Col
senno di poi viene da pensare che Chris Robinson non ne potesse proprio più dei
Black Crowes visto che negli ultimi concerti della band georgiana a cui ho
assistito sembrava impaziente di chiudere lo show in modo un po' troppo
sbrigativo, un'ora a Vigevano nel luglio del 2011 con Luther Dickinson
chitarrista a fianco del fratello Rich Robinson, due ore all'Alcatraz di Milano
due anni dopo, magnifico concerto con Jackie Green al posto di Luther Dickinson
ma con un Chris Robinson ombroso e avaro di feeling. Non ne poteva più, causa
le incomprensioni col fratello e per un progetto in cui ormai, dopo tanto
tempo, faticava ad identificarsi, oltre al desiderio di dare seguito ad una
nuova avventura musicale appena abbozzata, quella Chris Robinson Brotherhood che lo vede decisamente ridimensionato
come frontman e paritetico agli altri nei compiti, come fosse uno qualsiasi
della band, il chitarrista ritmico e il cantante di un quintetto che dalla
stagione psichedelica non ha tratto solo il sound e le visioni ma anche
l'egualitarismo.
Quello che si è visto e sentito la sera del 7 marzo al
Fabrique di Milano davanti ad un pubblico non numerosissimo ma squisitamente
sintonizzato sulle frequenze di un retro-rock capace ancora di mandare in
orbita come una potente droga psichica, è lo show di un innamorato perso degli
anni sessanta e settanta, uno che dal vestire al suonare e al sognare è rimasto
ancorato ad un' epoca in cui la musica era una estensione del proprio essere,
del proprio vivere e delle proprie emozioni, senza filtri, compromessi,
mediazioni, camuffamenti, nemmeno l'abito di scena visto che sia Chris Robinson
che il chitarrista Neal Casal ed il tastierista Adam McDougall sul palco
portavano le stesse camicie, le stesse maglie e pantaloni di qualche ora prima
quando li avevamo raggiunti nel backstage per l'intervista. Sul palco, come
nella vita e sulla strada, e di strada la CRB ne ha fatta tanta, considerato il
fatto che esiste da prima dello
scioglimento dei Black Crowes e i tre dischi pubblicati a proprio nome sono
proprio poca cosa rispetto alle centinaia di concerti effettuati in giro per
gli States e per il mondo e alle migliaia di chilometri macinati on the road. Growin' up in public, così la CRB ha
sviluppato un suono che ingloba tutto quello che esiste negli anfratti del rock
n'roll, dal blues al folk, dal funky al prog, dal jazz al R&B, riproponendolo
con la sballata e sghemba metrica di una band psichedelica, cambiando ritmi in
continuazione, lasciando liberi i propri musicisti di andare in direzioni
diverse e poi re-incontrarsi in un tema conduttore vagamente abbozzato,
concedendosi la più totale libertà negli assoli, jammando a più non posso ma
non perdendo mai di vista la melodia che può essere nervosa e a tratti
zoppicare, per poi riprendersi e ascendere ad un orizzonte che nei finali del
brano diventa un magma di suoni e colori che disorientano nel più puro delirio
lisergico. Rock psichedelico con l'attitudine del free-jazz, c'è stato un
momento nel concerto milanese, mi sembra fosse in Beggars Moon, che il caos era talmente totale, sebbene controllato,
che pareva di sentire il set del Tony
Williams Lifetime siringato a colpi di Parliament Funkadelic. Non ci sono
limiti nella musica di CRB, anche quando si tratta di titoli ben noti, come Shake, Rattle and Roll oppure Down In
The Flood di Dylan il gioco della scombine
è talmente marcato che si è davanti a vera e propria sperimentazione dove
la libertà assoluta dei musicisti è la cifra stilistica di una band che evoca
un 'era in cui la musica era un continuo flusso di coscienza ed una esperienza
fisica e psichica di piacere. Certo, esiste sempre una vaga linea conduttrice,
che è costituita dalla melodia e dal cantato tarantolato lento di Robinson ma
il tutto appare come una super session in cui il punto iniziale, uno dei
momenti più rocknrollistici dello show, ovvero Taking Care Of Business, lo si ritrova nel finale dylaniato di Down in The Flood fondendo in una lunga
jam tutto quello che ci sta in mezzo, dal
clima estatico di Star or Stone una ballata che mette insieme Laurel Canyon e Allman
Brothers ai Coasters riveduti e corretti di I'm
A Hog For You impreziosito da uno strepitoso assolo di armonica di Robinson,
dal Jerry Garcia di They Love Each Other dove
pare proprio di essere ad un concerto dei Grateful Dead alla kilometrica Vibration&Light Suite dove tutti i
presenti sono coscienti di quando si sale a bordo ma non di quando (e come) si
atterra, dopo così tanto turbinio cosmico di schianti sonori, dilatazioni
spaziali, refrain ripetuti e abbandonati, ritmiche che si attorcigliano e poi
si liberano in un ammaraggio che lascia tramortiti. E' la musica psichedelica della Chris Robinson
Brotherhood ed è una benedizione che sia passata da Milano perché di musica
così ne abbiamo tanto bisogno per non sottostare ad un rock diventato, anche
nei nomi eccellenti, un immenso karaoke.
Chris Robinson, magro, ascetico, barba lunga e
capelli fino alle spalle, canta abiurando il predicatore che era nei Corvi
Neri, l'orgiastico tasso di gospel e soul nella nuova band è praticamente
azzerato anche se rimane lo scampolo di una magnifica I Ain't Hiding presa dagli ultimi Black Crowes di Until
The Freeze.....Before The Frost e la rivitalizzazione di Tornado rimasuglio delle sessions di Tall, il disco perduto dei Corvi. Come
chitarrista Robinson si limita quasi esclusivamente alle parti ritmiche, mettendosi
a volte in disparte e lasciando a Neal
Casal il ruolo del John Cipollina di turno, il quale condivide le parti
vocali e quando si invola con la sua sei corde è un misto di asprezze rock e acidità
psichedeliche. Il cappelluto batterista George
Sluppick picchia ma è anche capace di un dinamismo jazz, il bassista, Mark Dutton, fa partita a sé. In un
angolo, piccolo, arruffati capelli neri e t-shirt nera trucida sembra tirato
fuori da uno scantinato della New York pre-punk, è assorto sul suo strumento,
concentrato come pochi, non guarda nessuno, mentre un Chris Robinson sorridente
come mai si era visto scambia sguardi complici sia con Casal che con Adam MacDougall. Questi è la grande incognita
dello show, almeno per come la pensano tanti del pubblico, perché se coi Black
Crowes usava in maniera "compatibilmente" southern le tastiere qui si
dà un d'affare quasi eccessivo, è l'alchimista della congrega, maneggia piano
elettrico e altri marchingegni ma spesso deborda, è ridondante sia nei volumi
che nell'insistere con rifiniture che diventano centrali nell'economia del
suono della band, specie quando manipola un mini moog che alla lunga
infastidisce. E' la parte kraut rock e prog del combo, dichiaratamente voluta da
Robinson, grande fan di Popol Vuh e Can, un modo per scombinare ancor di più una band che ruota a 360 gradi e
non disdegna di inoltrarsi in territori che i vecchi fans dei Black Crowes
preferirebbero non frequentare. Certo la torrida eccitazione ed il rock n'roll
grondante sangue, sudore e polvere da sparo dell' antica esperienza erano altra cosa, adesso il Sud è lontano ed è la
California freak la nuova patria, ma tutto si può accettare da questa nuova
band e da questo eroico rocker, onesti negli intenti e con l'entusiasmo di una
comune hippie, che suonano liberi e felici
come fossimo nel 1970, infischiandosene dell''industria discografica e di un
gusto di massa che sta su ben altra costellazione. Ribelli nel cosmo, duemila
anni luce lontano da casa, è grazie ad artisti come loro per cui il rock n'roll
pulsa ancora vitale nei nostri cuori e nelle nostre orecchie.
MAURO ZAMBELLINI
Le foto sono di Marcello Matranga