La tentazione di lasciar perdere il compilare una
playlist visto l'inflazione delle self-made-list sui social è stata grande ma
amante del tradizionale panettone natalizio
ho receduto dall'intento, non volendo tradire la consuetudine maturata
in questi anni. Quindi via con la lista dettata da gusti personali, niente classifica o consigli per gli acquisti ma solo
piaceri personali a lungo rimasti nel lettore o sul piatto o nello stereo car (
la mia auto non è ancora dotata di chiavetta, per fortuna).
E' probabile che la mia lista venga tacciata di essere reazionaria, termine che mi fa girare un po'
le palle visto che sono sempre stato dalla parte di chi si ribella ma bisogna
abituarsi al nuovo (sic) che avanza,
forse sarebbe più consono usare il termine conservatore nel senso che ci tengo
a conservare quanto di buono il rock n'roll ha prodotto fino a oggi, incurante
di apparire retrò. Da qualche parte ho letto che una band come i Drive By Truckers, quest'anno con American
Band lambiscono solo la mia
prima scelta continuando comunque ad essere una delle mie band alternative
preferite assieme, a Wilco (il cui Schmilco ho trovato pallidino in
confronto allo strepitoso concerto milanese), vengono liquidati tra i
"reazionari" per non sapere destrutturare e scombinare in senso
sghembo il loro roots-rock. Mah, qualcuno dovrebbe suggerire a costoro di
leggere i testi "reazionari" di American Band che sono quanto di più
caustico c'è in giro oggi nel raccontare il malessere di essere
americani. Bando alle polemiche, i gusti
non si discutono, basta non fare ideologia su quelli degli altri, trattandoli
come zoticoni solo perché al famolo
strano (direbbe Verdone) preferiscono una cucina più classica, cucina con cui in tanti sono cresciuti
senza soffrire di pellagra, proprio con quei gusti "reazionari" che spesso
significano dischi che si ascoltano oggi, domani e dopo domani senza finire dopo
qualche mese nello scaffale soffocati dalla polvere e da una next thing ancora più strana.
oldies
but goodies
Detto questo, comincio proprio dai veterani, gli amati Rolling Stones presi nell'anno di
grazia 2016. Un disco nuovo, Blue and Lonesome, che ha fatto un botto di vendite, ne
ho parlato bene dopo il primo ascolto e confermo
le impressioni iniziali, un disco di Chicago blues come il loro, oggi si fa
fatica a trovarlo, sia tra gli afroamericani sia tra i visi pallidi. E' blues
che viene dalla loro anima e dalle loro radici sixties, non è arruffato e dirty come molti avrebbero voluto ma il
Chicago blues non possiede la sporcizia delle dodici battute del Mississippi,
della Louisiana e in generale del sud. Prendere o lasciare, ci sarà sempre chi
sparerà contro di loro ma una volta tanto il mercato ha premiato la qualità, con
tutta la merda che riempie le classifiche vedere Blue & Lonesome al nono posto di
Billboard è una boccata di ossigeno ( e di dollari per loro). E il loro anno
non finisce lì, coi video e i film ci sanno fare da sempre, Springsteen
dovrebbe imparare da loro, Havana Moon, il documentario del
loro concerto a Cuba, ha aggiunto una nuova perla alla loro collezione. Ottima
performance in un contesto ambientale unico, un quid di commozione inaspettata per
i signori del business, il pubblico cubano felice e stupefatto di trovarsi protagonista
in un evento storico sulla loro terra, loro, musicisti temprati da una vita sul
palco finalmente emozionati per un accoglienza caldissima da parte di un
pubblico di ogni età ed estrazione sociale, diverso da quelli a cui sono
abituati, in un evento che più che un concerto sembra una festa di liberazione.
Havana
Moon dopo la distribuzione nelle sale cinematografiche è stato
pubblicato in DVD, accompagnato da due CD. Ma non è finita per gli Stones del
2016 anche se nella fattispecie è l'industria discografica la regista di un box
monumentale e voluminoso con cui vengono ripubblicati tutti i loro album degli
anni sessanta, dal disco d'esordio del 1964 fino a Let It Bleed ovvero tutto
quanto è successo su vinile prima della nascita della Linguaccia. Copertine dell'epoca,
vinile 180 gr., registrazione in Mono come negli originali , libro fotografico
e confezione deluxe, il costo non è indifferente ma un Natale a Stonesville vale
i sacrifici, non c'è Babbo Natale ma sesso, droga & rock n'roll. Il
godimento è assicurato, con un buon impianto analogico (basta essersi tenuti
piatto e amplificatori di gioventù) il sound è quello degli anni pionieristici
del rock n' roll, vi parrà di rivivere una parte fondamentale della
vostra/nostra/mia educazione musicale.
Per il sottoscritto The Rolling Stones In Mono è la ristampa dell'anno e con l'altro box 3DVD/CD Totally
Stripped degli stessi Stones costituisce
un' accoppiata da paura.
Altre due ristampe, per lo più ignorate dalle riviste specializzate,
sono entrate felicemente nelle mie orecchie. Sono ORK Records: New York New York e These
Dreams Will Never Sleep-The Best of Graham Parker 1976/2015. La
prima ricapitola la storia di Terry Ork e della sua Ork Records, l' etichetta
indipendente che fu il trampolino di lancio della new music degli anni settanta, in particolare newyorchese. La
storia del punk e della new wave della città raccontata attraverso i singoli
della Ork a cominciare dallo strepitoso Little
Johnny Jewel dei Television per arrivare a tutti gli altri outsider protagonisti
di quell' eccitante, fosco, ribollente underground, dai Marbles ad Alex
Chilton, qui presente con Free Again, The
Singer Not The Song, Summertime Blues, All The Time, Take Me Home & Make Me
Like It, da Chris Stamey a Mick Farren, dai Feelies a Richard Lloyd, dai
Cheetah Chrome ai Revelons fino alla sortita musicale del folle critico
dell'epoca Lester Bangs, autore di Let It
Blurt e Live. Cartoline dal CBGB e da quella New York scura, violenta e pericolosa che costituì uno dei capitoli più affascinanti
e romanzati del rock, più eccitante dello scintillante shopping mall che è oggi
NYC. Due CD per 49 tracce, confezione a libro con box, foto inedite,
testimonianze, copertine di dischi, discografia e la illuminante storia
raccontata da Ken Shipley e Rob Sevier. Oggetto di culto.
Best
of Graham Parker racconta
l'avventura di uno dei rocker inglesi
più amati e sottovalutati attraverso la sintesi dei suoi album pubblicati tra
il 1976 e il 2015 , compresi gli acoustic
demos e il mitizzato Live at Marble
Arch. Tre CD per assolvere al compito, altri tre CD per la parte live con
concerti del 1977, 1979 e 2015, più un DVD con estratti di concerto,
apparizioni televisive, performance del 1978 e 2015. Un succoso resoconto della
carriera di Parker, con e senza i Rumour in un elegante box dove i colori del
bianco e nero servono ad esemplificare iconograficamente il suo rock
fuligginoso e urbano, periferico pur col beneficio di produttori come Jimmi
Iovine, David Kershenbaum, Jack Nitszche, Nick Lowe e Brynsely Schwartz. Un
quarto CD nel sintetizzare i suoi album non ci sarebbe stato male perché la
selezione appare fin troppo stringata. Come scrive Holly A. Hughes
nell'eloquente booklet che accompagna il box " Parker è un potente cocktail di attitudine punk, mentalità new-wave, esuberante
R&B con un groove di scorrevole pub-rock, country twang, colori reggae ed
integrità folk. Non riesco a ricordarmi nessuno che, come Parker, ha maneggiato
così tanti linguaggi in modo così superlativo". Tensione e frustrazione, la stessa vissuta
dai tanti giovani inglesi dell'epoca, e pure la bramosia di struggenti
ballate che sono state materia
privilegiata peri Van Morrison e Bruce Springsteen. Graham Parker in tutti
questi anni è rimasto fedele a sé stesso e alla sua musica, se pensate che
bastino i suoi album storici degli inizi a liquidarlo vi sbagliate, provate ad
ascoltarvi ballate come Disney's America da Haunted Episodes o Blue Horizon da Deepcut To Nowhere o Cruel
Lips da Your Country o England's Latest Clown da Don'
t Tell Columbus per capire come
anche negli anni del silenzio o del crepuscolo la vena pungente ed il
romanticismo di Graham Parker non sono mai scemati. Un artista da proteggere,
anche nell'intervista che arricchisce il booklet di These Dreams Will Never Sleep Parker si rivela generoso nel
raccontare l'arte del songwriting mostrandosi sempre molto concentrato sulle
canzoni, sul soul, sui nomi degli eroi che l'hanno ispirato, sulle tematiche
delle parole. La selezione curata dal giornalista Paolo Hewitt e dallo stesso GP è un'ottima sintesi della
sua avventura artistica. Eloquente.
Vicino stilisticamente ai Rolling Stones (ma pure alle
ballate di Graham Parker) c'è Peter Wolf
se non altro perché anni addietro fu il frontman della J.Geils Band considerati
i Rolling Stones d'America, supporter degli stessi nello storico concerto di
Torino del 1982. Peter Wolf come solista è in pista dal 1984 e da un po' non
sbaglia un colpo. Rimane un benemerito sconosciuto ai più ma i fortunati sanno
che se si desidera un disco come si usava tra i settanta e gli ottanta nello
stile di quei santi di città che surfavano tra rabbia elettrica e romanticherie
da bucanieri, allora bisogna rivolgersi a lui. E' rimasto l'unico a parlare
questo linguaggio da rocker, il suo disco del 2016 è ancora più bello dei tre
che lo hanno preceduto, già eccellenti. A
Cure For Loneliness è come dice il
titolo, una cura per la solitudine, un
disco caldo, confortevole, in qualche momento anche burbero perché Peter Wolf
anche se qui diventa il Re delle ballate e degli umori crepuscolari non abbandona
il colpo felino delle bar band. Coccola il cuore senza intorpidire i sensi con
canzoni che evocano Willy DeVille, David Johansen, i Del Fuegos e gli Stones
melodici di Waitin' For A Friend, un
performer che ha scelto di mettersi al riparo dal glamour (lui che è stato per
anni marito di Faye Dunaway) e con modestia ed una band che pare uscita dal
Bottom Line del 1981 fa quello che tanti altri della sua generazione non
riescono e non sanno più a fare. Se dovessi scegliere un solo disco per il mio
2016 prenderei A Cure For Loneliness, ci si può innamorare.
Lo scontroso di Van
Morrison è solo di un anno più anziano di Peter Wolf, del 1945, e delle
ballate conosce l'intera anatomia. Tutto si può dire di lui tranne che non sappia
trasformare una canzone in un' opera lirica di swing e soul. Era parecchio
tempo che non compravo un suo disco ma Keep Me Singing mi ha riportato a
lui perché la serenità e la tranquillità che trasmette sono in grado di rappacificarvi
col mondo. Ballate sontuose in cui lo swing del cantare di Morrison trova un
approccio quasi jazzistico alla musica, brani che salgono lenti e corali, in
particolare perdo la testa per In Tiburon
con tutti quei riferimenti alla San Francisco della beat generation e delle
menti che si aprivano, quel fondere il blues col R&B ed il celtic soul
abbattendo le barriere tra America e
Irlanda, tra giorno e notte, tra parola
e note. Ritornando a quanto scritto all'inizio Keep Me Singing è un vero disco conservatore, perché con la
sua musica e le sue canzoni conserva le good
things con cui siamo diventati grandi e abbiamo imparato ad amare il mondo,
apprezzare la bellezza, cogliere l'armonia e il senso della storia, rispettare
le differenze. Terapeutico.
Inglese fino al midollo, Ian Hunter a 77 anni sembra conoscere una nuova primavera. Era
difficile fare meglio di Man Overboard il suo disco del 2009 con cui era tornato in
auge, almeno nella nicchia dei resistenti, Fingers Crossed lo eguaglia, per qualità di scrittura, verve
rock n'roll, canzoni di cuore, una in particolare, Dandy che è il miglior omaggio dell'anno a David Bowie, talmente
bella da ricordare All The Young Dudes. Accompagnato
dalla fedel Rant Band, Ian Hunter si rivela alla sua venerabile età un cantante
magnifico, soprattutto quando maneggia quelle abbandonate ballate che profumano
di Dylan (ne è esempio il brano che intitola l'album), un rocker nervoso e
graffiante quando scalpita alla maniera dei Mott The Hoople e rinfresca il glam
ed un cabarettista di classe quando si siede al piano e si infila in quei
quadretti tipicamente british fatti di ironia, tocco aristocratico e sudicio di
pub del quartiere, quasi fosse l'unico sfidante di Ray Davies su questo stesso
terreno. Fingers Crossed è un ottimo disco di rock inglese con tutto ciò
che nobilita il genere, melodia, testi pungenti,sferzate elettriche, varieté, atteggiamento dandy ed una band che si diverte.
Chiudo gli oldies
but goodies coi Mudcrutch che con 2 (
premio per la peggior copertina dell'anno) non avranno fatto un disco pimpante
e arzillo come quello del 2008 ma elargiscono del sano e classico rock n'roll autostradale americano come lo ha
reso celebre Tom Petty. Che nello
specifico si "limita" a suonare il basso e cantare (oltre che
scrivere diverse canzoni) ma, coi suoi due fidati Heartbreakers Benmont Tench
(tastiere) e Mike Campbell (chitarre), coinvolge la band (gli altri sono il
batterista Randall Marsh e il chitarrista e cantante Tom Leadon ) in un drive
irresistibile tra accelerazioni, impennate chitarristiche e dolci armonie, tale
da rievocare i Byrds in formato nuovo secolo. Se difatti 2 (alla faccia della fantasia per il
titolo) lo infilate nello stereo della macchina vi trasforma un breve tragitto
casa/lavoro in un coast to coast da
cui non si vorrebbe più scendere. Road movie.
the blues is alive and well
Non
solo di blues qui si tratta ma il background è inequivocabile sia per Francesco Piu, per Simo, per la Tedeschi-Trucks
Band e Cedric Burnside Project. Del primo un recente blog vi dice tutto quanto
bisogna sapere, Love & Groove è il mio disco italiano del 2016. Non ne abbiano
male gli altri. Di Simo e Tedeschi-Trucks Band avevo già scritto nel blog tempo
addietro e non posso che ribadire i pareri positivi di Let Love Show The Way, un
album viscerale, sanguigno, torrenziale, magari debordante nella durata e
ancora ingenuo in certe sue parti ma espressione di un rock-blues urgente e
senza filtri che dal vivo, nel concerto estivo al Carroponte, ha stregato i
presenti facendo venire in mente i Taste dell'isola di Wight. J.Simo ha tecnica, gioventù e feeling,
in trio sono una forza della natura.
Diverso
il discorso per Let Me Get By , qui regna sovrana l'eleganza, la variopinta
alchimia sonora, la padronanza tecnica dell'ensemble, la voce suadente di Susan Tedeschi, la chitarra fantasiosa e
allmaniana di Derek Trucks, gli
arrangiamenti di una band che conosce a memoria i suoni e gli umori che dal
blues si espandono a tutto il sud . Un album suonato benissimo, arioso e sereno
pur con soluzioni musicali non ovvie e complesse, basta ascoltarsi Anyhow con cui si apre l'album (la mia
canzone preferita dell'anno) per capire che qui c'è uno studio ed un team
straordinari, quella capacità di fondere
trombe, arrangiamenti e melodia in un unisono perfetto e nello stesso tempo mantenere salda la canzone senza perdersi
nella suite. Prima che Trucks con la chitarra inventi uno di quegli assoli da
incanto.
Se Let Me Get By è un piatto raffinato,
il blues di Cedric Burnside Project è
uno speziato e robusto red beans and rice. Il progetto è stato messo insieme
dal nipote del più famoso e scomparso R.L Burnside con il chitarrista Trent
Ayers e il polistrumentista Garry Burnside, mi è capitato di vederli dal vivo,
ma erano in formazione ridotta a due, lo scorso ottobre al Blues and BBQ
Festival di New Orleans dove sono stati il set più eccitante della rassegna,
hanno letteralmente messo al tappeto Lafayette Square con un un'ora di torrido,
ritmato, ipnotico blues, rockato come solo i musicisti provenienti dalla zona
collinare a nord del Mississippi sanno fare. Lo chiamano North Hill Country
Blues, un sottogenere del Delta proliferato nella zona settentrionale dello stato,
nelle colline e nelle campagne attorno ad Holly Springs e Oxford, ha avuto come alfieri R.L Burnside e Junior
Kimbrough, i quali attraverso le incisioni della Fat Possum lo hanno esportato
in tutto il mondo. In realtà l'inventore di questo blues aspro e a tratti
visionario, spartano e povero di strumentazione ma incredibilmente coinvolgente
e trascinante, risponde al nome di Mississippi Fred McDowell, uno a cui anche gli Stones devono
molto. Con Descendents Of Hill Country il CBP ha raccolto l'eredità dei North
Mississippi Allstar, molto di quello che c'è nel disco rimanda difatti
all'esaltante opera debutto del gruppo dei fratelli Dickinson, Shake
Hand With Shorty. Chi apprezza le lande periferiche e marginali del
blues è allertato. Suonatelo ad alto volume accompagnandolo con la birra.
you
want it darker
Un
anno così funereo non è mai capitato, impressionante
fare la conta di chi se ne è andato, speriamo che il 2017 non sia così cattivo.
Ci sono dischi che sono usciti a ridosso della scomparsa dell'artista, altri il
cui tema è il lutto, la perdita, il dolore. Blackstar di David Bowie,
il disco più "decorato" del 2016 appartiene alla prima lista, Skeleton
Tree di Nick Cave & The Bad
Seeds alla seconda. Ho comprato Blackstar, disco ardito, coraggioso,
cerebrale, in un anno lo avrò ascoltato non più di una decina di volte,
troppa angoscia mi infonde il suo ascolto. Colpa mia, forse ma per farmi male
il meno possibile ho limitato l'uso, d'altra parte non sono mai stato un fan
del Duca pur riconoscendo la sua genialità ed il camaleontismo. Del disco di
Nick Cave, di cui ricordo ancora con grande entusiasmo Push The Sky Away e il
relativo tour, non so pressoché nulla a parte il fatto che sia stato realizzato
per esorcizzare il dolore per la perdita del figlio. Fino ad oggi non l'ho ascoltato
per cui passo oltre.
Ho
ascoltato moltissimo invece in questo periodo di festività You Want It Darker non senza una vena di malinconia e tristezza
per la recente scomparsa del suo autore, Leonard
Cohen. Apriva e chiudeva le mie giornate con le sue note notturne, la voce che
parla all'anima, la poesia sulla mortalità.
Una stanza vuota con l'unico sottofondo di una musica tratteggiata da sottili
arrangiamenti, l'emozione a fior di pelle, il lascito di un artista superbo,
profondo, integro fino alla fine. Di dolore si parla anche in uno degli album
che più ho amato quest'anno, The Ghosts of Highway 20, il viaggio
di Lucinda Williams in quelle strade
del sud popolate di morti, fantasmi, ricordi, memorie, fede e grazia, che
costituiscono l'humus per coltivare una musica che è la nuova letteratura del
sud. Descrittiva ma anche visionaria, intima e carnale, dove le ballate del dolore si
abbracciano col rock n'roll della tenacia ed eccellenti musicisti come Greig
Leisz e Bill Frisell coi loro strumenti a corda ne sottolineano l'affascinante tristezza,
l'eco solitario, le lentezze, come fosse un aggiornato Time Out Of Mind di Dylan.
new
kids in town
Giovani rockers crescono e Tom Petty li battezza. Dopo
averli visti suonare se ne è innamorato e gli ha messo a disposizione il
proprio studio casalingo per registrare The
Shelters, il loro album omonimo, un lavoro che rinfresca il rock
californiano secondo una declinazione power-pop e una verve giovane, scapigliata,
sbarazzina, quasi british. Quel formato
di canzone da tre/quattro minuti spedita, spumeggiante e chitarristica che
ascoltata ad alto volume vi fa correre contro il vento a cercare di nuovo i
brividi di una west-coast ormai fuori uso. Quattro losangeleni con la faccia da
duro e la brillantina del rockabilly, divertono e fanno ballare pur aggiungendo
un pizzico di sognante psichedelia sixties. Le chitarre e le voci di Chase
Simpson e Josh Jove, la scatenata batteria di Sebastian Harris, il trainante
basso di Jacob Pillott, sono l'armamentario di una band che pur mirando al sodo
è già in grado di sortire canzoni che fanno centro dopo pochi ascolti. Freschi
da morire. Sulle stesse coordinate un'altra band di Los Angeles, The Record Company, agita le strade
della città. Give
It Back To You è un attestato di resistenza dedicato a quanti ancora vanno
in fibrillazione per Stooges e Rolling Stones, John Lee Hooker e Hound Dog
Taylor. Possiedono l'immaturità dei coraggiosi e da spregiudicati frullano i
grandi vecchi con la loro attitudine da teppistelli urbani pronti a far saltare
in aria il club sotto casa con un incendiario set di rock n'roll tinto di beat
e di blues. Sono la risposta americana agli Strypes e basta osservare la
copertina del disco per tranquillizzarsi sul futuro del rock n'roll. Sta dietro
le spalle.
Totalmente diverso è Sturgill Simpson uno del Kentucky che ha fatto i lavori più
disparati prima di arrivare alla musica. Il debutto è dentro un paesaggio
sonoro di montagne e bluegrass ma nel 2013 High Top Mountain ha la fortuna di beneficiare del
produttore roots più in voga al momento, Dave Cobb. Ne viene fuori un mix di
suoni elettrici e country fuorilegge sulla falsariga del fortunato Traveller
di Chris Stapleton. Ma Sturgill Simpson è uno a cui piace cambiare ed
esplorare, con A Sailor's Guide To Earth il suo background rurale si stempera in
un più eclettico soul che esplode in ballate poderose ed epiche, qualcosa che
sta tra i grandi della Motown e gli Hot House Flowers. I colori e il disegno di
una copertina da quadro ottocentesco rendono l'idea, un sound possente fatto di
squarci deflagranti ed una voce tenorile
servono a creare tensione, forza e immaginazione per storie di mare e marinai,
come fosse un'avventura ai confini del mondo. Se non soffrite il mal di mare
regala ottime sensazioni.
Nel segno di blues apocrifo intrecciato con altri peccati
sudisti è The Marcus King Band, una delle rivelazioni dell'anno. Il
leader Marcus King è un giovane ragazzo bianco con la voce da soulman nero ed
una chitarra da faville. Per lui si è scomodato Warren Haynes che gli ha
prodotto il secondo disco affermando
"è il primo chitarrista
dall'esordio di Derek Trucks che suona con una maturità che va ben oltre la sua
età". Marcus King ha solo ventanni ma è già un fenomeno in grado di
maneggiare con una personalità da veterano blues e soul, jazz, gospel e rock,
oltre a capitanare una band, la Marcus King Band, che sembra una brillante copia
della Tedeschi-Trucks Band. Nativo di Greenville, South Carolina, figlio del
bluesman Marvin King, Marcus King ha
le sembianze da scavezzacollo di un giovane Ronnie Van Zandt, capelli lunghi,
cappellaccio da ribelle confederato, sorriso beffardo, il tipico figlio del sud
che ha imparato presto a muoversi nella musica, grazie al padre bluesman e
grazie ad un talento precoce che lo porta a possedere una inusuale chiarezza
sia come songwriter che come chitarrista, come cantante e come bandleader. Dopo
il debutto nel 2015 con Soul
Insight ha firmato con la
storica Fantasy ed il nuovo disco è uno degli avvenimenti più invitanti
nell'ambito di quella southern music che non finisce mai di stupire. Chi
apprezza un disco come Let Me Get By della Tedeschi-Trucks
Band troverà qui un giusto sequel. Muscoli e cuore, assoli e melodie, ritmo e
raffinatezze, in The Marcus King Band ci
sono numeri di classe, a cominciare dalla voce soulful del leader e dalla sua esuberante
chitarra. La band è superlativa, un ensemble dinamico che affonda perfino nel
jazz capace di mettere insieme Memphis,
i Muscle Shoals e New Orleans senza accasarsi da realmente nessuna parte. Una
promessa da tenere sotto osservazione, se non credete andate su YouTube ad
ascoltarvi la loro interpretazione di Spanish
Moon dei Little Feats.
Per
finire una donna, finalmente. A parte la "stagionata" Lucinda
Williams (un complimento, benintesi) mancano nuove figure femminili in grado di
scaldare il cuore come un tempo facevano Joni Mitchell, Rickie
Lee Jones, Patti Smith, Linda Ronstadt, Chrissie Hynde. C'è Norah Jones troppo
elegante, Mary Gauthier troppo outsider, Cat Power troppo indecifrabile , Tift
Merritt troppo defilata, Brittany Howard degli Alabama Shakes troppo vogliosa
di scalare le classifiche snaturando il suo background, ma manca la rockeuse per cui sognare di fare il
roadie . In ambito roots la
situazione è migliore, Gillian Welch è ormai la signora del country come una
volta lo era Emmylou Harris e tra le nuove arrivate passi da gigante ha fatto Carrie
Rodriguez. Texana di origini messicane, diverse volte capitata in Italia,
Carrie Rodriguez possiede una voce calda e dolce che si adatta al mood
malinconico, errante ed evocativo delle sue canzoni on the border. In particolare Lola il suo splendido disco
dell'anno trascorso cattura la sua anima migrante attraverso piccole ma
significative storie famigliari al di qui e al di là del Rio Grande. Delicate
canzoni nella forma ma spesse nei contenuti cantate in inglese ed in spagnolo,
un flusso di emozioni che valgono più di un trattato sull'immigrazione, suoni
che si collocano tra il folk, il country, tex-mex, ballate tratteggiate con una
finezza incredibile e pregne dell' intensità di chi le vive in prima persona,
musicisti sopraffini a partire dal marito Luke Jacobs (tutte le chitarre
possibili di questo mondo), dal contrabbassista Viktor Krauss, dal chitarrista
elettrico David Pulkigham (già con Alejandro Escovedo), da Brannen Temple e da
Bill Frisell, che qui come nel disco di Lucinda Williams aggiunge quel tocco suggestivo,
rarefatto e ambient che colloca il racconto di Lola solo un po' più ad ovest di The
Ghosts Of Highway 20. Struggente.
E con questo chiudo e auguro Buon Anno a tutte
e tutti.
MAURO ZAMBELLINI DICEMBRE 2016