lunedì 22 aprile 2013
martedì 9 aprile 2013
GIOVANI TURCHI
Mi si accusa di essere passatista nei gusti musicali,
sono solo indipendente, non dipendo ne da quelli che commerciano e pubblicano
musica, ne da quelli che devono trovare la novità a tutti i costi, ne dal tempo
e dall'età. Dipendo solo dal mio ascolto, che con l'età si sarà un po' appannato
ma è ancora in grado di emozionarsi. Capisco
che il rock non sia come venti, trenta , quaranta anni fa ma nemmeno che ci si
debba accontentare di questi smorti primi mesi del 2013, dove oltre a non trovare nulla
del nuovo che avanza non trovo nemmeno l'usato sicuro. Ad eccezione della nuova frontiera del rock italiano non
cantato in italiano. La questione, poi, è molto più seria di quanto
mettano in luce i miei simpatici detrattori ( è una discussione sui
"piaceri" quindi lungi dal trasformarla in crociata, ce ne sono
già troppe in giro) perché anche con i grandi personaggi del passato che amo si
fa fatica a "volare" o almeno a librarsi sopra le nefandezze del
presente. Non mancano le eccezioni, nel mio Best del 2012 c'erano nomi e
cognomi, ma un disco che ti rapisca e ti faccia ascoltare la musica senza fare
altro, concentrandosi solo sulle canzoni, sulla voce e sugli strumenti, in
questi primi mesi del 2013 faccio fatica a trovarlo. Qualche brivido l'ho
provato ma sono brividi di seconda mano, ad esempio la ristampa deluxe di Rumours
dei Fleetwood Mac, triplo CD che mi ha fatto riscoprire un capolavoro
che al tempo avevo solo apprezzato senza entrarci dentro con la giusta
sensibilità, per via di quel sound elegante, sofisticato e too much
californiano che all'epoca non vestiva le mie più sanguigne tensioni. Era una
questioni di ambienti, di sentire, di frequentazioni, di droghe diverse. Rumours
è un grande album e purtroppo finisce poco nelle classifiche sui
classici del rock stilate dalle riviste specializzate solo perché è troppo pop
e non ha nessuna vergogna di esserlo. Meglio Rumours di tanti dischi alternativi che si fa fatica a sentirli
due volte.
L'innamoratissimo
Bottazzi mi ha fatto invece ritornare a Graham Parker & The Rumour ( non
l'avevo mai lasciato in verità ma lo consideravo un partigiano della old-wave) il
cui Three
Chords Good suona realmente convincente e positivo, più ancora
dell'apprezzabile Don'Tell Columbus. E' un disco di una semplicità e di un calore
esemplare, oltre che sincero e affatto
nostalgico, nonostante la pietosa copertina da bocciofila di paese. E' un disco
di cui non ci si pente dei soldi spesi per portarselo a casa, così come sono assolutamente
gradevoli e di buona compagnia (almeno si sentono e si risentono) Memphis
di Boz Scaggs (lo evitino chi detesta i toni soft e soul), Songs From The Barn di Southside
Johnny ( a metà strada tra il DeVille messico-louisiano e il country-soul) e Minute
By Minute della James Hunter Six ( ottimo northerrn soul con un pizzico
di Them, guardate la copertina) di cui
trovate ampie recensione in questo blog. Dischi come si facevano una volta,
certo non l'illuminazione che ci si aspetta dal rock, difatti sono tutti e tre
molto mood & mellow ma realizzati con quella cura dei suoni e delle parole lontana dalla tecnologia, finalizzata a regalare alle canzoni il loro significato
originario ovvero cambiare l'umore della giornata, offrire un pizzico di gioia di vivere ed innestare
quel cambio di marcia che è necessario per andare avanti.
Non è comunque vero che non ci sia
nulla di nuovo in scena che vale la pena di acquistare ( il download lo detesto
anche se è economico), ad esempio nel mondo di quei singer/songwriter tanto
amati dai romantici e dai solitari ci sono dei nomi molto interessanti, alcuni
dei quali provenienti dalla grigia Inghilterra. Amano la poesia ma spesso
frequentano l'inferno, maneggiano le parole come fossero novelle a metà tra
Mark Twain e Salinger ma sotto, dietro
l'immancabile chitarra acustica, roteano le elettriche e la sezione ritmica si
sente, eccome. Del primo ne parlai tempo fa su questo blog, si chiama Ben Howard, londinese ma cresciuto nel
Devon, il suo Every Kingdom è un
piccolo gioiello elettroacustico, un'oasi di tranquillità in un mondo rumoroso,
volgare e di corsa. Vale la pena ascoltarselo in santa pace in un momento di
relax, staccando la spina da tutto il resto. E' una boccata di aria fresca in
una giornata con alti livelli di polveri sottili, è ameno, poetico, estatico,
anche se l'umore delle canzoni ha spesso a vedere con le brume autunnali, i colori
invernali, le solitudini dei mari del nord.
E' una perfetta sintesi di bucolica malinconia folk e intrigante melodia
pop, unisce vocalizzi, strumenti a corda, percussioni, sognanti ballate sospese
in una dimensione senza tempo e tensioni bluesy con tormentate divagazioni
elettriche. E' acustico nello spirito ma ha pulsazioni elettriche che cambiano il senso della canzone, insomma un vero gioiellino. Dopo Every
Kingdom del 2011, Ben Howard ha pubblicato due Ep, Ben Howard Live e The
Burgh Island, siamo in attesa del nuovo album.
Gli altri inglesi sono Jake Bugg e
Jamie N Commons. Il primo viene da Nottingham, ha la faccia del moccioso e il
piglio del ribelle di periferia. E' giovanissimo, del 1994, ha iniziato a
suonare la chitarra a dodici anni e dice di essere stato influenzato dai
Beatles (che fantasia!), Everly Brothers, Donovan, Don Mc Lean ma la sua voce
ricorda quello di un acerbo Dylan e la sua pettinatura quella di Noel
Gallagher. La stampa e le radio inglesi si sono mosse tempestivamente attorno a
lui tanto che è apparso nel 2011 al festival dei festival ovvero Glastonbury,
sul palco degli emergenti. Il suo nome è stato affiancato a quello di Ben
Howard ma i due sono molti diversi. Jake
Bugg è irruente, scavezzacollo, musicalmente parlando, il suo folk-rock è
agro e spartano, ricorda perfino Billy Bragg nel suo gesto ma si sente che tra
il punk e Bugg è passata più di una decade di brit-pop. Il suo omonimo disco
d'esordio è uscito lo scorso ottobre, la stampa ha gridato al nuovo Dylan,
forse perché chiunque si presenti con una chitarra ed un armonica deve essere
per forza un discendente degli Zimmerman. A dire il vero un po' di Dylan c'è
nel suo disco, ad esempio nella bella Simple
As This seguita da una Country Song che
invece odora di Donovan. L'inizio dell'album è folgorante, Jake Bugg sembra uno
che lo stessimo aspettando da tempo, ha
personalità, attitudine e voce, lo stesso
scrivere mostra già una buona maturità, le canzoni non lasciano
indifferenti, un po' di pop, un po' di combat folk, un po' di rock, peccato che con l'andare del disco la sua
ugola assuma una piega un po' mielosa che alla fine stanca. Ma è solo un
esordio, promettente, spero che Jake Bugg non si perda nelle strade dei talenti
mancati.
Ben più potente l'esordio di Jamie N Commons, altro figlio di
Albione, che con il suo Ep di esordio mi ha letteralmente steso. Una forza
incredibile e strabiliante, una voce che ti arriva dentro senza preavviso e ti
scombussola le emozioni, sembra quella di un vecchio bluesman ma scende da un
universo scuro ed inquietante che evoca Johnny Cash, Nick Cave e altri uomini
in nero. I suoni sono aguzzi, metallici, post-industriali ma gli strumenti sono
quelli classici del rock n'roll, a parte un accenno di synth in Worth Your While e poi c'è una straordinaria versione di Have A Little Faith di John Hiatt eseguita
con una personalità da far paura, stravolta rispetto all'originale. Comincia
con Rumble
and Sway l'Ep di Jamie N Commons ed è folk-rock del
XXII secolo, scuro, sincopato, tatuato da una batteria assassina. La seguente Wash Me In The Water è biblica nelle liriche e nei cori, un bagno
di gospel per una melodia che si allarga radiosa e grandiosa, portando in
paradiso un mondo di anime affamate. Con un arrangiamento folkie non avrebbe sfigurato nelle Seeger
Session anche se Commons ha modi e tensioni più contemporanee. Con Worth
Your While si torna all'inferno, batteria lorda in levare, la voce scura e
cavernosa , il devil in me di Jamie N
Commons è feroce come le chitarre ferrose ed il ritmo incalzante da noir
post-atomico. Per Have A Little Faith di
Hiatt c'è solo una parola, ascoltatela! C'è il
carisma dello Springsteen di Wrecking Ball con tutto quel sound
che ha lasciato perplessi i "fondamentalisti" del Boss. Caroline
è invece una ballad lenta che mi ricorda il Ray LaMontagne intimista di Till
The Sun Turns Black, tra folk e soul, voce roca, arrangiamenti
orchestrali ed un'armonica rubata al solito Dylan. E' il preambolo dell'ultima
traccia, The Preacher. La potete vedere
e sentire su youtube. Inizia lenta e solenne, ma si aspetta che il predicatore
lanci i suoi strali e difatti dopo l'overture si carica di voci, cori,
strumenti, violini tristi come un funerale, frizioni elettriche, così da
deragliare in una vera apocalissi. Era diverso tempo che non mi imbattevo in un
disco così intenso, peccato sia solo un Ep. Per la cronaca, Jamie N Commons è
entrato nella soundtrack della terza stagione di Walking Dead.
L'ultimo dei
giovani turchi, Willy Mason, è
invece americano, è nato a New York nel 1984 ma vive nell'isola Martha's
Vineyard nel Massachusetts, un luogo di ricconi della East Coast. E' stato
scoperto da Conor Oberst in un club di Martha's Vineyard e ha debuttato nel 2004 con l'album When The Humans Eat che ha scalato
le classifiche inglesi. Mason è difatti più popolare al di qua dell'Atlantico a
causa di un songwriting poco americano, più confacente ai modi e allo stile
inglese, per qualche verso paragonabile a Ben Howard. Lo affermano anche le sue
frequentazioni poco usuali per un classico autore made in Usa, una sua canzone
è stata ripresa dai Chemical Brothers, ha cantato nell'album di Isobell
Campbell e Mark Lanegan. ha supportato Radiohead e Beth Orton, una sua canzone
è finita in una sitcom inglese, ha registrato un live a Manchester ed il suo
secondo album, If The Ocean Gets Rough si è fatto strada nelle classifiche
inglesi ed irlandesi. Insomma uno fuori dai ranghi, ed questa è una virtù, perché la sua musica è
sganciata da qualsiasi modello del passato e si presenta come l'espressione di
un songwriter dalla voce profonda e particolare che sa trasmettere stati di
abbandono estatico e momenti introspettivi plumbei e nordici. Almeno questo è
quello che si evince dal suo recente disco, Carry On, un lavoro molto
interessante che spazia da brani come Restless Fugitive in cui gli strumenti
frizionano fino a diventare feedback a lente ninne nanne acustiche come Show Me The Way To Go Home dove si
avverte il riverbero del Nick Drake più intimista. Un disco vario e composito Carry
On, che seduce con la forza
della dolcezza e con visioni che prefigurano, è il caso di Into Tomorrow, un mondo a misura d'uomo. Arrangiamenti
raffinati, le chitarre che si fondono con un esile drum programming, con l'organo,
con una fisarmonica, c'è tutta l'arte
del songwriting in Carry On, mai una sbavatura, mai una ripetizione, solo la
minuziosa ricerca della massima espressività emotiva con il minimo del supporto
tecnologico. Alla fine quello che risalta è il cantato tranquillo e profondo di
Willy Mason e le sue canzoni, una, Painted
Glass, vicino perfino a Fabrizio DeAndrè. Per cuori gentili e gente che ama
il mare d'inverno.
MAURO ZAMBELLINI APRILE 2013
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