Una
produzione discografica iniziata nel 1976, ventitre dischi in studio e diverse
antologie, altri musicisti avrebbero inondato la propria discografia di live ma
Mellencamp si è sempre rifiutato di assecondare la logica di inscatolare in un
box l'esibizione di una sera, reputando impossibile catturare quello che uno fa
sul palco. Difatti di live ufficiali John Mellencamp ne contava fino ad ieri
solo due, quel Live at Town Hall con cui nel luglio del 2008 portò in scena Trouble
No More salvo aggiungervi la cover di Highway 61 Revisited e i suoi classici Small Town, Pink Houses e Paper
In Fire, e un mini CD del 2009 con otto titoli di Life Death Love and Freedom. Purtroppo
manca nell'ufficialità una degna testimonianza live degli anni ottanta, il suo
periodo più selvaggiamente rock, e per ovviare bisogna ricorrere a qualche
bootleg, chi scrive consiglia un live da Bloomington nel 1984 e uno da Boston
nel tour americano del 1989. E' quindi benvenuto Plain Spoken cronaca di
un concerto tenuto il 25 ottobre 2016 a Chicago nel corso del tour omonimo,
disponibile nei plurimi formati CD, DVD e Blue-Ray. La serata è di quelle
eleganti, teatro pieno di belle signore accomodate ai tavolini con tanto di
bicchiere di vino davanti, pubblico agè benestante e politicamente corretto,
luci soffuse e band vestita per l'occasione in nero, come ad una serata di
gala. Quanto sono lontani i tempi di little
bastard e del rollingstoniano Uh-Uh ma tutto si può dire tranne
che Mellencamp abbia abdicato. Non ha perso il suo naturale caratteraccio, quando
venne in Italia se ne ebbe una dimostrazione e con gli anni è diventato sempre
più caustico, politico, giustamente polemico con chi amministra il suo paese,
tanto che a mio modo di pensare, visto le levigature folk guthriane del suo rock
e le sue canzoni non certo accomodanti, risulta essere il miglior Dylan
attualmente in circolazione. Please, non scannatemi, Dylan come autore di testi
e musica rimane insuperabile ed unico, ma quel modo scricchiolante, a volte
arruffato ed imperfetto di suonare e cantare, legato alle radici e a Woody
Guthrie, dove il folk incontra il rock secondo una strumentazione che fonde
l'elettrico con le chitarre acustiche e l'hillbilly del violino e della
fisarmonica, oggi ha in Mellencamp il suo interprete più godibile e maturo,
anche perché in un suo concerto le canzoni le si riconoscono, li si vivono per
quello che sono e sono state, trasmettono una emozione ancora viva non avendo
vergogna di portarsi appresso il passato facendoci ricordare i tempi in cui
abbiamo cominciato ad amare la musica del piccolo
bastardo. Anche il look di Mellencamp e della band ricorda
l'"orchestra" di Mr. Zimmerman, abiti sobri, scuri, camicie bianche,
una sorta di band del vecchio Testamento, come The Band nelle copertine dei loro primi dischi. E allora godiamoci
questo Mellencamp di Chicago che nel film originale regala frammenti della sua
storia con narrazioni sulla sua gioventù, i suoi inizi musicali,
i suoi rapporti con la famiglia e col music business, qualche frecciata
politica. Più che un concerto un documentario pur essendo la musica e
l'esibizione al centro del progetto. Un documento ed un disco molto belli,
esplicativi del cammino fatto da Mellencamp, uno a cui l'età avrà probabilmente
tolto qualcosa della sua originaria spregiudicatezza rock ma l'ha arricchito di
profondità, realismo, indipendenza di vedute, coerenza, coraggio politico.
Tanto di cappello, tanto più che questa sua maturità si accompagna ad una
musica evocativa in cui tutte le espressioni della musica americana sono
rappresentate. Da quella folk declinata secondo lo stile da ballata rock del songwriter americano classico, e tutta
la prima parte ne è portavoce, dai due titoli con cui inizia lo show, LawlessTimes e Troubled Man, unici estratti da Plain Spoken, a quella
intimista dello storyteller voce, chitarra acustica e pianoforte, la voce rotta
dall'emozione in The Longest Days ,
la raucedine waitsiana nella stravolta The
Full Catastrophe dove l'artista col solo microfono ed un fazzoletto in mano
sembra colto in una posa da chansonnier all'Olympia come fosse il DeVille della
copertina di Where The Angels Fear To Tread. Dal corale country di My Soul's Got Wings raggiunto sul palco
da Carlene Carter, e l'inaspettata Overture, un intreccio di musica
strumentale tra classica e Appalachi, a quella ruvidamente R&B con cui, sbarazzatosi della chitarra
acustica, Mellencamp si ricorda della
sua passione per James Brown e fa il soulman in Authority Song, in Pop Singer
e Check It Out, fino a quella
rock nelle dure e toste Rain On
Scarecrow, Pink Houses e Cherry Bomb.
Un Mellencamp completo, un concerto diviso in tre parti, la prima (comprendente anche Minutes To Memories, una versione di Smalltown che incrocia John Prine, T-Bone Burnett e Springsteen, una
Stones In My Passway virata Delta
blues dalla slide di Andy York), improntata sul suono dei suoi ultimi
album, con ampio sfoggio del violino di Miriam
Sturm, il contrabbasso di John Gunnell, la fisarmonica e le tastiere di Troye Kinnett, un intermezzo centrale
acustico ed un finale rock dove Gunnell
imbraccia il basso elettrico, Dane Clark
picchia con più convinzione e Mike
Wanchic e Andy York salgono in cattedra con le loro chitarre.
Serata
elegante ma che musica ragazzi.
MAURO ZAMBELLINI MAGGIO 2018