollegarsi direttamente all’ immaginario delle canzoni di Reed del passato questo è Halloween Parade, l’usuale parata che ogni anno porta la comunità gay a festeggiare per le strade di New York. Ma questa volta la parata non pare festosa, il modo con cui Reed la racconta è piuttosto commovente perché la celebrazione della teatralità, della fantasia e della sfacciataggine della comunità ora è segnata dal dolore per quelli che non sono nelle strade perché troppo malati per partecipare o addirittura morti. “The docks and the badlands meets” canta Lou giocando sul significato reale delle parole, molo e bassifondi, e quella zona di New York della West Side a ridosso del Hudson River dove i gay erano solito trovarsi. E’ un aggiornamento di Walk On The Wild Side ma la fierezza della trasgressione e dell’ambiguità sessuale di allora qui ha lasciato il posto ad una compassione, ad un umanismo consapevole, all’affetto con cui Reed parla di tipi abbigliati come Greta Garbo, Alfred Hitchcock, Joan Crawford, Cary Grant e trans vestiti di pelle, e nello stesso tempo il cuore si raggela pensando ai tanti che non ci sono più, menzionando tra di loro Rotten Rita e Johnny Rio frequentatori della Factory di Warhol, e auspicando in un malinconico finale “ magari ci si rivede l’anno prossimo, alla sfilata di Halloween”. Un lirismo enorme, una canzone grandiosa, una ballata in grado di zittire chiunque, il frutto di una lucida sensibilità che pochi hanno saputo manifestare nella storia del rock parlando dei perdenti. E se per tanti altri artisti vengono scritti e detti fiumi di parole, compresi trattati ed elucubrazioni, o si sbava spasmodicamente all’annuncio di un imminente disco in uscita, di Lou Reed a sette anni dalla sua scomparsa, nella ufficialità e nello stesso pubblico del rock, è rimasto poco, lo si ricorda raramente, un destino che lo accomuna a Willy De Ville e visto come vanno le cose pure a Tom Petty. Lontani dalla Bibbia, vicino alle tentazioni della strada, sarà questa la ragione?.
Il ritmo lento e dolce di Endless Cycle, il quarto titolo dell’album, non tragga in inganno,
qui si racconta di deviazioni e abusi tramandati dai genitori ai figli, due
chitarre speluccate accompagnano sardonicamente l’assenza di qualsiasi speranza,
consumata nel verso “ quell’ uomo si
sposerà e picchierà il figlio, la donna farà lo stesso pensando che sia cosa
giusta e sacrosanta, meglio di quanto hanno fatto i loro genitori, meglio
dell’infanzia che hanno subito, la verità è che sono più felici solo se
soffrono”. Duro, incalzante e abrasivo There
Is No Time è invece una esplicita esortazione politica a non perdere tempo
e rimanere inerti “questo non è il
momento delle celebrazioni e di rendere onore alla bandiera, questo è il
momento di riunire le forze e di darsi uno scopo nella vita, questo è il
momento perché non c’è più tempo”. Chitarre distorte e rasoiate rock. Con
un celato riferimento a Melville e
con i suoni elettroacustici di una ballata folkie The Last Great American Whale mette sotto accusa gli insuccessi
della politica ecologica americana, chiudendo sarcasticamente con “ aveva ragione quello che mi diceva il mio
amico pittore Donald, ficcagli una forchetta nel culo e voltali, sono davvero
malati”, riferendosi alla maggioranza degli americani.
Basato su un riff di chitarra jazzistico Beginning of a Great Adventure sottintende
al desiderio della moglie Sylvia di avere un figlio, “un piccolo me stesso a cui trasmettere i miei sogni”, e aggiunge “deve
essere divertente avere un bimbo a cui tramandare qualcosa, qualcosa di meglio
della rabbia, del dolore, della collera e della sofferenza”. Morbida e
jazzy, prevalentemente parlata, il testo della canzone pur scaturito dalla
effettiva richiesta di Sylvia, si tramuta in un punto di vista umoristico, come
se a parlare fosse l’ americano medio, la cosa più distante dall’uomo Lou Reed.
Busload of Faith è uno dei brani più rock dell’album, ( invito ad ascoltarvi l’eccellente versione data da Bob Seger nel suo ultimo recente I
Knew You When ) ed
è un altro dito puntato contro chi usa la fede per nascondere, dietro ad una
faccia pulita, una vagonata di ipocrisia e cupidigia. Dimostrazione che l’album
New
York è di attualità ancora oggi,
a trentanni dalla sua pubblicazione. Giocata su scatti e controscatti, Busload of Faith emana il suono di un
quartetto elettrico in grado di fare rock n’roll da camera, cosa che si
ritroverà in futuro in Ecstasy, e non dà tregua
all’ascoltatore perché fuso nella seguente Sick
of You, altro affondo sulla decadenza e corruzione della sua città.
Impagabile nel testo l’ironica visione di una Staten
Island scomparsa a mezzogiorno, le spiagge chiuse, lo strato di ozono ormai
privo di ozono, la mancanza di insalata fresca perché c’erano siringhe nei
cavoli, l’Empire State venduto al Giappone……….e tu mi vuoi lasciare per il
ragazzo della porta accanto. Caustico e divertente. Non fa sconti a nessuno Lou Reed, “uno sbirro è stato steso da un ragazzino con
un colpo alla testa, un tossico ha messo sotto una ballerina incinta, si era
addormentato al volante dopo essersi fatto di eroina, lei è morta ma il bimbo è
salvo, c’è uno che ha una 38 ed un coltello a serramanico e deve ancora
prendere la metropolitana, là sotto c’è l’essenza puzzolente di New York. C’’è
una rabbia furiosa che sale come un flagello ma non saranno sufficienti gli
Hell’s Angels e Mark Tyson per porre rimedio a questo sanguinoso caos”. Al
pari del testo il suono è nervoso, sincopato, una marcetta che inizia beffarda
e finisce convulsa. Vetriolo puro è Good
Evening Mr.Waldheim nel quale per la prima volta Reed difende senza scherno il suo essere ebreo
chiamando in causa il candidato alla Presidenza Jesse Jackson, che nella
campagna elettorale usò il termine common
ground, ed il leader della Nation of Islam Louis Farrakham, entrambi rei in
precedenza di aver manifestato il loro pregiudizio antiebraico. Non vengono
risparmiati nemmeno il Segretario delle Nazioni Unite, l’austriaco Kurt
Waldheim, che fu accusato di essere a conoscenza della atrocità naziste durante
la Seconda Guerra Mondiale, e lo stesso Giovanni Paolo II per l’accettazione al
tempo, in Polonia, dei crimini di guerra nazisti, se non addirittura di veri e
propri legami giovanili con essi. Si chiede Lou Reed se possa essere compreso anche lui oppure no
nella common ground, mentre il ritmo
aumenta veemente e la chitarra morde con inusitata ferocia. Lenta, dolente,
sulla falsariga di una nuova Coney Island
Baby, X Mas in February ritorna sulla ferita aperta del Vietnam cantando
con sentita partecipazione la vita di Sammy, di quando era nella giungla, di
quando tornò senza un braccio, di quando perse moglie e figli, di quando rimase senza lavoro e di quando è diventato un
homeless con un cartello che chiede l’elemosina ai passanti. Fa degna compagnia
ad un’altra agghiacciante canzone sul tema, quella Sam Stone di John Prine.
Urlata con la veemenza di un sermone
apocalittico, in Strawman l’America è dipinta come un uomo di paglia che non esita ad
investire soldi e missili ed ignora totalmente i poveri e la gente che vive ai
margini, il quadro di un paese che sta andando all’inferno e per il quale Reed
spera in un castigo divino.
Inizio cupo e funereo, col contrabbasso frizionato da un archetto e le percussioni di Maureen Tucker, presente pure in Last Great American Whale, a rendere ancora più drammatico lo scenario, Dime Store Mystery trova nella voce grave di Reed l’atmosfera intimista per accennare al mistero della vita di Gesù ( pare dopo aver assistito ad una intervista televisiva di Martin Scorsese riguardante L’ultima tentazione di Cristo) e per riflettere sulla morte di Andy Warhol. E’ l’ultimo titolo dell’album. Quattordici brani per un disco epocale, lucido, complesso e pungente nei temi, tanto semplice e spartano nella veste sonora, New York ancora oggi rimane una dei più affascinanti racconti di una città e di un mondo in declino, un’ opera d’arte immortale che andrebbe letta, ascoltata e studiata a scuola.
LA RISTAMPA
New York significò per l’artista un riconoscimento
artistico e commerciale mai ricevuto prima, fu disco d’oro, ottenne una
nomination ai Grammy e Dirty Blvd. si
installò al primo posto nella categoria Modern Rock. Del tutto giustificata la
polposa nuova edizione della Rhino : un cofanetto comprendente il disco
originario rimasterizzato (per la prima volta anche in vinile da 180 gr.), un
CD dove lo stesso album è eseguito dal vivo in concerto ed un CD comprendente
26 tracce inedite tratte dal Lou Reed Archive tra mix grezzi, alternate take,
versioni acustiche, demo, tutti relative
ai titoli del disco originario, ad eccezione di un inedito, The Room, un brano strumentale di
dissonante improvvisazione che non avrebbe sfigurato nel secondo album dei
Velvet Undreground. Ci sono anche i due encore del suo spettacolo dal vivo,
ovvero Sweet Jane e Walk On The Wild Side. Nel box anche un video
( per la prima volta tradotto in formato DVD), da tempo fuori stampa,
registrato durante il New York Tour al Teather St. Denis in Montreal. Al fine
di evitare doppioni, nessuno dei
brani del CD live è tratto dal DVD. Completa il tutto un libro con copertina
rigida contenente testi del giornalista David Fricke, saggi dell’archivista Don
Fleming e la produzione dello stesso Fleming con Laurie Anderson, Bill Ingot,
James Stern e Hal Willner. New York:Deluxe Edition celebra in modo lussuoso il capolavoro
New
York . Di particolare interesse sono i due CD aggiunti, quello live e
quello degli inediti. Il New York Tour arrivò anche in Italia a metà del 1989, come
da copione il palco venne allestito per simulare la New York dei bassifondi con
una scala che introduceva ad una casa fatiscente contornata da graffiti di
ispirazione portoricana, il neon di un hotel da pochi soldi, una vecchia
bottega di calzolaio, un lounge, un ondulato di latta a demarcare il confine di
una (allora) misera zona della Lower East Side. In questo decor di squallore urbano, Lou Reed
accompagnato dal chitarrista Mike Rathke, dal bassista Bob Wasserman e,
diversamente dal disco, dal batterista Bob Medici, porta sul palco le
quattordici canzoni del disco senza aggiungere alcunché, a parte qualche
coretto in Halloween Parade,
mantenendo il suono asciutto, schietto e la veste sobria progetto originario.
Nella seconda parte del concerto entrarono altre canzoni del suo repertorio, ma
qui nel CD live la scaletta è rigorosamente quella di New York e le uniche
aggiunte, Sweet Jane e Walk On The Wild Side, sono riportate,
inspiegabilmente, nel finale del terzo CD, quello degli inediti. E’ una
esposizione dal vivo coerente con quello che fu il volere di Lou Reed, elegante
e con qualche improvvisazione, specie nella nervosa fraseologia jazzy di Beginning Of A Great Adventure e nel
resuscitare in Dime Store Mistery le
atonalità care ai Velvet, dove il contrabbasso “segato” con l’ archetto da
Wasserman in modo particolarmente violento (quasi volesse imitare John Cale con
la viola) produce un suono sinistro e dark. Di contrasto Last Great American Whale è morbida e mai così pacata sebbene
alluda ai disastri ambientali americani mentre la cruda Busload Of Faith anche dal vivo si conferma il brano più muscoloso
e rock dell’album.
Diverse le curiosità nel CD degli inediti, se Romeo Had Juliette è sostanzialmente
uguale all’originale, a parte un più mordace inciso di Mike Rathke, singolare è
lo studio attorno a Dirty Blvd. : un
demo con le prove del giro di chitarra ripetuto ossessivamente, ed un primitivo
mix già in possesso però degli elementi costitutivi del brano. In Endless Cycle non c’è altro che la voce
di Lou e la sua simulazione vocale degli strumenti, di Last Great American Whale si può ascoltare un work in progress con
Lou che impartisce consigli ai compagni, Beginning
of A Great Adventure è ancora più sommessa vocalmente e pizzicata alla Wes
Montgomery, Busload of Faith è in splendida
versione acustica. Di Sick Of You ci
sono scampoli del suo divenire in studio ed il missaggio grezzo, cosi come per Hold On e Strawman. The Room è sperimentalismo avant-guarde così caro ai
Velvet Underground, ma pure allo stesso Reed considerato il suo folle e alienato
Metal
Machine Music. Tratte dal live, comunque spoglie di qualsiasi retorica
e compiacenza, Sweet Jane e Walk On The Wild Side chiudono questa
Deluxe Edition, il cui unico difetto è il costo. Ma New York è pura letteratura rock e per tale ragione non
ha prezzo.
MAURO ZAMBELLINI SETTEMBRE 2020