martedì 19 marzo 2024

JJ GREY & MOFRO Olustee


 

Cambio di formazione rispetto all’album precedente Ol’ Glory di cinque anni fa, dei vecchi Mofro sono rimasti il bassista Todd Smallie e i due trombettisti Marcus Parsley e Dennis Marion, l’unico sassofono ed il flauto sono ora in mano a Kenny Hamilton, c’è una terza tromba, John Reid, il chitarrista è Pete Winders, il tastierista Eric Brigmond e la sezione ritmica è composta dal batterista Craig Barnett e dal percussionista Eric Mason. Un nutrito cast di voci, il fagotto, il fadolin (uno strumento a sei corde usato come un violino ma capace di creare anche i suoni di una viola ed un violoncello) ed un trombone completano la big band, a cui si aggiunge in un paio di brani l’Orchestra Sinfonica di Budapest.



Come si evince dallo schieramento in campo, l’album presenta una diversa complessità rispetto ai precedenti lavori e lo si nota subito con l’iniziale The Sea un’ode all’amato oceano, lenta e melodica dove l’orchestra ne sottolinea il clima di tranquillità, accompagnata dal pianoforte e dalla chitarra acustica. Il verso io appartengo al mare/casa dei liberi svela il profondo coinvolgimento dell’autore in simile contesto. Di tutt’altra pasta la seguente Top of the world, le coriste rispondono alla chiamata di JJ Grey mentre la sezione fiati imbandisce un banchetto di musica New Orleans. Se sei venuto per cambiare il mondo, lascia che ti mostri la porta-canta JJ Grey e il brano si trasforma in una musica festosa e contagiosa, prima che la seguente On a breeze rallenti il ritmo pur mantenendo  intatta la carica di speranza in oh my love, che tu possa vedere cieli sereni e tutto ciò che meriti. Con Olustee ritroviamo il JJ Grey del passato in una storia che evoca i tragici incendi che hanno devastato sette contee della Florida settentrionale nel giugno 1998 provocati dai fulmini sulle campagne aride. Il brano è forte e duro, il lungo devastante assolo di chitarra elettrica dà la sensazione del pericolo e del fuoco che incalza, una esortazione a correre più forte per scampare la morte. L’incendio costrinse a chiudere 135 miglia della highway 95 che collega Jacksonville e Titusville e sospendere l’annuale competizione del Daytona International Raceway. L’alternanza di R&B e ballate trova conferma in Seminole Wind, cover di John Anderson, un grido per la preservazione delle Everglades : il progresso è arrivato e ha voluto il suo prezzo, ed in nome del controllo delle inondazioni hanno fatto piani per prosciugare la terra, ora le radure si stanno inaridendo. Il soul-rock ecologico di JJ Grey prende la piega di una ballata con le trombe al centro della canzone ed un crescendo corale che racchiude tutto il dolore dell’uomo delle paludi nel veder compromessa la ricchezza del territorio dove lui, la sua famiglia, gli amici e la comunità sono vissuti in equilibrio con la natura. Il rhythm and blues di casa Stax si fa strada prorompente in Wonderland, coriste all’attacco e ritmo che incalza con tutta la sezione fiati alle spalle, mentre la seguente Starry Night come da copione allenta la tensione elettrica dando spazio agli arrangiamenti d’archi e all’abbraccio di un canto d’amore che si conclude con la sezione fiati in avanscoperta. Free High è energia allo stato puro, stacchi, urla, schiamazzi gioiosi, Sly and Family Stone sugli scudi ed un arrembante voglia di far casino con tutto quanto di meglio l’epoca d’oro del soul e R&B ha lasciato dietro di se. Ancora soul ma lento e appassionato in Waiting dove l’autore confida non sono mai stato ciò che potevo essere, e so che non è mai stata colpa di nessuno se non mia, mentre in Rooster canta la donna è l’anima di un uomo, riesce a tenere tutto insieme quando tu non puoi, lei è la fonte da cui sgorgo, mi insegna molte cose che non faccio, ma io sono un gallo e questo è un dato di fatto, quindi sai come mi comporterò. E non poteva che essere un funky sincopato e nerissimo, dal ritmo dance ad accompagnare tale affermazione di presunta virilità, per poi abbandonarsi alla circospetta riflessione di Deeper than relief, melodia fin troppo accorata e sinfonica con flauto e archi protagonisti, per i modi schietti di JJ Grey e la sua band. Suona come la chiusura del cerchio e si ricongiunge con la romantica, iniziale The Sea. Accantonati gli aspetti più strettamente blues della sua musica, con Olustee  JJ Grey & Mofro ci offrono una dimostrazione di quanto il rock o presunto tale sia ancora credibile quando parla di preoccupazioni e sensibilità, un anima inquieta in canzoni ricche di sentimento per la vita e l’ambiente con un sound che appartiene di diritto alla tradizione southern.

 

MAURO ZAMBELLINI      MARZO 2024

p.s articolo retrospettivo su JJ Grey& Mofro su Buscadero di aprile

lunedì 4 marzo 2024

THE BLACK CROWES HAPPINESS BASTARDS



Hanno riavvolto il nastro i Black Crowes e sono ritornati alla linea di partenza. Dopo anni ognuno per la sua strada, Chris e Rich Robinson dal 2019 hanno ricominciato a parlarsi e a fare musica insieme, prima sfruttando la ristampa del loro album d’esordio Shake Your Money Maker  per allestire un tour che li ha visti esibirsi in venti paesi per un totale di 150 show, a cui è seguito un disco live, e adesso mettendo in circolazione il decimo album della loro discografia, dopo quindici anni dal loro ultimo lavoro con brani originali. Happiness Bastards  lo spavaldo titolo con cui si ripresentano è un chiaro e rinfrescante ritorno ai suoni e al vigore degli esordi, un tuffo nel più quintessenziale schietto e viscerale rock n’roll tinteggiato con una buona dose di rhythm and blues. In un periodo in cui questa musica sembra messa alle strette dalle nuove ondate tecnologiche e pop, loro e gli Stones con le recenti registrazioni tengono in vita una idea antica ma ancora in grado di ossigenare sangue e menti di molti ascoltatori, ribellandosi ai destini segnati da trend più importanti per i meccanismi e i calcoli aziendali che per il benessere delle masse. Ammesso che queste siano disposte a lasciarsi contagiare da un classicismo che stando alle cifre di vendita di Hackney Diamonds  miete ancora proseliti. D’altra parte come diceva un rocker tutto di un pezzo, Tom Petty “c’erano ideali in quella musica degli anni cinquanta e sessanta e voglio vedere quegli ideali rimanere intatti”. Scarno, asciutto e diretto, Happiness Bastards  è la lettera d’amore dei Black Crowes al rock n’roll, un concentrato di ingredienti atti a svegliare gli animi intorpiditi di rockers pronti per un ultimo ballo. Inossidabili i Corvi Neri non paiono avere paura del tempo, fanno urlare le chitarre, soffiano il blues in un’armonica che non è un semplice strumento ma la reliquia lasciata dal Grande Fiume, scatenano un ritmo a palla dietro l’inconfondibile voce del leader, lo sciamano che implora una urgente sometimes salvation e ad ogni ascolto fa salire la febbre. E quando chiudono un album come Happiness Bastards  suonato senza mai toccare il freno, con una ballata del calibro di Kindred Friend  allora ti accorgi che il cuore ed il sentimento sono ancora lì, in chi non ha ancora svenduto il proprio guardaroba anni settanta, musica fatta di riff brucianti, organi di Chiesa, voci rapite dall’esaltazione del momento. Pazienza se non ci sono più le galoppate psichedeliche di Marc Ford e album visionari come Amorica  e Three Snakes and One Charm, anche le atmosfere bucoliche care a The Band di Before The Frost…Until The Freeze…..,  sono accantonate salvo qualche rara ballata, ciò che i Black Crowes offrono nel nuovo album è quel gagliardo, maleducato, sensuale approccio con cui negli anni novanta si fecero spazio nell’affollato panorama dominato dal grunge preferendo confondersi con le borchie del metal piuttosto che vestire le camicie di flanella. Happiness Bastards  è figlio di Shake Your Money Maker  ma di acqua ne è passata e ciò che è stato, comprese le avventure soliste dei due fratelli, fa parte della continuazione di una storia con tutto il bagaglio di esperienze vissute, il tentativo di rincorrere il tempo perduto. Parte con l’acceleratore a tavoletta Happiness Bastards  e se non fosse che le note del disco dicano di Jay Joyce come produttore, si penserebbe che dietro canzoni fulminanti come Bedside Manners e Rats and Clowns  ci sia la mano di Andrew Watt, l’uomo alla consolle negli ultimi lavori di Stones ed Iggy Pop. Siamo comunque sotto la Mason Dixon-Line, qui il sound è più sporco e meno metallico nonostante la sezione ritmica (Sven Pipien e Cully Symington) sia roba da fabbrica metallurgica ma non puoi togliere il Sud dai Black Crowes e allora quando è il turno di Cross Your Fingers il ritmo singhiozza, la batteria accentua la crudezza delle chitarre, Rich Robinson se la gioca e fratello Chris quando stacca lascia  al backing vocale e alle tastiere il pretesto per creare quell’orgiastico gospel di cui sono maestri . L’inizio rutilante di Wanting and Waiting non lascia dubbi, loro non sconfessano nulla, né il boogie né i tumulti famigliari e le gelosie, difatti sembra una nuova versione di uno dei loro primi cavalli di battaglia, Jealous Again. Chris è abile nel trascinarsi dietro sia i cori che l’Hammond ed il battere ottuso della batteria, le chitarre sono morsi velenosi, il sabba è di nuovo in scena. Me la vedo già in concerto, sarà impossibile stare seduti agli Arcimboldi. Pezzo da novanta. Con la cantante Lainey Wilson, una che si veste come loro pur bazzicando il country, i Corvi concedono la prima pausa in tanta euforia, Wilted Rose si apre con le chitarre acustiche, Chris sembra immerso in una sorta di preghiera, ma ad un certo punto tutto sembra andare a carte e 48 in un terremoto elettrico che sconvolge quella che avrebbe dovuto essere una pacifica ballata. E’ caos ma poi la Wilson riconduce il brano sulla via di una ballata gotico-sudista. Viene lasciato all’Hammond il compito di riaprire le danze, Dirty Cold Sun puzza di Stones in un ambiente dove il fumo ed il bourbon sono i propellenti di un rock che non ne vuole sapere di diventare saggio e se i loro miti nel 1969 cantavano Let It Bleed , adesso loro rispondono con Bleed It Dry pur con gli stessi umori, ovvero l’armonica, la slide e la voce febbricitante di Chris ad inscenare un blues da strada sterrata.  Forse la concessione al mainstream arriva con Flesh Wound, col suo drumming da marcia militare ed il coro trionfale ma le chitarre in apertura di Follow That Moon citano i Led Zeppelin prima che diventi un rhythm and blues killer che scuote corpo e anima. Il trance di Chris nel cantarla suona come la felicità ritrovata nel sentirsi di nuovo unito a fratello Rich e allo storico bassista Sven Pipien, salvo smentite sempre in agguato quando si tratta di una brothers band. Ma la sontuosa ed emozionante ballata Kindred Friend non può essere una illusione, quel romanticismo polveroso dell’ amico affine è la speranza che il nuovo corso non si esaurisca troppo in fretta. Alzate il volume, i Corvi Neri stanno ancora cavalcando nelle praterie del rock n’roll.

 

MAURO  ZAMBELLINI