L'ultima data del British
Summer Time, appuntamento nel verde di Hyde
Park diventato un classico dell'estate rock londinese dopo il concerto dei Rolling Stones del 2013 e
quello degli Who del 2015, vede come headliner Tom Petty and The Heartbreakers
ed è un boccone troppo ghiotto da
lasciarsi sfuggire anche perché è l'unica data europea del suo tour del
quarantennale. I cancelli si aprono
verso mezzogiorno ed il pubblico è già numeroso, c'è un piccolo palco per le
esibizioni, un susseguirsi di postazioni per lo street food, la birra e i drink, un merchandising che vende magliette senza un
attimo di tregua.
Ma è l'enorme Great Oak Stage il colpo d'occhio maggiore
anche se il sole è alto ed il caldo più da pianura padana che da parco
londinese, nonostante minacciose previsioni di pioggia. Imponenti querce
(simulate) le cui fronde verdi sovrastano e contornano l'enorme palco danno
l'idea di un ottocentesco quadro bucolico che al tramonto, grazie alla luce e agli
effetti degli schermi, si confonde con
la vegetazione ed il cielo di Hyde Park. Suggestivo. Quando prendo posto nel secondo girone sotto
il palco, il gold circle, sono già
all'azione James Hunter Six.
Con un torrido set di 40 minuti incrociano
soul, R&B, qualche scampolo di blues e diverso northern soul, musica calda, coinvolgente ed una salda
conoscenza del genere messa al servizio di una interpretazione affatto banale e
standard. James Hunter è un vocalist dall'ugola negroide benedetto prima da Van
Morrison e poi da Allen Toussaint. Viso rugoso
da marinaio segnato dal sole, piccolo ma muscoloso, camicia rossa e Gibson in
mano, canta convinto una musica figlia di James Brown, Sam Cooke, Jackie Wilson
e con la sua bella voce da soul singer anni '50 non sfigura rispetto ai suoi
maestri. Lo avevo visto qualche anno fa in azione a Narcao Blues ma fu un set
piuttosto monotono e stanco, tutto diverso dalla esibizione londinese, gagliarda e carica di feeling in virtù anche di una eccellente sezione
ritmica, batteria e contrabbasso, che sa essere soft nei brani di più esplicito
orientamento northern soul con qualche infiltrazione jazz. Hunter è un soulman
bianco dal piglio operaio, un commitment di Colchester, Essex, nato nel 1962,
orgoglioso di tenere in vita senza nostalgia una formula che in Inghilterra ha
sempre fatto proseliti. Nei Six ci sono un pianista che sa il fatto suo e due
scoppiettanti sassofonisti, baritono e tenore,
un combo che anche su disco ha mostrato le sue qualità e la predilezione
per la sponda "nera" del rock n'roll. The Hard Way e Minute By Minute sono due
dischi che consiglio a chiunque coltivi tali orticelli.
Dopo di loro è la volta degli Shelters, quartetto di Los
Angeles con un unico disco alle spalle prodotto da Tom Petty. Si passa dalla
fuliggine inglese al sole californiano ed è un altra storia. Due chitarristi
diversi che cantano insieme o alternativamente, trascinano un set bruciante ed elettrico, pur
con moderne aperture melodiche. Josh Jove suona la Gretsch e assomiglia
ad un giovane Phil Alvin, stesso viso stessa brillantina, è il rocker della
band, quello con una impostazione più classicamente rock n'roll, gli fa da contraltare lo scatenato Chase Simpson, veemenza grungy e fulminee entrate di chitarra, capelli
al vento e morsi da teppista sonoro. Si dividono i compiti ma sono
complementari, grintosi, veloci,
diretti, la giusta attitudine per
abbracciare rock garagista e power-pop, concedersi
a qualche frastuono grunge, colorare il set con uno sporadico pastello
psichedelico ed unirsi in abbaglianti armonie di pop inglese alla Kinks.
Attorno a loro il bassista Jacob Pillott
addenta il ritmo come una iena mentre Sebastian
Harris picchia sulla batteria come un ossesso. Va in scena il loro album, un rock
californiano giovane e vitaminico sposa i Replacements con Tom Petty ed è un
matrimonio originale, non il desueto rumore
di tante band alternative che giocano sul sound senza avere un briciolo di idea
di canzone. Qui c'è respiro e varietà oltre che determinazione, gli sconosciuti Shelters infiammano Hyde Park con un set di
energia e bravura. Applausi.
Quando entrano in scena i Lumineers
è ancora pomeriggio ed il caldo non molla. Gli spazi tra i presenti si
riducono perché cala la marea del pubblico di ultima generazione che sgomita per accaparrarsi le prime fila
senza rispetto per chi ha sudato ore per tenersi la propria non idilliaca
posizione. E' il pubblico delle band di
moda e non tardo molto a capirlo perché non passano molti minuti prima che
tutti accompagnino con degli insopportabili
coretti di oooooh, eeeeeh, aaaah, da
concerto di Vasco le canzoni che un belloccio ma talvolta stonato cantante con aria
messianica sta riversando dal palco. I
suoi compagni sono un tastierista che suona un pianoforte grande come uno yacht
ma si sente a malapena, un bassista insignificante, una violoncellista
imbalsamata con viso di porcellana ed uno che batte sui tamburi come fanno i
Mumford and Sons creando un aspettativa di canzone che non decolla mai e rimane
sempre al punto di partenza. Devo ammettere che questo folk-rock di respiro
vagamente celtico (compresi Mumford & Sons, Monster of Men e compagnia
bella) mi annoia oltre misura perché tutto uguale, fasullo e falsamente popolare.
I Lumineers cantano la stessa canzone per cinquanta minuti, ripetitivi e senza
alcun appeal melodico, hanno come unico intento
coinvolgere un pubblico di bocca buona con coretti e ritornelli che si cantano
come in un karaoke. Vadano a quel paese con le loro canzonette, le loro barbe, i loro piedi scalzi, il loro tamburo, le loro
bretelle ed il loro pubblico. I Pogues
erano un' altra cosa.
Il tramonto lo porta la
fatalona Stevie Nicks, sono le 18 e
dopo Gold and Brain è subito Fleetwood Mac con Gypsy, zingaresca ballata
di un epoca d'oro californiana. Scrosciano applausi ed urla, lei bionda vestita
di nero, grandi occhiali scuri adornata da veli e scialli, appare come una
suadente maga gotica che inscena un set romantico dove immagini
di piogge urbane, lupi della steppa, castelli incantati e vampiri, simboli
runici fanno da coreografia ad una musica che si vorrebbe fatale e sognante. Ma
così non è perché se Stevie Nicks è
quella di sempre, la voce intatta sintonizzata su un unica tonalità e i modi da regina, oggi decaduta ed
invecchiata, di una ricca California rock, compresi i continui cambi di scialle,
lo svolazzo dei veli, le unghie vampiresche ed il vaporoso ondeggiare sul palco,
la band suona un ampolloso sound da anni ottanta, debordante nelle tastiere
e plateale nelle chitarre, roba che si usa solo in qualche galà a Las Vegas. Un sound
vecchio e sorpassato, laccato e tronfio, non aiutato dalla presenza di Waddy Wachtel, chitarrista che abbiamo
amato con Warren Zevon, Jackson Browne, X-Pensive Winos, Linda Ronstadt ma che
sul palco di Hyde Park sembra più concentrato in platealità da Reo Speedwagon. Certo rimangono le canzoni indimenticabili
della Nicks, Dreams, Gold Dust Woman, Criyng
In The Night, Belladonna, una lunga Rhiannon
interpretata con ardore e passione ma l'enfasi del set è troppo pomposa per
sedurre, non tanto per la sua regale e
teatrale esibizione quanto per il suono di una
band che sembra appartenere ad un'altra era. Il
pubblico applaude in massa e la Nicks lo ricambia con una intima versione di Landslide. Dice di essere lì grazie a Tom Petty " la
sua star preferita".
Che ci sia stima reciproca lo si vede di lì a poco quando Tom Petty
la invita sul Grand Oak Stage per cantare insieme una bella versione di Stop Draggin' My Heart Around un ricordo dei loro primi anni ottanta quando
tutto girava facile ed eccitante attorno a loro.
Ma se Stevie Nicks è ancorata
ai ricordi, così non è Tom Petty e i
suoi Heartbreakers la più potente, lucida, scintillante, coordinata
rock n'roll band oggi in circolazione, capace di unire poesia e crudezze, storie di
strada e malinconie da loser, visioni bucoliche e amori spezzati, romantica e spietata
nel giro di poche note, un insieme di musicisti ed un songwriter che ti mettono
al tappeto non ricorrendo all' impeto del comunicatore e tanto meno al fisico e carnale intrattenitore
messianico ma con l'esclusivo potere della musica, del rock n'roll. Una band
stratosferica che suona a memoria e con divertimento, precisa e in scioltezza
dietro ad un leader che non fa nulla per nascondere la sua età, compresa una
pancetta incipiente e dei fastidi alla schiena, ma è la quintessenza del rocker: voce nasale, chitarrista eccellente, posa da
ribelle con camicia rossa e gilè nero, tra il disincantato
e lo spiritoso, autore superlativo, tenero
e nostalgico quando con la chitarra acustica intona Learning To Fly e Wild
Flowers, due momenti da magone complici le immagini che sullo schermo rievocano la sua
storia e quella band, ma
attento a non celebrarsi sfoderando un tiro che va dritto senza fronzoli su
quelle strade che hanno fatto il rock americano . Dai Creedence ai Byrds, da Dylan a
Springsteen, dal pop alla psichedelia compresa una sporca versione di I Should Have Know It, unico estratto di Mojo, una sorsata di
bourbon col grado alcolico dei Black Crowes.
E il Tom Petty di oggi ricorda un po' Chris
Robinson, la barba incolta, i capelli
lunghi, l'aria del vagabondo, la giacca militare da reduce del Vietnam
indossata all'inizio dello show. Un inizio all'insegna del più puro rock n'roll
con un titolo del primissimo album, Rockin'
Around (With You) come volesse ringraziare Londra e l'intera Inghilterra per
essere stato accettato all'inizio di carriera prima che nella madre patria. Le
cose cambieranno con Damn The Torpedoes ma grazie ad un
lancio promozionale che cavalcava l'ondata punk, Tom Petty riscosse il primo
seguito in Inghilterra, cosa che non ha dimenticato ringraziando più volte con
gentilezza e trasporto il pubblico di
Hyde Park (to be here on such beautiful
London summer is amazing) e dalla felicità che traspariva nelle
presentazioni delle canzoni, spesso umoristiche come nell'introduzione delle due
belle coriste e ballerine inglesi, le sorelle Charlie e Hattie Webb già protagoniste con Leonard Cohen. E' bastato l'intro chitarristico di Mary Jane's Last Dance, secondo brano
dello show, a scatenare i 65 mila di
Hyde Park con quella aria stracciona di un folk-rock da deserta terra di
nessuno losangelena, contrappuntata dall'armonica di Scott Thurston anche se poi è
stata You Don't Know How It Feels a
far capire che lo show sarebbe stato un gigantesco album della sua carriera
dove trovare pezzi famosi e tracce meno conosciute, come Forgotten Man unico estratto dal recente Hypnotic Eye e come
la semisconosciuta Walls della
colonna sonora di She's The one. Non so se
sia una questione di diritti d'autore o che altro ma gli album più setacciati
sono stati quelli a nome Tom Petty senza gli Heartbreakers ovvero Full
Moon Fever e Wildflowers, ue autentici capolavori. Dal primo sono arrivate
You Don't Know How It Feels, una stellare e rarefatta versione di It's Good To Be A King, come a Lucca uno
degli apici del concerto ma qui arricchito da una coda ancora più psichedelica
e devastante, la malinconica ballata Crawling
Back To You, l'acustica Wildflowers e la byrdsiana You Wreck Me con accordi
alla Chuck Berry. Dal secondo sono state
prese I Won't Back Down, la corale Yer So Bad con Petty all'acustica e Campbell con la Rickenbacker, l'evocativa Free Fallin' cantata da tutto Hyde Park ed una micidiale Runnin' Down A Dream dove gli Heartbreakers
hanno cancellato ogni dubbio, sono loro
la miglior band oggi in circolazione nel classic rock.
Benmont
Tench e Mike Campell sono due
mostri, il polistrumentista Scott
Thurston la riserva che ti fa vincere la Champions, Steve Ferrone l'orologiaio della congrega, le due coriste uno
spettacolo di semplicità ed erotismo senza ricorrere a banali esibizioni di
nudità e lingerie. E Tom il rocker che
non fa omelie esistenziali o distribuisce messaggi universali se non quello di regalarti
due ore di paradiso senza preghiere e fanatismi. Attraverso uno spettacolo
superbo dove Refugee suona intatta
come una volta, Don't Come Around Here No
More vale più di venti anni di
brit-pop psichedelico e American
Girl è ancora lì fresca e luminosa come quella ragazza che
incontrammo a ventanni. Tutto ciò incorniciato da una coreografia di immagini,
luci, disegni, ritagli di giornali e dischi, foto di chi c'è e chi c'era,
strade, macchine e motel, flash
stroboscobici e raffinatezze optical, rigorosità geometriche ed esplosioni di
colori, una coreografia elegante e seducente ma di straordinario impatto visivo,
perfettamente coordinata con la musica. Tante emozioni ed una musica che appaga
in modo totale. Sarà difficile per me
recensire il prossimo concerto perché Tom Petty and The Heartbreakers ad Hyde
Park 2017 hanno rasentato la perfezione.
MAURO ZAMBELLINI
LUGLIO 2017