Mamma mia che concerto, ma chi sono questi, dei
marziani. Indubbiamente il miglior concerto dei Muli tra quelli a cui ho
assistito dal 2005 ad oggi, una grande serata di musica ad ampio raggio dove il
blues si è legato al reggae, il soul alla psichedelia, il jazz al rock in un
mix di suoni e di emozioni che ha fatto lievitare anima e corpo dei 1500
presenti verso quel paradiso del vero sentire che non sempre è facile incontrare.
Immensi, i Gov't Mule hanno sostituito i Grateful Dead nel recente immaginario
del rock, trafiggendo i cuori di chi vuole ascoltare e vivere musica superiore,
senza barriere e limitazioni, conquistandosi una stima fuori dall'ordinario.
Basta leggersi le scalette di questo segmento europeo del Dub Side Of The Mule Tour per rendersi conto di quanto i Muli siano
un caso a sé, non c'è nessuno oggi che può permettersi di cambiare
completamente scaletta da una sera all'altra (non dico qualche brano, ma
l'intero menù della serata) come fanno loro, citando come nella notte
dell'Alcatraz Bob Marley ( il reggae
fuso col funky di Lively Up Yourself),
BB King (versione da capogiro di Thrill Is Gone con la chitarra di Haynes
accordata su quella del Re), i Led
Zeppelin (D'Yer Mak'Er infilata
dentro Frozen Fear), Neil Young & The Crazy Horse (Dangebird, forse il brano più sottotono
della serata), gli Humble Pie ( la
torrida 30 Days In The Hole nel primo
richiestissimo encore), i Tower of Power
( What Is Hip?), Santana nel ripetuto divertente tormento di Oye Com Va, Van Morrison
quando hanno messo in medley l'applauditissima Soulshine fondendola con una inattesa Tupelo Honey. Micidiali, più volte applauditi a scena aperta da un
pubblico che li ama, ama la loro generosità, la loro bravura tecnica, la loro
inventiva, apprezza l'umiltà di Warren Haynes,
un gigante della chitarra ed un cantante dell'anima a cui dovrebbero erigere un
monumento per come ha tenuto in vita questa concezione libera, spontanea,
versatile e jammata del rock n'roll, senza pavoneggiarsi nella tecnica e nel
virtuosismo.
I Gov't Mule sono progrediti molto da quando erano un trio
granitico ai confini tra hard-rock-blues e psichedelia, dove la potenza era
l'aspetto principale della loro cifra stilistica. Oggi sono più morbidi,
multiformi, soul e jazz, un ensemble che con le dovute differenze e ambiti
diversi mi ricordano per bravura tecnica, inventiva, cultura musicale, il
quartetto di John Coltrane, con la chitarra (le diverse Gibson passate tra le
mani di un dimagrito e costipato Haynes) al posto del sassofono. Danny Louis, solito berretto ed
occhiali alzati sulla fronte, è un tastierista dotato di grande misura, riempie
spazi e accentua sia il groove che il lirismo
della band, lavora con l'Hammond ed il piano elettrico ed in entrambi i
casi sortisce l' effetto di arrotondare il sound smussando le spigolosità dell' arcigno power
trio di un tempo. Matt Abts, sempre
più incurvato su sé stesso, è un batterista con pochi uguali oggi nel rock,
picchia ma non si vede, ha l'impronta del batterista jazz, dinamico, sciolto,
impareggiabile nei cambi di ritmo, nel costruire quei levare su cui si innestano sempre più frequentemente dub e reggae,
nell'ammorbidire fino quasi al silenzio lo svolgimento del blues, assecondando il
maestro d'orchestra Haynes che in Rocking
Horse, Sco-Mule, Mule conduce il
brano dalle impennate elettriche fino
quasi all'esaurimento, al silenzio di poche note e tocchi, prima di risorgere
in tutta la sua grandeur. Davanti a
lui è Jorgen Carlsson, bassista che si sente, eccome si sente e sa
diventare solista. Ma è lui, Warren Haynes il capitano di questa ciurma di
navigatori aperti ad ogni mare, affiatati e fantasiosi, capaci di solcare il ritmo sincopato del
reggae e abbandonarsi al blues e al senso epico di ballate che, come nel caso
di Endless Parade, a parere del
sottoscritto la highlights della serata, ti spediscono direttamente in
paradiso. I Muli macinano lento, hanno pazienza, sono rigorosi, funambolici e
passionali e anche quando sono di mezzo i colpi felini del rock, non si perdono
in preamboli e lungaggini inutili, viaggiano nel cosmo psichedelico ma coi
piedi per terra e col cuore rivolto al pubblico. Due ore mezza di concerto,
chiamarlo show è fuorviante visto la voluta pochezza della loro coreografia, ed
un tripudio di entusiasmo da commuovere anche la schiva e composta Milano. I
Gov't Mule hanno fatto il loro set, chi si aspettava i bis delle precedenti
date, Ventilator Blues oppure Little Wing o Get Behind The Mule di Tom Waits,
è rimasto deluso perché signore e signori questi sono i Muli, prendere o
lasciare, per loro il karaoke è parola sconosciuta, ed il 90% della scaletta è
diversa da quella della serata precedente.
Chiudono con Soulshine intrecciata con Tupelo
Honey, poi di nuovo sul palco con 30
Days In The Hole di Steve Marriott, e poi un secondo bis nel rispetto del
paese in cui si trovano, quindi l'invito ad unirsi a loro di due armonicisti
del blues italiano, il puma di Lambrate Fabio Treves e l'ex W.I,N.D. Fabio Drusin,
nella bluesatissima Look On Yonder Wall di
James "Beale Street" Clark. Nient'altro da aggiungere tranne sottolineare
la miseria della grande stampa nazionale, che per un gruppo simile dedica al
più un trafiletto. Pazienza, valgono di
più i visi sorridenti, appagati, felici di tanto pubblico, molto meno
affaticato rispetto a certe estenuanti performance del passato. Lunga vita ai
Muli, chi non c'era si è perso una serata eccezionale.
MAURO ZAMBELLINI Le foto sono di Elena Barusco