E' diventato uno degli sport più praticati sui social
la playlist personale dell'anno, scatenando a volte vere ed immotivate risse
tra i followers di questo o quell'altro, sebbene tutti si sforzino a
specificare che non dei dischi o concerti o canzoni migliori si stratta ma solo
di quelli che l'autore ha preferito durante l'anno passato. Sacrosanto punto di
vista, che condivido in pieno e applico di sana pianta al mio resoconto, ma che
in taluni casi, specie quando la rissa diventa da derby o peggio, non cela il
fatto che qualcuno si reputi il super esperto decidendo arbitrariamente ciò che è più bello
e più meritevole. Rilassiamoci, si litiga per le religioni, la politica, il
calcio, almeno con la musica divertiamoci perché anche se ha salvato vite e
condizionato esistenze, sono solo canzonette, pur inscatolate in box ormai dal
prezzo proibitivo. Sono proprio i box dei grandi artisti ad aver acceso gli
animi e provocato i commenti più suggestivi, me ne ricordo uno particolarmente
pittoresco che ha definito il singolo disco The Ties That Bind contenuto
nel box del Boss, The River Collection, ovvero
quello che avrebbe dovuto essere l'originale quinto album di Springsteen,
migliore del doppio album The River poi pubblicato. Difficile
dire dove finisce la soggettività ed inizia l'oggettività in un giudizio
critico ma qualche volta sembra che il divertimento sia spararle più grosse.
Comunque ognuno può esprimere i propri punti di vista, rispettando quelli degli
altri. Nessuno ad esempio mi può impedire di dire che quest'anno, per chi
scrive naturalmente, è stato un anno deprimente, poche novità in grado di
alzarsi da uno standard solo accettabile, nessuna scena musicale emergente se
non l'avanzo di microcosmi con alle spalle i giorni migliori, tanti artisti di
culto che avevano caratterizzato le annate precedenti (vedi Lucinda Williams ad
esempio) assenti, i grandi impegnati a coltivare la propria fama solo aprendo i
propri archivi, scintille emotive poche,
tante ripetizioni. Condivido quello che scrive Blue Bottazzi nel suo blog,
nessun disco del 2015, almeno per quanto riguarda il rock più o meno classico,
è degno di passare alla storia. Per la rivista per cui scrivo ho fatto fatica a
mettere insieme dieci titoli per la playlist dell'anno e come ormai spesso
succede, sono dovuto ricorrere alle ristampe, per completarla. Questo non vuol
dire aver ascoltato poca musica, la rete e spotify offrono scorciatoie senza
spendere soldi ma più degli anni passati mi sono trovato a ridurre l'acquisto
di dischi rispolverando quelli archiviati negli anni passati . In particolare mi
sono divertito a ripassare tanto jazz, cofanetti di Miles Davis e John
Coltrane, di Charlie Mingus ( l'imperdibile Passions Of a Man), Bill
Evans (Last Waltz), di Lester Young, antologie di Chet Baker (The
Pacific Jazz Years 1952-1857), vecchi
vinile di Thelonious Monk e McCoy Tyner , il monumentale The Complete Billie Holiday on
Verve 1945-1959 che in rete lo si trova ad un prezzo
stracciato ed è una delizia assoluta, anche meglio del box Lady Day relativo al
periodo Columbia. Certo, tutto ciò non centra nulla con la produzione dell'anno
ma se tutta questa musica resiste nel tempo perché dovrei limitarmi a degli
ascolti che al massimo "tengono" un paio di mesi, solo perché sono
recenti.
Le ristampe sono ormai un settore a sé della
discografia, con prezzi che in taluni casi hanno del vergognoso e non inducono
certo un giovane ad avvicinarsene. Si rivolgono ad un pubblico già scafato
musicalmente, di ceto medio alto che può permettersi simili spese e che in
molti casi ha già tutto dell'artista in questione. Come dire, tutto il
contrario della base sociale su cui il rock n'roll ha fatto presa e ne è
diventato collante culturale e stile
esistenziale. Il rock classico è oggi come il jazz e la classica, mettiamoci il
cuore in pace. Mi sono comprato il box del Boss, non avrei potuto fare
altrimenti visto che The River è uno dei cinque pezzi da
novanta di Springsteen, ho sborsato 85 euro, mi sono esaltato con il Dvd del
concerto di Tempe e i pensieri sono corsi a quei giorni del 1980 e 1981 quando le canzoni di quell'album mettevano
propellente alla mia vita . Ho gustato
le out-takes rese disponibili da un audio finalmente decente ma alla fine di
questo tour sul fiume mi sono detto,
non è che noi over fifty e over sixty alla fine amiamo di più l'oggetto piuttosto
della musica che c'è dentro? Perché ormai quella, salvo rari casi, la
conosciamo a memoria avendola stravissuta e stra-ascoltata negli anni e allora quante volte ritorneremo a
sentire l'oggetto in questione. Ci piace vederlo nello scaffale come un trofeo
ma vivere la musica è un'altra cosa. Non
mi riferisco solo a The River
Collection ma alla maggioranza di questo tipo di pubblicazioni, box che
sembrano all'inizio imprescindibili e poi sono solo un oggetto del desiderio che
diventa un feticcio da avere a tutti costi, non si vede l'ora di possederlo,
anche se le canzoni li si conosce a memoria e non sono certo una decina di
out-takes o di alternative takes più un
libro di belle fotografie a poter motivare una simile febbre. Considerato poi
il fatto che sia per Springsteen, sia per gli Stones ed in parte anche per
Dylan ciò che a suo tempo è stato
pubblicato era il meglio che si potesse avere. Così le out-takes di The
River sono belle e preziose ma il doppio che uscì nell'ottobre del
1980, a parte forse un paio di canzoni, fu la scaletta più azzeccata. Capendo
la malattia ( o meglio la dipendenza) cerco quindi di volare basso, anche
perché le mie finanze me lo impongono, cofanetti come Fisherman's Box degli
Waterboys uscito un paio di anni fa, quello sì veramente una miniera di cose
mai sentite e cronaca di un esaltante work in progress creativo per di più
disponibile ad un prezzo popolare, ne escono uno ogni cinque anni se va bene, e
allora una selezione me la impongo per necessità e moralità. Dopo la "sola"
dello scorso anno con i Basement Tapes (per fortuna me lo
avevano regalato), quest'anno con Dylan ho preferito volare basso e del volume
n.12 delle Bootleg Series 1965-66 mi sono fatto il doppio CD The Best of The Cutting Edge , davvero
splendido, evitando i 100 e passa euro per il Box di 6CD, che comunque rimane a
detta di molti ( e ci credo) un grande documento. Ma tant'è, less is better o forse mi consolo a
pensarla così. E così anche per Sticky Fingers dei miei amati
Rolling Stones mi sono limitato al double CD che basta e avanza perché,
tralasciando il concerto alla Roundhouse, quanto a out-takes inedite non siamo all'altezza
né della ristampa di Exile On Main Street né di Some Girls . Tralascio di
commentare il mastodontico Box di 18 CD del Cutting Edge di Dylan, edizione limitata per una cifra di
670 dollari più tasse doganali, una vera speculazione da parte della Sony per
blindare il periodo migliore di Dylan che tra poco tempo rischiava di essere di
pubblico utilizzo. La musica non è di tutti ma di quelli che la mettono in
cassaforte, fanno bene i giovani a scaricarsela, loro che non sono nel tunnel
dei feticci e dell'oggetto solido. Sempre parlando di ristampe i Rolling Stones
che in quanto a business non sono secondi a nessuno hanno tradotto fisicamente
in oggetti palpabili alcuni dei live precedentemente rilasciati download. Ottimi
concerti di annate diverse, audio CD corredati di intriganti DVD, ognuno con
una sua valenza particolare e immagine di differenti periodi della band, magari
precedentemente sottovalutati. Divertimento assicurato anche se trattasi dei soliti
immarcescibili Rolling Stones, i filmati sono l'occasione per vedere come è
cambiato il loro look, come Jagger riesce a rimanere sempre uguale pur
cambiando, come ingrigisce Keith Richards e come Ron Wood migliora di tour in
tour, come mutano le loro scalette (a parti i soliti pezzi noti) e anche il
sound, a volte più rock n'roll, altre più R&B e funk. Ecco quindi The Marquee Club Live In 1971, cinque
stelle seppure sia uno show a lunghezza ridotta per uno special televisivo, Rounday
Park Live In Leeds 1992, quattro stelle per un tour che aveva prodotto
il mortificante Still Life, e Live At Tokyo Dome 1990, quattro
stelle per la "prima" in Giappone con il tour del rientro, dopo gli
anni frozen tra Jagger e Richard.
Parlando di leoni del passato, in questo caso purtroppo defunti, vale la pena
di farsi un giro con I'll Remember quattro CD che raccontano l'epopea in studio ed in
concerto dei Taste, il trio di Rory Gallagher che nel 1970 all'isola di Wight
oscurò con il loro incendiario rock-blues irlandese gli headliners Hendrix e
Who. Proprio quel concerto, non incluso nel box in questione, è poi stato reso
disponibile da un CD audio ed un DVD ( What's Goin' On- Taste- Live At The Isle of
Wight) che riporta l'intera esibizione del gruppo a quello storico
raduno pop.
La discografia ufficiale ha scoperto Willy DeVille,
vivaddio, anche se è meglio aggiungere che sono i tedeschi e ricordarsi dell'artista più bistrattato ed ignorato della storia
del rock. Dopo il Live at Rockpalast 1978&1981 che documentava il periodo Mink
DeVille, all'inizio dell'anno è arrivato (ma è datato 2014) l'ottimo Willy DeVille Live at Rockpalast
1995&2008 di cui ho dato
ampio resoconto su questo blog. Sul fronte jazz non ho potuto esimermi da
acquistare Miles Davis at Newport, primo perché sono un fan di Miles, il
mio jazzista preferito assieme a John Coltrane, secondo perché in quattro CD si
colgono i cambiamenti nell'estetica sonora di Davis attraverso esibizioni che
spaziano tra il 1955, dimensione ancora piuttosto classica tra cool jazz e
be-bop prima con Gerry Mulligan e Thelonious Monk, poi con John Coltrane e Bill
Evans, e il 1975 ovvero il Miles Davis "totale" dopo il
periodo free del 1966-67 con Shorter al sax, Hancock al piano, Ron Carter al
basso e soprattutto Tony Williams alla batteria e quello jazz-rock avveniristico
degli anni vicini alla pubblicazione di Bitches Brew. Sono registrazioni già
note ma assemblate in un appetitoso multi CD con tanto di foto e note, un modo
intelligente per documentare un'evoluzione con esibizioni dal vivo..
Lasciate da parte le ristampe, passiamo all'attualità,
e qui il discorso langue. In un post dell'agosto scorso intitolato Summer
In The City elencavo le pubblicazioni che mi erano piaciute fino allora:
innanzitutto lo splendido Ashes & Dust di Warren Haynes & Railroad Earth, il
gagliardo outsider Seasick Steve con Sonic Soul Surfer, un compendio di
musica da strada a da spiaggia fuori da qualsiasi itinerario turistico, la
freschezza roots-soul degli Hollis Brown di 3 Shots, l'arruffata
verve barricadiera dei Banditos. Dopo l'ottimo English
Oceans dello scorso anno
Patterson Hood dimostra che il vero maitre
a penser dei Drive By Truckers è ed è sempre stato lui. Quest'anno coi DBT mi
ha concesso di ritornare alle emozioni provate vendendoli dal vivo nel 2014 a
Londra, lo straordinario triplo CD It's Great To Be Alive! è per chi scrive il miglior live
dell'anno. Il suo ex suo compagno di viaggio Jason Isbell con Something
More Than Free, almeno per il sottoscritto, non è invece sullo stesso livello, d'accordo
che il suo è "solo" un disco in studio ma quella brillantezza di scrittura e profondità
interpretativa che molti gli riconoscono io non la sento. Come non ho ancora capito
se Primrose
Green di Ryley Walker è un disco da applausi per i suoi orizzonti onirici
e visionari, che a tratti rimandano a Jonathan
Wilson (altra stoffa però quest'ultimo), oppure una ristampa di un disco di Tim Buckley. Decisamente più convinto riguardo
al debuttante over-cinquantenne David
Corley, uno che ha avuto una vita tribolata e continua ad averla visto che
recentemente dopo un concerto ha sofferto di un attacco cardiaco. Il suo Available
Light è un onesto disco di un loser arrivato in zona Cesarini sulle strade
della ballata rock. Chi non perde tempo invece è Basko Believes, alias Johan
Orjansson, che con il meditabondo, lirico e sognante Idiot's Hill si rivela un piccolo Ryan Adams degli spazi
nordici. Una promessa dalla Svezia, paese che con l'etichetta Rootsy.nu
dimostra sensibilità ormai rara nel promuovere songwriters dalle sonorità
rurali e stradaiole. Altro bel disco è Heartbreak Pass dei Giant Sand, lavoro
ricco di sfumature e suggestioni con cui la band dell'Arizona si conferma irriducibile
portavoce di quel rock desertico che pulsa
borderline, anche se visti sul palco
a Milano più di un mese fa, il loro set sconta dell'atteggiamento sufficiente di
un Howe Gelb dispersivo nelle
presentazioni e sopra le righe, colpa
forse di qualche birra di troppo.
La voce di Rhiannon Giddens, ex Carolina Chocolate
Drops oggi in abito lungo e scollato con ambizioni da diva, illumina Tomorrow
Is My Turn, il titolo è una canzone di Charles Aznavour, un disco elegante e affascinante in cui la
bella cantante supportata da un team di musicisti attenti a non prevaricarla passa
attraverso il soul, il country, il blues, canzoni d'amore drammatiche e
struggenti, con passo felpato e modi di classe. Forse è un pochino laccata l'
interpretazione, dove si vorrebbe più spontaneità ed un lasciarsi andare oltre la
perfezione stilistica ma basta la sentita versione di Sugaree di Elizabeth Cotten per consigliarne l'acquisto. Nessuna
perfezione ma molta urgenza nei lavori di Jesse Malin, enfant prodige del milieu newyorchese che sembrava ormai sfiorito
ed invece nel 2015 ha ritrovato la verve dei giorni migliori, quando era
benedetto dall'amico Ryan Adams. Due
dischi in un anno, New York Before The War e Outsiders. Ho
preferito il primo per la sua varietà, ballate col pianoforte e spigolature
elettriche, chitarre grondanti febbre rock e l'aria notturna di quella New York che negli
anni ottanta faceva sognare e adesso la si ritrova solo nelle canzoni di questo
troubadour col chiodo di pelle e le All Star.
Se
nel 2013 Boz Scaggs con Memphis
aveva realizzato uno dei suoi dischi migliori ricreando l'atmosfera
delle storiche registrazioni di Al Green per Willie Mitchell e la Hi-Tone,
aggiungendovi alcune chicche assolute come Rainy
Night In Georgia di Tony Joe White e rispolverando due canzoni di Mink
DeVille, Mixed Up Shook Up Girl e Cadillac Walk, due anni dopo si ripete
con A Fool To Care.
Insieme al batterista- produttore Steve Jordan cui si sono aggiunti Willie Weeks al basso, Ray Parker Jr. con la chitarra e Jim Cox alle tastiere, ha registrato il
disco al Blackbird Studio di Nashville addentrandosi nel profondo sud degli
Stati Uniti e traendo ispirazione per la scelta delle canzoni dai suoni del
Texas, di New Orleans e dell' Oklahoma, oltre che di San Francisco, luoghi che hanno avuto un ruolo
importantissimo nello sviluppo della sua sensibilità musicale. Da splendido
gourmet quale è non si è limitato agli standard ma ha scovato classici nascosti
rimettendoli in circolo vestiti a nuovo, arricchendoli della sua bravura e
maturità d'interprete, della sua voce calda e rotonda e di una strumentazione
tanto parca e misurata quanto elegante e moody. A Fool To Care è un disco
di blue-eyed soul rilassato ed estremamente piacevole. Steve Jordan sta dietro
anche al terzo disco solista di sua eminenza Mr.Riff ovvero Keith Richards, il
quale con Crosseyed Heart dopo venti tre anni dal
suo precedente lavoro asseconda la
propria voglia di musica in libertà, senza pressioni, scadenze, limiti, doveri.
Senza Mick Jagger. Una pausa di relax,
nessun intralcio coi piani dei Rolling Stones visto che in questi giorni sono
tornati on the road, piuttosto sfruttare i momenti morti per suonare con amici
di vecchi data una serie di canzoni che potrebbero, sparse, stare
benissimo nei dischi della famosa band
se non fosse che i musicisti che lo circondano sono diversi. A molti il disco
non è piaciuto, liquidandolo sbrigativamente, quando magari gli stessi avevano
parlato bene di Talk Is Cheap, la sua prima registrazione solista. Non si
capisce il metro di giudizio, Crosseyed Heart ha molte analogie con quel disco,
l'amore per il soul ed il sound di Memphis, il blues sfilacciato e il rock
n'roll da strada. il reggae e le ballate dondolanti, bellissima quella, Illusion, con Norah Jones. Un disco
divertente e di basso profilo, anche di cuore, come nello stile dell'autore.
Non un disco dei Rolling Stones, e nemmeno di Mick Jagger.
Nonostante
non tutto funzioni alla perfezione non mi è dispiaciuto nemmeno il nuovo lavoro
del più promettente chitarrista di rock-blues uscito negli ultimi anni, ovvero Gary
Clark Jr. Dopo il Live del 2014 devastante
apologia di rock e blues portati in lidi su cui solo gli Dei della chitarra, in
primis Hendrix, avevano camminato, il
texano con The Story of Sonny Boy Slim ha tradotto una delle sue affermazioni
" ascolto tutto e voglio suonare
ogni cosa". Ecco quindi la
diversità tra il Gary Clark Jr. del palco e quello dello studio, il primo
facilmente accessibile a chi ama le tinte forti e i fumi sulfurei del blues e
del rock, comprese le sue divagazioni psichedeliche e spaziali, il secondo più
complesso ed estroverso, non sempre digerito dai puristi perché disposto ad
abbracciare funky e jazz-rock, hip-hop e soul,
Smokey Robinson e Sly and Family Stone, Marvin Gaye e Jackson 5,
passando per i Parliament Funkadelic, Miles Davis, Freddie King, il rap di
Tupac, e naturalmente Hendrix. Un bel
casino direte voi, e così è The Story of
Sonny Boy Slim titolo che
trae ispirazione metà dalle radici southern dell'artista e dai musicisti blues
che lo hanno influenzato, metà dalla sua partecipazione come attore al film di
John Sayles del 2007 Honeydripper ,
la storia di Sonny un giovane musicista che trasforma il blues ed il R&B in
rock n' roll. Forse è questo l'intento del suo nuovo disco in studio, portare i
fans cresciuti a base di blues tradizionale verso destinazioni e territori
diversi, oltre i confini di quello che ci si aspetta da un chitarrista
cresciuto suonando all'Antone's, il celebre club di Austin, assieme a Jimmie
Vaughan, Hubert Sumlin e Pinetop Perkins. Un percorso impegnativo e ambizioso
che rischia di deludere coloro che amano la sua prorompente carica live e i
toni più classici del rock-blues, senza magari avere come contropartita
l'acquisizione di un pubblico disponibile agli esperimenti e alle modernità. Ma
al di là di certe concessioni funk, il suo nuovo lavoro è interessante e lo
ascolto ancora a diversi mesi dalla sua uscita.
Più
spartano e misurato l'ultimo disco, nel senso che è passato a miglior vita, di
Pops Staples il patriarca di una delle più celebri family band americane di
gospel, soul, pop, R&B, di cui è recentemente uscito l'appetitoso box Faith & Grace che documenta i
migliori anni della loro attività tra il 1953 e il 1976. Pops Staples è morto nel 2000, questo Don't
Lose This raccoglie le sue ultime registrazioni effettuate nel 1999 e
poi portate a termine dalla figlia Mavis con la collaborazione di Jeff Tweedy
di Wilco. Un disco bellissimo, sofferto e commovente ma anche solare e
rilassato, illuminato dalla singolare voce "abbandonata" di Pops
Staples e dal suo stile chitarristico scarno, che ingloba blues, gospel e soul
con una delicatezza e scioltezza senza eguali. Magnifica la versione di Gotta Serve Somebody di Dylan. Segnalazione
anche per il Frankie Lee di American
Dreamer, outsider che ha
vagabondato per mezza America prima di cantare di gente del nord, operai del
Minnesota e contadini del Nord Dakota, scandinavi arrivati dal nulla col nulla
che si sono ritagliati un posto dove vivere, storie ordinarie e amori
complicati, con una voce e un songwriting che intrecciano il primo Joe Henry con Lucinda
Williams, Freedie Johnston con Ron
Sexsmith. Nulla di eccezionale ma un disco con ballate e canzoni che scaldano
il cuore, ascoltatevi Where Do We Belong e
mi direte. Ben più rovente il Neil Young and Blue Note Cafè
miglior live dell'anno dopo quello dei Drive Blue Truckers per un performance
risalenti agli anni 1987/88 all'insegna di un notturno rhythm and blues con
copiosa sezione di fiati. Nessun titolo conosciuto tranne quelli risalenti
all'album This Note's For You , una resa R&B di On The Way Home dei Buffalo Springfield ed una epica versione di Tonight's The Night. Unica nota dolente la qualità audio, si
sentono bene i fiati all'unisono in alcuni momenti quando intervengono gli
assoli dei singoli il suono è lontano. Menzione particolare per una delle
canzoni dell'anno, Forbidden Nights di Darlene Love dal debordante album Introducing
D.L prodotto da Steven Van Zandt. Scritta da Elvis Costello e cantata
come se le Ronettes riempissero ancora l'etere, è una canzone corale che
sprizza gioia e buon umore col sound dei migliori giorni di Asbury Park, quelli
di The
River per intenderci.
Per
ultimo gli italiani, tra quelli che ho ascoltato il premio va a Sangue
e Cenere dei Gang per la
coerenza del linguaggio e la scarna bellezza di un folk che riesce a stare al
passo coi tempi senza vendersi e truccarsi. Bella anche la copertina, una
rivisitazione italica dei Basement Tapes. Puro divertimento con Down The Line della Gnola
Blues Band ovvero come rimanere dei bluesmen senza per forza di cosa suonare le
dodici battute. Premio alla carriera a Graziano Romani per il suo Vivo/Live
, due CD che riassumono le diverse facce di una avventura musicale
divisa tra Rocking Chairs, dischi solisti al calore del soul, canzone italiana
e cover. Note positive anche per Paolo Bonfanti e il suo Back Home Alive altro
bluesman con la vista lunga che non si accontenta degli standard ma occhieggia
ad un roots-rock che sa di Blasters e Los Lobos, e per i pesaresi Cheap Wine il cui secondo album dal vivo, Mary
and The fairy, basato su titoli meno noti del loro ricco repertorio
evidenzia un sound che è ormai un
marchio, qui bilanciato tra atmosfere notturne ed underground e le coreografie
barocche e classicheggianti create dalle tastiere di Alessio Raffaelli.
Tra i debuttanti, o quasi, mi va di segnalare Rough
Man di Frank Get un rocker di Trieste con passate esperienze nel blues.
Il suo è un disco forse troppo lungo, che non ha un focus preciso ma è un calderone vivo e pulsante zeppo di tutti i suoi amori e influenze
musicali, tra rock, blues, ballate, folk, roots, southern rock e una calda versione di Mixed Up Shook Up Girl di Mink DeVille,
cosa che gli fa onore. Adesso è in giro con la sua band a presentarlo, combo di cui fa parte saltuariamente il bravo
chitarrista Anthony Basso dei disciolti W.I.N.D. Se li trovate vicino casa a
suonare non fateveli scappare, ne vale la pena.
Buon Anno.
MAURO
ZAMBELLINI 3 gennaio 2016
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