Diciotto anni di attesa sono tanti, nonostante la parentesi cover blues di Blue and Lonesome, ma ne valeva la pena perché Hackney Diamonds è un album sorprendentemente fresco e al passo coi tempi. I Rolling Stones dimostrano la loro longevità artistica con un album forte, brillante, energico, evocativo dove sono presenti gli elementi caratteristici del loro stile ma spostati in avanti in virtù di una produzione, il newyorchese Andrew Watt (Elton John, Iggy Pop) che ha saputo conferire al loro sound quella lucidità e modernità necessarie per non scivolare in un prodotto di nostalgia o una ripetizione di uno standard. Registrato in diversi studi sparsi per il mondo, da Los Angeles a New York, da Londra a Nassau, ed intitolato come lo storico Hackney Empire, epicentro dell’arte pionieristica nell’East London da almeno 125 anni, e suonato dai tre rimasti del gruppo più una pletora di collaboratori tra cui Benmont Tench, Paul McCartney, Elton John, Matt Clifford, con la presenza di Steve Jordan alla batteria (ma in un paio di brani c’è ancora Charlie Watts ed in uno Bill Wyman), Hackney Diamonds è una dimostrazione di vitalità senza eguali, la testimonianza di una band rimasta ancorata a quel flusso di rock n’roll e blues che ha forgiato la loro essenza artistica e la loro passione, nonché la loro carriera. Si rimane sbalorditi davanti a dei musicisti instancabili che pur conoscendo così tanti saliscendi, baciati dal successo ma anche avversati da lutti e capitomboli, riescono ad essere ancora oggi portavoce di un rock n’roll che nonostante il fiorire di tanti altri idiomi musicali, rimane una plausibile fonte di piacere, eccitazione e consolazione. Mick Jagger, Keith Richards e Ron Wood e con loro tutti quelli che si sono portati appresso in questa cavalcata selvaggia, hanno realizzato un lavoro che appaga i desideri di qualsiasi fan, dove ballate romantiche e polverose convivono con micidiali e feroci pugnalate rock, canti gospel inneggianti a quegli anni settanta di cui loro furono angeli e diavoli si intrecciano con sensuali e maliziosi funk di scuola soul, vecchi blues acustici dell’età della pietra si accompagnano a smargiassi pop-rock adatti a riempire di eros, macchine e cuoio nero un video con cui far ballare il mondo intero (se questo pensasse di più a divertirsi che a creare guerre). Insomma Hackney Diamonds è un disco che ha lasciato di stucco anche un vecchio fan come me e questo non è lavoro per cui bisogna dire l’età degli autori per esaltarlo o semplicemente giustificarlo, questo è un ottimo disco di rock, senza tempo e senza ma. Parte con Angry, il singolo pubblicato il cui video diretto da Francois Rousselet riassume la risaputa iconografia glamour del gruppo tra scenari urbani, auto sportive, belle ragazze e cartellonistica amarcord, ma subito dopo si entra in pista con le scalpitanti note di Get Close in cui appare chiaro come la voce di Jagger sia ancora giovane e squillante e come il drumming di Steve Jordan sia ben diverso da quello di Charlie Watts, più tosto e meno swingante e quindi più in linea con la moderna produzione di Watt. Detto questo, chi scrive non dimentica che la peculiarità ritmica degli Stones sia stato lo swing del maestro Watts. Matt Clifford e Elton John lavorano con le tastiere, il produttore Andrew Watt si occupa del basso, in altri pezzi ci penserà Keith Richards, le chitarre graffiano. A metà irrompono il sassofono di James King e Ron Blake e allora è facile ricordare quello che facevano Bobby Keys e Jim Price quando c’era bisogno di sporcare il rock con il rhythm and blues del Sud. Arriva Depending On You e le acque si calmano, una superba ballata con tanto di arrangiamento d’archi (dovrebbero prendere nota quelli invaghiti dalla pompa magna delle stelle dell’Ovest ) evoca l’antica bellezza di Waiting For A Friend, un’ aria di romantico e corale country&western infonde un sapore epico. Al pianoforte c’è Andrew Watt, l’organo è di Benmont Tench, Jagger è un mattatore, il crescendo mette al tappeto anche i più duri del reame, traspare commozione. Niente lacrime di circostanza, gli Stones innestano la marcia e con due brani estraggono l’armamentario da battaglia. Bite My Head Off è di una violenza inaudita, chitarre a palla, suono compatto, furia punk, giro ossessivo, muscoli ed urla. La cosa che lascia di stucco è il basso nelle mani Paul McCartney, ovvero come schiaffeggiare una carriera con tre minuti e mezzo di hard-rock. Non da meno è Whole Wide World, una sorta di rockabilly metallizzato alleggerito da un refrain cantabile e indurito dal secco e arrembante assolo di chitarra di scuola British. Andando di questo passo ai tre verrebbe un infarto e allora in Dreamy Skies la slide di Ron Wood ricama uno sfilacciato country della serie Faraway Eyes. Jagger parlotta citando Hank Williams e l’honky tonk, le chitarre acustiche ci mettono una elegia western e la sezione ritmica lavora in punta di piedi. Al contrario in Mess It Up gli Stones si ricordano di aver fatto ballare tutte le discoteche del pianeta con Miss You, Charlie Watts swinga ed il brano si traduce in un funk-dance piuttosto furbetto, col falsetto di Jagger che rimanda alle leggerezze pop di Emotional Rescue. Niente di grave, Elton John, Bill Wyman e Charlie Watts rimettono le cose in carreggiata, Live By The Sword è tagliente come una lama, suona come una registrazione live, inizia con una nota rubata a Spoonful e poi diventa un duro pop-rock venato di blues per cui gli Artic Monkeys farebbero carte false per averlo. Chitarre strapazzate e martellate da parte di Jordan, delirio e caos. Come da copione il ritmo rallenta, Driving Me Too Hard è un'altra ballata polverosa e stradaiola, da gustarsi in autostrada. Jagger è superlativo e sa che di lì a poco entrerà in scena Keith Richards per una di quelle sue ballate dondolanti di soul esangue ed intimo ma emozionante da morire. Keef non si smentisce e lascia il segno nella lenta Tell Me Straight. Siamo alla traccia numero undici ed è il momento di alzarsi in piedi per un applauso fragoroso. Nei sette e passa minuti di Sweet Sound of Heaven, un canto celestiale di spiritualità biblica, convergono il soul, il gospel delle chiese battiste del Sud, riverberi old shool, You Got The Blues e You Can’t Always Get What You Want, Gimme Shelter ed una magnifica Lady Gaga che qui fa la Merry Clayton della situazione dialogando con l’inarrivabile Mick Jagger in una ascesa vocale che porta direttamente in Paradiso. Al pianoforte c’è Stevie Wonder, il finale e la coda sono brividi caldi di estasi e piacere, pura leggenda, tra le cose migliori dei Rolling Stones dal 1972 ad oggi.
Dove è nata tutta la storia, si chiude. In due minuti e 45 secondi Jagger e Richards, nudi e soli, voce, chitarra e armonica, rileggono la genesi del loro viaggio nella musica con una scarna , primitiva e spartana Rolling Stone Blues dove il blues di Muddy Waters incontra quello di Skip James. Eleganza, amore e riconoscimento verso i padri fondatori di tutto quello che è venuto dopo, i Rolling Stones rimangono la più grande rock and roll band del pianeta, vecchi e solo in tre in un mondo che ha perso la ragione.
MAURO ZAMBELLINI OTTOBRE 2023