Le zanzare
non hanno potuto far nulla per offuscare lunedì 22 luglio lo splendido concerto
di Jonathan Wilson, colui che molti indicano essere il depositario del nuovo
sound del Laurel Canyon di Los Angeles, nello suggestivo scenario post-industriale
del Carroponte di Sesto San Giovanni. Con una all american band costituita da due californiani, un texano ed uno
della Florida (Omar Cowen, Richard Gowen,Jason Broger, Dan Horne questi i loro
nomi), Wilson ha messo in mostra il suo disco Gentle Spirit, uscito due
anni fa e ormai sedimentato. Fin dalle prime battute quel disco ha
fornito materiale al concerto, e non poteva essere diversamente visto la
magrezza del repertorio di Wilson dopo la parentesi coi Muscadine, uno show di
chiara ispirazione seventies, con poche luci e molti suoni vintage, sviluppatosi
progressivamente tra atmosfere dilatate ed oniriche, visioni psichedeliche,
ballate di stile west-coast, acidi colpi di rock lisergico, chitarre
smaglianti, due ore di musica suonata con grande concentrazione che ha mandato
in estasi il discreto pubblico accorso a salutare uno degli act più freschi e genuini
del nuovo rock americano. Capelli lunghi sulle spalle, barba incolta, t-shirt
con disegni tie-dye, magro, alto, Wilson
sembra preso di sana pianta da una comune hippie di San Francisco del 1972 o da
una wood cabin del Laurel Canyon di quegli anni, il ragazzo della porta accanto
di amici ben più famosi come Joni Mitchell, Neil Young, Steve Stills, Dave
Crosby, Jackson Browne, stesso aplomb calmo e pacifico, stessa mente persa in
chissà quali sogni e pensieri, stessa gentilezza nel ringraziare il pubblico e rimanere
dispiaciuto per non avere avuto la possibilità di suonare più a lungo visto i
divieti delle autorità milanesi. Ridicoli, se si pensa che il concerto è in una
zona di industrie e ipermercati chiusi la sera, lontano da case abitate. Così
il concerto termina per forza di cose a mezzanotte quando è evidente che Wilson
e la band avrebbero potuto jammare felici e contenti ancora a lungo, perché la
piega che aveva preso il concerto era di quelle care alla mitologia del Matrix
o dell'Avalon Ballroom, con la band in orbita ed in sintonia col pubblico e le
canzoni che, travalicati i binari, si fondevano
nella jam. Ma siamo a Sesto San
Giovanni, la ex Stalingrado d'Italia e per di più nel 2013, tutta un'altra storia sebbene Jonathan
Wilson ci metta del suo per ricreare l'atmosfera di quella remota California e
riesca davvero con la sua voce diafana e la sua chitarra agra a ricreare il mood
fascinoso del Laurel Canyon scivolando su e giù per due ore nelle colline di un rock
californiano risorto. Anche i suoi compagni di ventura vestono e hanno le
sembianze degli hippie dell'era, camicie da flea market, jeans, capelli lunghi,
un bassista, un chitarrista ritmico, il batterista, fa eccezione il
tastierista, texano, che con la sua camicia anonima ed il suo taglio di capelli
da impiegato di banca pare uno scampolo di una band di electro-pop inglese
degli anni ottanta.
Iniziano senza fronzoli, la voce di Wilson non è un
miracolo ma aderisce bene al basso profilo che si sono dati, partono come il
disco omonimo con Gentle Spirit e poi
uno dietro l'altro sciorinano i titoli
più riusciti dell'album, l'eterea ed ariosa Desert
Raven contrassegnata da una Fender svolazzante e dagli arrangiamenti delle
tastiere, l'uggiosa e sonnolente Canyon
In The Rain dove non è difficile immaginare il respiro
di Could
You Remember Only My Name di Crosby, la lisergica Natural Rhapsody prossima ai
Pink Floyd di Dark Side of The Moon, Ballad
of the Pines esplicita di un modo inglese di trattare il folk con chitarre
acustiche ed un coreografico lavoro di
tastiere, un pezzo che fa venire in mente i Pentangle, fino agli episodi più
elettrici del set, quelli in cui risuona inequivocabile il gesto di Neil Young.
Wilson non copia, è personale, la sua band ha un suono distinto, le tastiere pensano
alla cornice dei brani e alle overture,
gli altri ci mettono corpo e sostanza, il leader graffia con la chitarra e
coccola con la voce. Woe Is Me si
muove lenta, sospesa nell'aria come il fumo della marjiuana, Valley of the Moon è desertica ed
evocativa, non sarebbe dispiaciuta al Neil Young di Zuma, il suo giro di
chitarra è già leggenda. Ballate, in
genere, che crescono lente e sornioni, si attaccano alla pelle ed entrano nel
corpo, dondolano e rotolano attorno ad
un tema che viene ripetuto e ripreso dal
riff di chitarra e dal refrain del leader, rispetto alle versioni originali dell'album
sono allungate, dilatate, jammate, sporcate da un più elevato tasso di
elettricità rock. La band è sicura nei
suoi svolazzi ariosi, il tastierista aggiunge rarefazioni esotiche , nel brano che dovrebbe
far parte del nuovo album in uscita a ottobre, c'è un'armonica che sa di
Springsteen ed una melodia che arriva dritta da Jackson Browne, in qualche
altro momento si sente il battito d'ala degli Eagles. Jonathan Wilson è nato
nella Nord Carolina e ha il phisique du role di Chris Robinson ma a tutti gli effetti è un figlio del Laurel
Canyon, il suo è il più fresco rock californiano oggi a disposizione. Anche dal
vivo non delude, ottimo concerto.