Se Only
The Strong Survive rientra nella rilettura che da un po’ di anni Bruce
Springsteen fa della propria storia personale, a cominciare dalla pubblicazione
dell’autobiografia e dal confessionale di On Broadway nonché con la ripresa
dei tre brani “antichi” di Letter To You, il percorso è logico
perché a detta dello stesso le quindici canzoni del nuovo disco fanno parte
della sua adolescenza, ciò che aveva amato da ragazzino zeppo di sentimenti
d’amore, quando il soul degli anni 60 usciva dalla radio di casa, era compagna
della vita famigliare domestica, in particolare di sua madre. Ma c’è un’altra
storia che magari i recenti fans di Bruce non hanno conosciuto ed invece ha
coinvolto i tanti che lo hanno accompagnato fin dagli albori della sua
carriera, dai giorni in cui sembrava un hippie con gli Steel Mill. Siamo stati
abituati ad altro, e quando l’artista prese in mano nelle sue strabordanti
performance il soul, sia che fosse quello dei Temptations (Ain’t Too Proud To Beg), sia
quello delle Ronettes, di Darlen Love e di Dion o di Marvin Gaye (Ain’ That Peculiar) o Curtis Mayfield (Gypsy Woman), di Sam Cooke (Havin’ A Party) e i Drifters (Under The Boardwalk) , di Solomon Burke
(Down In The Valley) e di Gary U.S
Bonds, di Dobie Gray (Drift Away) e
di Bobby “Blue” Bland ( Turn On Your Love
Light), di Wilson Pickett (Funky
Broadway, Midnight Hour) e di Ernie K.Doe, di Eddie Floyd (Raise Your Hand) e di Edwin Starr (War), di Sam&Dave (Soothe Me) e di Arthur Conley (Sweet Soul Music), di Rufus Thomas (Walkin’ The Dog) e della Detroit Medley,
non era quella colata di zucchero filato che esce dai quindici ripescaggi di Only
The Strong Survive, decisamente più orientato verso il lato più morbido
del genere, quasi innocuo visto che di temi su diritti civili e razzismo di cui
le canzoni soul sono piene, qui non c’è traccia. Eppure l’intento di
Springsteen era rendere giustizia agli autori di quella musica gloriosa ed in più
in generale alla Black America; ha preferito soffermarsi invece sugli
struggimenti del cuore, le lacrime e la tristezza di un abbandono, e in un
periodo di divisioni come questo può suonare terapeutico, anche se la sua
storia sembrava più coerente con l’intensità e quella profondità di impegno
sociale dei suoi testi o in ambito di cover, di lavori come le Seeger
Sessions. Non avrebbero sfigurato Donnie Hathaway, Marvin Gaye, Otis
Redding e Curtis Mayfield tra gli autori scelti per il nuovo disco, piuttosto
che un baricentro spostato verso Motown, Philly Sound e sviolinature a destra e
a manca. Poche concessioni alla Stax, alla
Hi Records, alla Atco, alla Fame, a Memphis e Muscle Shoals, quando va bene c’è
la ripresa di un brano “minore” della Motown di Frank Wilson, Do I Love You (Indeed I Do) che swingata ad hoc è uno dei pezzi più
trascinanti dell’album, al contrario dell’altro singolo, Nightshift dei Commodores che invece è una precisa opzione,
estetica e culturale. Il vecchio Bruce ci aveva promesso meraviglie e credevamo
che la storia fosse andata avanti all’infinito perché accanto alla storica soul
music arrivarono nel suo background gli Animals, i Beatles, i Rolling Stones, i
Manfred Mann, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Roy Orbison e allora disorienta pensare
ad un artista che oggi si diverte con un soul così annacquato e lontano dalle
sue radici. Libero di fare ciò che vuole, benintesi e non contesto l’idea di un
disco di soul music ma di quali arrangiamenti, di quali canzoni selezionate e di
una veste sonora interamente in mano al solo Ron Aniello ( secondo chi scrive il responsabile del decadimento
musicale del nostro), salvo sporadici interventi (Sam Moore), i cori e i fiati
dei E-Street Horns. Non per forza di cosa attingere al repertorio di Otis
Redding, di Wilson Pickett, di Solomon Burke, di Sam&Dave o di Curtis
Mayfiled voglia dire recuperare i loro hits e gli standard, perché la musica soul
costituisce un bacino così ampio da permettere brani meravigliosi anche se poco
noti. Basta sentire cosa hanno fatto Eddie Hinton e Willy DeVille, Paul Rogers
e Boz Scaggs, o addirittura l'amico Southside Johnny, per rimanere tra alcuni visi pallidi del rock che hanno cantato
il soul. Bruce Springsteen ha scelto
altrimenti evocando l’America dell’innocenza con canzoni peraltro piacevoli da
ascoltare alla radio o durante la tombola natalizia, un album carino e innocuo (
termini che non avrei mai pensato di usare per una recensione di un disco del
Boss), più che soul un disco pop e vintage. Poca anima e interpretazioni spesso didascaliche,
rari i guizzi, tantomeno il coraggio nel trasformare un vecchio brano in
qualcosa di veramente “suo”, assenza di una band, anche fossero dei sessionmen,
dominano invece gli arrangiamenti ampollosi e carichi (il soul ha bisogno di
archi, violini e trombe ma non è obbligatorio estenderli in tutti i brani), la
sensazione è di un professionale lavoro di consolle. Sam Moore il nome che più lega questo Springsteen al soul con cui
infiammava i concerti degli anni settanta e ottanta interviene in Forgot
To Be Your Lover, dal repertorio dei Four
Tops arrivano When She Was My Girl con
un taglio dance da Philly Sound ( la incisero nel 1981 per la Casablanca quando
già dominava la Disco music) e 7 Rooms of
Gloom incalzante e sincopata come nello stile del quartetto di Detroit, mentre dagli archivi del southern soul esce
Any Other Way di William Bell. Sono
tra le cose migliori del disco, quest’ultima impreziosito da un buon lavoro di
sax nelle retrovie. L’arcinota Don’t Play
That Song si nutre di un imponente
supporto corale come fosse una registrazione live ma è gigiona nel cercare
l’applauso facile, Someday We’ll Be
Together di Diana Ross e What Becomes
of the Brokenhearted di Jimmy Ruffin metterebbero in piedi tutto il Cesar’s
Palace di Las Vegas.
The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore degli
Walker Brothers, un singolo che amavo molto da ragazzo, è in pompa magna, enfatico
da morire, Turn Back The Hands of Time portata
al successo da Tyrone Davis nel 1970 è un altro degli episodi in cui la voce di
Bruce svetta espressiva e forte ma anche qui le orchestrazioni si sprecano, Hey, Western
Union Man di Jerry Butler, autore anche della canzone che dà il titolo
all’album (la versione di Presley possedeva ben altra sensualità), mostra l’autorevole vocione del Boss in
un guizzo coraggioso e ben assestato, ma se Aniello non avesse calcato la mano
con gli archi avrebbe avuto ben altro impatto. Cosa che si ripete in I Wish It Would Rain dei Temptations
dove la malinconia di un uomo lasciato da una donna che si augura che la
pioggia nasconda le sue lacrime, è stemperata da una interpretazione che sa di
riscatto. Nightshift si apre con le
tastiere di The Streets of Philadelphia e
poi cita Marvin Gaye e Jackie Wilson e sintetizza l’intero album, una
sensazione di formale eleganza in un copione rispettato alla lettera. Disco inutile.
MAURO ZAMBELLINI NOVEMBRE 2022