"Non ho mai voluto essere altro che la
rappresentazione del negativo". Queste parole esprimono quello che è stato
Lou Reed negli anni settanta, il narratore del mondo delle ombre, dei devianti,
il cantore dell'autodistruzione e della decadenza , il rock n'roll animal.
" Lou Reed è l'uomo che ha dato legittimità e liricità all'eroina, alle
anfetamine, all'omosessualità, al sadomasochismo, all'omicidio e alla
misoginia, per poi smentire tutte le conclusioni e trasformare il tutto in un
monumentale scherzo di cattivo gusto". Così scriveva il defunto
giornalista americano Lester Bangs, per poi aggiungere " Lou Reed è un
ruffiano che ha vissuto di quello stupido nichilismo della generazione degli
anni 70 che non ha avuto il cuore e l'energia di suicidarsi".
Lou Reed non è
stato solo un cattivo maestro perché se gli anni sessanta lo hanno visto
vestire i panni del temerario capace, coi Velvet Underground, di sconvolgere il
normale ascolto musicale e l'estetica del rock, e gli anni settanta lo hanno
visto scendere all'inferno e ritornare illeso,con un pugno di album che da soli
basterebbero a spiegare le contraddizioni di quella decade,gli anni successivi hanno conosciuto un artista capace
di riconsiderare sé stesso e le proprie opinioni senza rinnegare il suo
passato, continuando a sperimentare nuove vie con cui leggere e decifrare la
complessa realtà del vivere.
Ci sono cose che hanno profondamente
inciso nella vita di Lou Reed, nato come Lewis
Allan Reed il 2 marzo 1942 a Brooklyn da una famiglia ebrea, il padre
contabile fiscale e la madre casalinga. La prima è una educazione yiddish che
gli regala un umorismo sarcastico ed un cinismo terribile, la seconda è il
trattamento di elettroshock cui fu sottoposto all'età di 17 anni per volontà
dei genitori nel tentativo di "curare" i suoi atteggiamenti
disturbati, in primis una latente omosessualità, scoperta a 13 anni, e poi la
sua volontà di diventare un musicista rock. Un incubo per una famiglia ebrea
americana di classe media degli anni 50 ed un patimento per il giovane Lou che
a fatica e non senza conseguenze uscì da quella terribile esperienza, su cui,
anni più tardi, riuscirà perfino a scriverci una canzone, Lady's Godiva Operation.
La terza cosa che
incise profondamente sulla sua educazione fu la frequentazione della Syracuse
University dove a 22 anni conseguì il diploma di Arts and Sciences. Qui, in
sequenza, incontrò il jazz di Ornette
Coleman, gli scritti di William
Burroughs e Hubert Selby Jr., in particolare Ultima Fermata a Brooklyn, l'anfetamina, il futuro chitarrista dei
VU Sterling Morrison, amori maschili e femminili e soprattutto Delmore Schwartz.
Delmore Schwartz è
uno scrittore/poeta che ebbe una notevole influenza sugli scrittori newyorchesi
degli anni 30 e 40, morto in solitudine a 53 anni all'Hotel Marlon di New York
dopo che per ben due giorni nessuno,
nemmeno la direzione dell'albergo, si accorse del suo decesso. Era stato
promosso a ruolo di insegnante di scrittura creativa all'Università di Syracuse
nientemeno che da Saul Bellow, premio Nobel per la letteratura. Schwartz era
uno scrittore di razza, aveva scritto Nei
Sogni Cominciano Le Responsabilità, un testo divenuto una sorta di culto
tra i lettori e gli altri scrittori, un racconto capace di impressionare il
giovane e curioso Lou Reed. Ma per istinti autodistruttivi, complici l'alcol e
le pillole, Schwartz oscillava dentro e fuori la depressione. Reed ne fu
affascinato, probabilmente perché si identificava in un personaggio ancora più
disturbato di lui. Bevevano insieme, usavano insieme l' anfetamina ma soprattutto Lou fu stregato dal suo modo
semplice ed intenso di scrivere. "Parole semplici che messe su tre accordi
potevano suscitare una emozione". Questa fu la lezione che Reed imparò da
Delmore Schwartz e fu questo che fece con la musica. Cominciò con lo scrivere
canzoni a 25 dollari la settimana per l'agenzia Pickwick e poi conobbe John Cale, studente gallese coi capelli
lunghi e lo sguardo torvo che suonava in un ensemble di musica d'avanguardia
diretto dal compositore La Monte Young. Fu una scintilla, una rivelazione ed
una rivoluzione. Dopo un tentativo maldestro di incidere una canzone col nome di
Primitives, gruppo che nemmeno esisteva, i due diedero vita ai Velvet Underground rubando il nome ad
un libro tascabile di poco prezzo sul sesso che avevano trovato dalle parti di
Ludlow Street, nella Lower East Side, dove Reed e Cale in quei giorni abitavano.
Un nome appropriato per quella che sarebbe divenuta la band alternativa
underground più importante della storia del rock. I VU si formarono nel 1965
nella parte meridionale di Manhattan, la malfamata Loisiada e alla musica
fiori, amore e buone vibrazioni della California e del Sergente Pepper
contrapposero un rock oscuro, dissonante, sgraziato, che parlava di perversioni
sessuali, suicidio, droga pesante, femmine fatali e sadomaso, rifiuti urbani e
arte mistica, con un suono che rasentava quello di un rasoio elettrico
impazzito, frutto della combinazione tra lo stridio della viola elettrica di
Cale, il tambureggiare delle percussioni di Maureen "Moe" Tucker ed
il feedback delle chitarre, col tempo che accelerava e rallentava a seconda delle
esigenze del testo. I quattro VU, con Reed e Cale, c'erano il chitarrista Sterling Morrison oltre alla batterista Maureen
Tucker, si presentavano vestiti di nero e con occhiali scuri, iettatori di
un mondo malsano che trovava sfogo in canzoni dai titoli inquietanti: Venere in Pelliccia, Eroina, Sarò il tuo
Specchio, Sto Aspettando il mio Uomo, Canzone di Morte dell'Angelo Nero.
Sorella Raggio, Femmina Fatale, Luce Bianca/Calore Bianco.
Il tempo di tre
album, la Banana con la voce
candida e malata di Nico, anno 1967,il dissonante ed estremista White
Light/White Heat del 68 ed il contemplativo The Velvet Underground dell'anno seguente, ed il rock non fu
più lo stesso. Meno male, saremmo ancora in American Graffiti senza la meteora
dei Velvet Underground. Quando uscì nel 1970 Loaded, bello da morire
con quelle prime arcane e semi acustiche versioni di Sweet Jane e Rock n' Roll, il
gruppo non c'era già più, almeno nella sua formazione originaria. Nico era
stata estromessa già in White Light/White Heat, Cale se ne
era andato al momento di registrare il terzo omonimo album e Lou Reed era
tornato nella casa paterna di Freeport, a Long Island, dopo contrasti col
manager Steve Sesnick. L'ultima sua apparizione coi Velvet fu il 23 agosto 1970
al Max's Kansas City, uno dei locali prediletti da Warhol e dalla sua corte,
concerto registrato per caso da un'attricetta e pubblicato su disco solo due
anni dopo.
Non passò molto
tempo prima del suo ritorno in scena,grazie all'aiuto di David Bowie e alle compiacenze del glam rock. La trasformazione fu
radicale, dopo la partenza falsa di un album solista prodotto come un campo di
patate, avvenne nel 1972 quando a New York sbarcò Candy, venuta da fuori
Manhattan a spassarsela con tutti nella stanza sul retro,senza mai perdere la
testa nemmeno quando lo prendeva tutto in bocca, Holly era appena arrivato da
Miami, attraversando gli States in autostop, si era rasato le sopraciglia,
depilato le gambe e così era diventato una lei, Little Joe faceva una botta qui
ed una botta là e tutti dovevano pagare e Sugar Plum Fairy era venuto a battere
in cerca di bocconcini neri ed un posto per mangiare. Sono i pittoreschi
protagonisti di quella balade immortale ed immorale nota come Walk On The Wild Side, una canzone su
cui tutti in seguito, a cominciare da Willy DeVille, ci avrebbero costruito
quel modo di cantar-parlando al ritmo vizioso di uno sculettare nella parte
selvaggi della città. Una canzone tanto semplice quanto inarrivabile, col sax che chiude il
passeggio con un assolo che nel rock è l'equivalente della entrata di John
Coltrane in Round Midnight di Miles
Davis.Transformer, appunto si intitolava quell'opera sui vizi del
sottobosco urbano del West Village contenente Walk On The Wild Side, fu prodotto da David Bowie e dal suo
chitarrista Mick Ronson,un lavoro in
grado di annoverare almeno altri quattro flowers
in the dirt ovvero Vicious, bozzetto
ironico di un masochista omosessuale tra fiori e depravazione, Perfect Day, nostalgico ricordo di una
persona amata, usata nella drogata colonna sonora del film Trainspotting e poi titolo di uno splendido unplugged del 1998 di
Lou Reed, Live In London, la gelosia ossessiva di Satellite of Love ed il pastiche jazz in stile dixieland di Goodnight Ladies, bizzarra canzone di un
uomo ingannato da una donna. Nella carriera di Lou Reed Transformer significò una nuova partenza dopo l'avventura art-rock
coi VU,gruppo che all'epoca non si filò nessuno sebbene diventato nel tempo il
maggior responsabile di rock n'roll bands nate per emulazione .
Capelli
cortissimi, la t-shirt nera attillata, i jeans d'ordinanza ed il mascara sugli
occhi,Lou Reed con Transformer diventa un
idolo del glam rock sponda americana, ed il movimento di liberazione
omosessuale si identifica in lui e nelle sue canzoni trasgressive. Lui sfrutta
l'opportunità, evita accuratamente di mettersi zeppe e lustrini come l'amico
Ziggy Stardust ma gioca sull'ambiguità esistente tra persona ed immagine, tra
uomo e attore e porta alla ribalta senza vergogne la sua inquietudine, la sua
diversità, i suoi vizi. Non passa inosservato, in Italia a metà degli anni
settanta viene contestato dall'ala più radicale e oltranzista del movimento, lo
accusano di essere un "cattivo esempio per le masse", uno sporco
decadente dalle sfumature nazistoidi e quando, capelli ossigenati
biondi,movenze androgine, pelle nera e borchie ovunque,simula sul palco una
pera con tanto di siringa, il concerto viene interrotto. Ma c'è chi lo ama e lo
idolatra, sono molti a subirne il fascino maledetto da junkie aristocratico,
nutrono nei suoi confronti un morboso compiacimento e finiscono con l'imitare
"sul campo" il cattivo maestro, rimanendo imprigionati nella spirale senza ritorno dell'eroina.
Transformer diventa un successo, a ben vedere erano
tempi più spregiudicati dei nostri, nonostante tutto, se un disco che fa
emergere la bellezza e la sensibilità interiore anche in forme eccentriche e in
situazioni scabrose che contrastano con la morale comune e dominante, in cui si
fa esplicito riferimento al sesso, all'omosessualità e al travestitismo, con
personaggi scandalosi ed estremi, vende migliaia di copie scalando le
classifiche inglesi e americane. Siamo nel 1972 e la rivoluzione sessuale è
solo faccenda di pionieri.
Walk On The Wild Side ha di per sé una
genesi suggestiva. Ispirata all'omonimo romanzo del 1956 scritto da Nelson Algren che Andy Warhol intendeva
mettere in musical, viene "trasformata" da Reed in canzone.
Dall'originale ambientazione a New Orleans la ricollocò a New York sostituendo
i personaggi di Algren con una galleria di figure tratte dai film e dalla
Factory di Warhol, come Holly e Candy, due travestiti che recitavano nei suoi
film, Sugar Plum Fairy soprannome di uno spacciatore che occasionalmente
frequentava la Factory e Little Joe, che altro non era che l'attore Joe
Dallessandro, macho sex symbol di film come Trash
ed Heat. Con Walk On The Wild Side, Lou Reed descrive personaggi di un mondo che
la gente trovava affascinante e misterioso. "Fatti una passeggiata sul
lato selvaggio" era un modo di dire un po' provocatorio a New York ai
benpensanti di avventurarsi in posti sconosciuti e viziosi. Alla gente piaceva
chi si era inoltrato nella parte selvaggia della città (o della vita) e ne era
tornato sano e salvo. Lou lo aveva fatto.
70's FLOWERS
Per tutti gli anni settanta Lou Reed
rimase un modello di trasgressione ma anche di violenza sonora e di innovazioni
soniche, e quando la quiete subentrava alla tempesta c'erano vinili come Coney Island Baby (1976) che dietro
il testo sadico e brutale di Kicks (un
rapporto sado-maso protratto fino alle estreme conseguenze) celava delle calde ballate dai toni dolci con cui raccontare lo
spirito gay che albergava a New York o almeno nella zona del West Village.Canzoni
sull'amore e l'amicizia al suono di un rock melodico che traeva spunto dal soul
newyorchese anni '50, dal doo-woop dei tanto amati Dion & The Belmonts,dal lavoro di Jack Nitzsche negli
arrangiamenti e con la lenta e affascinante Coney
Island Baby dedicata espressamente a Rachel,
il vistoso travestito con cui Lou visse per gran parte degli anni settanta. Lo
stesso trans, disegnato a tinte forti,labbra vogliose e sigaretta pendula,è sul
retro copertina di Sally Can't Dance (1974), party record poco amato dai fans
per le sue aperture funky e dance sfacciatamente glam, troppo molle per piacere
ai fans ma primo e solo Top Ten della sua carriera, giunto sugli scaffali a
ruota dell'ostico e tetro Berlin (1973). Lì si racconta la
storia di una coppia di tossicodipendenti americani trapiantati a Berlino, Jim
e Caroline ed il loro travaglio sentimentale tra droga, dipendenza, perversioni
sado-maso, crudeltà domestiche e violenze psicologiche, "E' una storia- ha
affermato Lou Reed- di gente che esisteva negli anni '70, non solo a Berlino ma
ovunque. Molti mi sconsigliarono di fare un disco su una storia così violenta
ed angosciante ma finalmente traducevo quello che mi aveva insegnato Delmore
Schwartz, fare delle pop songs con storie vere, tragiche, drammatiche".
Orchestrato e arrangiato,(nel 2006 ne farà una trasposizione live in un teatro
di Brooklyn con cori ed orchestra, da
cui disco e film, Berlin: Live at St.Ann's Warehouse),Berlin risente della cultura teatrale
mittleuropea, in particolare del cabaret tedesco di Kurt Weill e Bertolt
Brecht, l'atmosfera è plumbea, cupa, funerea, in The Kids il pianto straziante dei figli portati via alla madre
Caroline, junkie e prostituta, e affidati al padre, sono tra le cose più
raccapriccianti ascoltate in un disco di rock. Un album angosciante come pochi,
ma lucido nella rappresentazione di un ambiente che negli anni settanta conobbe
morti, disperazione e follie, il prologo di una generazione distrutta dalla
droga e dall'Aids.
Due anni dopo Berlin,
Lou Reed rincarò ancor di più la
dose in quanto a provocazioni sonore, obbligando la Rca a pubblicare Metal
Machine Music, una stridente cacofonia di distorsioni e suoni
elettronici che dura 64 minuti ma non finisce mai perché l'ultimo solco, uno
scricchiolio, si ripete all'infinito, come se la puntina "saltasse" sul vinile. La rivista Rolling Stone lo votò come il peggior
disco dell'anno e furono migliaia i dischi riconsegnati ai negozi, tanto che la
casa discografica fu costretta ad applicare in copertina uno sticker con
scritto: questo non è un disco cantato.
Beffardo e
sarcastico, Lou Reed non ne fu affatto turbato, quasi volesse con quel lavoro
cancellare l'immagine pop che gli aveva cucito addosso Transformer. Scrisse:
"alla maggior parte di voi questo disco non piacerà, non vi biasimo, non è
per voi. Una mia settimana vale un vostro anno". Amen. Lo si poteva benissimo perdonare, se non
altro perché nell'impossibilità di portare on tour un'opera scabrosa come Berlin,
il manager e produttore Dennis Katz aveva allestito il Rock n' Roll Animal Tour con gli stessi musicisti. Ne uscì un
album fenomenale, la quintessenza del
sound degli anni settanta in tutta la loro violenza e febbricitante
eccitazione. Rock n'Roll Animal (1974), ancora oggi svetta come il live più devastante nell'ambito di un rock
metropolitano potente e cruento, nervoso e tossico, che si divide tra
scudisciate metalliche e ballate da
scimmia sulla schiena. Sentire ancora oggi quella band che suona col coltello
tra i denti, quella vertiginosa escalation di Rock n'Roll col duello al calor bianco delle chitarre di Dick Wagner e Steve Hunter, mai più così risolutori, ed il basso di John Prakash che pompa ossesso, sono
brividi alla schiena come fosse la prima volta, il trionfo di una jungleland
urbana priva di qualsiasi orpello romantico,
pura energia rock che esce dalle
viscere della città e diventa salvazione di un esercito di mutanti in cuoio
nero che ha come ultima spiaggia una sferragliante violenza elettrica dai risvolti nichilisti. Altro che Sex
Pistols,non ci sarebbe stato bisogno del punk se il rock della negazione si
fosse espresso sempre a quei livelli. Un disco pericoloso,contagioso, da
maneggiare con cura, un titolo esemplare,una registrazione ottima per l'epoca ma
una operazione discografica discutibile: perché dividere quell'incredibile ed
irripetibile show all'Howard Stein's
Academy di New York in due dischi singoli? Rock n' Roll Animal appunto, con
l'indimenticabile Intro che sfocia in
Sweet Jane e poi chiude la prima
facciata con la terrificante Heroin, e
la seconda con White Light/White Heat,
Lady Day e l'apoteosi di Rock
n'Roll, e l' altro capitolo,tratto
dallo stesso concerto e pubblicato come Lou Reed Live nel 1975 con Walk On The Wild Side, I'm Waiting For My
Man, Vicious, Satellite of Love, Oh Jim, Sad Song. D'accordo le lunghezze
ridotte consentite dal vinile, ma non si poteva forse farne un doppio album, pratica così diffusa
in quei giorni di grandi album dal vivo. Nemmeno le varie edizioni in CD hanno rimediato
a ciò, rimettendo l'intero show in un unico supporto.
Se la prima metà degli anni settanta vide
Lou Reed assurgere a Principe Nero di New York, il resto della decade non fu
certo una passeggiata nel parco. Così la racconta Lou Reed " dopo Metal Machine Music ero stato citato a giudizio da un manager e
dal fratello produttore, non avevo soldi e non avevo chitarre, i roadies se le
erano portate via non avendo ricevuto i pagamenti, ero indebitato con tutti,
anche col sindacato dei musicisti. La Rca mi aveva sistemato al Gramercy Park
Hotel, lì c'era la Rolling Thunder Revue pronta a partire in tour ma io non
stavo andando da nessuna parte se non dai sindacati, dagli avvocati e dai
contabili per cercare di tirarmi fuori dal casino in cui mi ero cacciato. Ero
tra l'altro inadempiente ad una ingiunzione del giudice perché non pagavo le
tasse da cinque anni. Poi Ken Glancy, che era il presidente della casa
discografica e anche mio amico mi fece promettere di non fare un altro Metal Machine Music , di scegliermi uno studio e di fare un disco
di rock. E così ho fatto". Fu l'ennesima ripartenza per Lou Reed, la
terza dopo i VU e Walk On The Wild Side,
proprio a metà della decade Coney Island Baby, un disco
praticamente perfetto, sparse armonie, accordi semplici, ritmi maliziosi,
chitarre nitide e precise ma anche magistrali colpi di rock, oltre a quella Kicks
che evocava il secondo album dei VU e contrastava con l'apparente
quiete dell'album. Che i toni si fossero smussati lo si capì pochi mesi dopo
quando venne pubblicato Rock n' Roll Heart (1976),
l'equivalente di una seduta dallo strizzacervelli in una clinica di
riabilitazione,disco troppo sedato per chi solo un anno prima cantava di
sadomasochismo e sottomissione con la leggerezza di chi fa sembrare tutto così pulito anche se
c'è così tanto sporco. Fu Street Hassle nel 1978 a rimettere le cose a posto,
un disco per certi versi innovativo e a tratti perfino sperimentale, una sorta
di ritorno alle sonorità dei VU con l'introduzione del violoncello e i morsi di
un dissonante ed imbastardito rhythm and blues metropolitano. Lou gioca sui
doppi sensi, in I Wanna Be Black attacca
in modo irriverente il politically
correct dell'intellighentzia bianca che sbava attorno alla cultura nera, in
molte tracce del disco compare il sassofono,
Real Good Time Together è ripresa
dal repertorio dei VU in risposta alla versione che ne stando il Patti
Smith Group nei suoi concerti, c'è anche un cameo di Springsteen ma
dimenticatevi il romanticismo da backstreets, qui Reed è l'osservatore cinico
delle strade di New York che rinfaccia al ragazzo le responsabilità nei
confronti della sua ragazza morta sull'asfalto per un overdose. Nera la
copertina, nero il sound, Street Hassle è una New York convulsa e
pericolosa,il cui suono sale dal Cbgb. Il suo rumore musicale e qualche schizzo
sonoro avanguardistico fanno pensare alla trilogia berlinese di David Bowie e
forse non è un caso che il seguente The Bells
sia registrato in Germania con una nuova tecnica
"biacustica". Il nuovo disco non ha lo stesso focus del precedente ma
la band è la stessa con l'aggiunta di Michael
Fonfara alle tastiere. Giunto in un
periodo di diete biologiche e passeggiate nei boschi del New Jersey, dopo che
Reed aveva abbandonato droghe,l'appartamento di Christopher Street a New York
ed il compagno/a Rachel, The
Bells tenta con risultati non
sempre all'altezza di erigere una ambiziosa opera gotica su colpa, salvezza e pentimento. L'autore
occhieggia al jazz appellandosi alla tromba di Don Cherry, non è una furba trovata ad effetto perché il jazz è
sempre stato nel cuore di Reed, da Strange
Fruit di Billie Holiday ad Ornette
Coleman ed Albert Ayler. Per non parlare di bluesmen come Muddy Waters e
Robert Johnson, poco evidenti nella sua opera ma comunque ammirati, citati a
più riprese, come Dylan e i romanzieri Melville e Raymond Chandler.
Testimonianza
delle sue uscite pubbliche di quegli anni a cavallo del punk, è il doppio live Take
No Prisoner, lontano anni luce dalla
crudezza e dalla veemenza di Rock n'Roll Animal, registrato al
Bottom Line di New York nel '78 con una band che mastica funky ed un rock
urbano sporco e grasso, niente metallo urlante, piuttosto sax, piano elettrico,
synth e basso nigger come fosse un ensemble di jazz-rock. I Wanna Be Black è la
fotografia di quel sound anche se persistono i classici del passato e la
copertina a fumetti fa pensare a Tanino Liberatore e al suo Rank Xerox il Coatto.
DIETRO LA MASCHERA
Con quel live si
chiude un'epoca, gli anni ottanta al confronto delle due decadi precedenti sono
per Reed un po' miseri, considerata la smorta sequenza di album come Growin'
Up In Public (1980), Legendary Hearts (1983), Mistrial
(1986), pallide copie di un rock sovversivo adesso piuttosto
annacquato. Nel 1980 Lou Reed sposa la designer inglese Sylvia Morales,da cui
divorzierà dieci anni più tardi e a cui dedicherà alcune canzoni, pur
mantenendo il matrimonio lontano dalle luci della ribalta. In questi anni Reed
diventa testimonial della nuova Honda Nighthawk, in Legendary Hearts c'è difatti un casco da motociclista
in copertina ma l'evento che più conta a livello musicale è la conoscenza del
chitarrista newyorchese Robert Quine, transfugo
dai Voidoids di Richard Hell. Lo conosce grazie alla moglie Sylvia e con lui
realizza l'eccellente The Blue Mask (1982), art-work di
copertina vagamente Transformer opera della
stessa moglie. In The Blue Mask c'è il ritorno
in campo di un classico ed essenziale quartetto rock n'roll (Fernando Saunders al basso e Doane
Perry alla batteria) con Robert Quine protagonista di un sound urbano asciutto,
tagliente,squisitamente newyorchese. Alcune canzoni lasciano il segno come in
passato,The Gun, The Blue Mask, My House e Waves of Fear, nella quale confida i
suoi attacchi di panico dopo la rinuncia a droghe ed alcol e The Day John Kennedy Died e The Heroine, due episodi in cui Lou
Reed, a partire da uno degli eventi più traumatici della storia americana,fa
uscire una consapevolezza politica mai evidenziata in precedenza . Al contrario New Sensations del 1984 è un furbo lasciapassare per
infilarsi in MTV dalla porta principale.
Il video di I Love You Suzanne entra
nella heavy rotation di MTV e l'autore confessa di volere ora "un certo
suono sentito alla radio", per accaparrarsi le nuove generazioni. I fans
lo ignorano, in copertina Reed gioca con
un joystick davanti alla Tv, qualcuno afferma che si è bevuto il cervello. Ma
sono tempi così. La produzione è in linea con l'intento, ci sono chitarre e
sintetizzatori, fisarmoniche e violini elettrici, basso e contrabbasso, di
tutto e di più per rendere il suono più "complesso", anche i fiati
dei fratelli Brecker. Ad essere sinceri, siamo a metà anni ottanta e avete
presente le tastiere della E-Stret Band ?,tanto per fare un esempio eclatante,
il disco non è così paraculo, in quel periodo asfittico di musica di plastica e
arrangiamenti supervitaminizzati, anche New
Sensations sembra rock n'roll. Forse è solo un
miraggio ma non nego di averci ballato sopra a qualche festa. Per rivedere la
luce bisogna aspettare il 1989 ed è luce
abbagliante. New York arriva come un fulmine a ciel sereno, quando meno te
lo aspetti. E'un capolavoro già dal primo ascolto, scarno, agro, povero di
strumenti ma ricco di emozioni. Con il chitarrista Mike Rathke (nel frattempo si era conclusa l'amicizia con Quine),
il basso e contrabbasso di Rob Wasserman
e la batteria di Fred Maher
(produttore del disco) Lou dipinge l'amaro affresco di una città in decadenza
morale, tra declino e contraddizioni, ricchezze spropositate e corruzione
politica da una parte e homeless e malati di Aids dall'altra. New York appare
una città cupa di senza casa e senza speranza, di pregiudizi razziali ed
ingiustizie sociali, un quadro cinico e veritiero della sua città,un album in
bianco e nero che catapulta di diritto Lou Reed nella letteratura americana del
secolo scorso, a fianco di Walt Whitman, Edgar Lee Masters, Raymond
Chandler. "Un disco da leggere, un
libro da ascoltare" è scritto sulla copertina dell'album, opera cruda e
dai colori lividi, "album di rabbia e compassione, di ricerca spirituale e
schietto realismo"( Daniele Federici,Le Canzoni di Lou Reed, Editori
Riuniti). Viene concepito subito dopo la scomparsa di Andy Warhol nel 1987 ed è
il primo atto di un'opera al nero o trilogia del dolore in cui Reed ricompone
una visione morale della vita,
differente dagli eccessi che avevano contraddistinto il suo passato.
Dopo New York è Andy Warhol al centro della sua poetica. Ignorato per non
essere stato invitato al matrimonio di Lou con Sylvia, Warhol scrive parole
amare nei suoi confronti, rese pubbliche dai
Diaries ma la sua improvvisa morte, il 22 febbraio
del 1987, induce Lou a ritornare su una vecchia amicizia e scrivere un degno
epitaffio al suo mentore. Con l'ex VU John
Cale dà il via ad un progetto di musica, parole e filmati a lui dedicati
che viene presentato all'Opera House della Musical Academy di Brooklyn il 30
novembre dell'89. Nell'ultima serata sale sul palco anche Maureen Tucker in una sorta di estemporanea reunion dei Velvet
Underground. Una serata speciale perché da lì nasce l'idea del disco in memoria
di Warhol e lì germoglia la vera reunion della storica band. Cosa che si concretizzerà tre anni dopo quando in
occasione dell'inaugurazione della Andy Warhol Exposition promossa dalla
Fondazione Cartier a Joiy- en-Josas, periferia di Parigi, ai tre si unirà il
chitarrista Sterling Morrison per
eseguire dal vivo Heroin. Riallacciati
i rapporti e messi da parte gli antichi dissapori, i quattro VU si cimenteranno
in un rischioso tour europeo testimoniato da un disco ed un video (Live
MCMXCIII), progetto che mostrerà presto prevedibili limiti di
coesistenza, sfumando (complice l'improvvisa morte per infarto di Morrison)
ancora prima dell'appendice americana del tour. Dalle serate all'Opera House di
Brooklyn maturerà Songs For Drella (1990)lavoro a quattro mani di Reed con Cale
in cui la parabola artistica ed umana di Warhol verrà cantata con musica
trepidante ed intima, al confine tra minimalismo, classicità e avanguardia, una
sorta di musica da camera semielettrica segnata dalla viola di Cale e dalle
chitarre di Lou. Lavoro unico e originale, accolto positivamente da critica e
pubblico, nonostante l'assenza di brani radiofonici. Con Magic and Loss (1992),ultimo
capitolo della trilogia, l'esplorazione di Reed nel dolore
si spinge oltre, almeno per un'opera rock, un'audace e commossa incursione nelle
sofferenze e nell'agonia di due amici malati di cancro, il compositore e
musicista Doc Pomus, ed una non meglio identificata Rita che molti dicono
essere Rachel, il suo compagno/a degli anni settanta. Il viaggio nella
sofferenza si compie in quattordici tracce che parlano di amicizie e sentimenti
attraverso il dolore e la morte,riuscendo comunque a trovare magia anche nel
dramma. Il sound è anche qui scarno e asciutto, in pratica il quartetto di New
York con Michael Blair al posto
di Fred Maher e di una occasionale Moe Tucker. E' un Lou Reed più adulto, umano
e responsabile quello che esce da questa trilogia, un musicista che riesce a
coniugare la semplicità del rock con un punto di vista da vero intellettuale ed
una sensibilità da raffinato poeta, un artista capace di una precisione
incredibile nel visualizzare la parola. Anche la storia recente, sebbene meno
ricca di colpi di scena e di popolarità, testimonia di un' artista mai pago
nella ricerca di nuovi territori espressivi, coinvolto sempre di più nella
poesia e nel teatro (POEtry con Robert Wilson), nella letteratura
(l'adattamento rock di The Raven di Egar Allan Poe), nelle
arti figurative e nella fotografia (si veda a proposito Rimes/Rhymes e Lou
Reed's New York). La musica rimase comunque al centro della sua multiforme
curiosità e negli anni novanta due album ribadirono la sua vivacità espressiva
e la sua attitudine rock. Il violaceo Set The Twilight Reeling arrivò dopo la fine del suo
matrimonio con Sylvia ed il fallimento della riunione dei VU e corrispose, più
o meno, alla nuova relazione con Laurie Anderson (conosciuta nel 1992 a Monaco
durante il Festival in ricordo delle vittime della Notte dei Cristalli del
1938,che segnò l'inizio dell'Olocausto) a cui il disco è dedicato. Un lavoro
rilassato privo della tensione emotiva che avevano avuto New York e Magic
and Loss ma piacevole e con New York al centro dell'attenzione, questa
volta vista nei termini di qualcosa che continua ad esercitare su di lui un
richiamo ed un fascino irresistibile. Il
disco è chiacchierato soprattutto per la presenza di Sex With Your Parents (Motherfucker) Part II, titolo che non ha
bisogno di traduzione, dove con parole al vetriolo e con rabbia Lou riversa il proprio livore contro una serie
di decreti varati dal Senato americano per la tutela degli adolescenti e la
salute dei cittadini, in pratica l'imposizione dell'assurdo Parental
Advisory sui dischi contenenti insulti e
parolacce, manifestazione dell'ondata di ipocrita puritanesimo che attraversava e attraversa gli
Stati Uniti. Un altro brano invece, Finish
Line, offre lo spunto a Reed di ritornare sul rapporto di amore/odio che
nutriva verso il chitarrista dei VU Sterling Morrison, ora deceduto, raccontato
attraverso la metafora di una corsa che ha per traguardo la morte. Ma è Ecstasy ad ottenere consensi di critica e
pubblico,una estremizzazione del sound spigoloso e distorto di Set
The Twilight Reeling tra un
minuetto noise ed un lirismo urbano ancora coinvolgente ed emozionante pur
rapportato ai tempi che cambiano . Spiega lo stesso autore, "l'estasi è
intesa nella sua accezione greca ovvero essere fuori di sé, così da raccontarla
attraverso persone che l'hanno sperimentata o che la cercano, liberandosi dagli
schemi".Con una veste sonora attualissima, Ecstasy coglie la transizione tra vecchio (il
rock classico) e nuovo (lo sperimentalismo e le frizioni grunge) attraverso un
caleidoscopio di situazioni sonore, rumori,chitarre elettriche,
distorsori,fraseggi acustici e tensioni
dominato dal lucido e funereo talking di Lou Reed, la cui voce è sempre più
quella di un confessore al giaciglio di un morente. La stessa voce che si
ritrova ancor più mortifera nel plumbeo e drammatico Lulu , doppio CD realizzato con la co-partecipazione
dei Metallica,ispirato all'omonima opera teatrale di Alban Berg. Un disco
assolutamente scomodo e difficile, dal suono tetro e pesante, ma grandioso e
solenne, che sembra rivangare a tratti la urticante sperimentazione
dell'eccesso intentata dai VU in Sister
Ray (racconto di violenza ed autolesionismo degno di un Hubert Selby. Jr) e
il melodramma autodistruttivo di Berlin. Lulu è stato rinnegato dai
fan dei Metallica e ha avuto recensioni per lo più negative, conferma di un
artista sui generis non omologabile, trasmette un senso di morte che non è cosa
che si vuole sentire dopo una giornata di lavoro ma regala ai posteri l'ultima
provocazione di un artista geniale che non ha mai voluto essere consolatorio e
accomodante ma solo raccontare il lato oscuro dell'animo umano.
Lou Reed ha sicuramente
ampliato le nostre vedute e la nostra percezione sulle possibilità del rock,
trasformandolo in qualcosa di più reale, letterario, adulto. Non è stato un
padre ma un maestro in grado di dirci senza peli sulla lingua che il rock
n'roll non era solo gioia e spettacolo collettivo. Con le sue canzoni e i suoi
dischi ha attraversato i tempi, li ha anticipati, prefigurati, letti e derisi
con coerenza ed intatto spirito critico, spesso guardandoli a distanza con
l'occhio del cronista che partecipa al dramma senza moralismi, mai barando su
sé stesso. Fino alla morte.
MAURO ZAMBELLINI