giovedì 28 luglio 2011
John Hiatt > Dirty Jeans And Mudslide Hymns
A poco più di un anno da The Open Road, un grande album, esce Dirty Jeans and Mudslide Hymns, titolo e foto di copertina bellissime, un lavoro che ricrea il mood del precedente disco anche se non arriva agli stessi livelli di eccellenza. John Hiatt è in fase creativa dal punto di vista delle canzoni e qui ce ne sono alcune davvero buone , specie quando si tratta di mettere sotto i riflettori quell’America profonda e piuttosto noir che sembra uscita da un romanzo di Jim Thompson e James Crumley, come capita di sentire in Damn This Town e nella bella Train To Birmingham ma qualcosa non funziona alla perfezione nel disco ed è una percezione sottile, difficile da definire, che viene fuori dopo ripetuti ascolti lasciando qualche dubbio. Perché le canzoni sono belle, la voce di Hiatt sempre più scura, più muddy, più emozionante e nessuno come lui sa cogliere con una strofa quel microcosmo d’America marginale popolato di miserie, balordi, tristezze ma eppure viva, vera, autentica e i suoni sono quelli che intrecciano il folk col rock, il country col blues in un rumore di strada che dondola il malessere di vivere dentro uno scenario gotico-sudista di jeans sporchi e inni di fango . Ma è l’ impercettibile imperfezione a lasciare perplessi, forse l’impressione di aver già ascoltato altre volte queste sue canzoni, come 'Til I Get My Lovin’ Back come Down Around My Place come Hold On For Your Love, quasi una replica di altri suoi titoli passati o forse, più probabilmente, la produzione di Kevin Shirley, uno che ha lavorato con Iron Maiden, Rush, Dream Theater, Joe Bonamassa, che toglie quella freschezza e immediatezza che contraddistingueva il precedente disco. Alcuni suoi arrangiamenti sono discutibili (Don’t Wanna Leave You Now con tanto di arrangiamenti orchestrali e When New York Had Her Heart Broke lavorata alla Lanois), come discutibile è il ridimensionamento del chitarrista Doug Lancio elemento decisivo nella resa rock di The Open Road. John Hiatt è comunque un cantante ed autore di classe e la classe non mente, eccovi servite quindi la pimpante I Love That Girl e la splendida All The Way Under una ballata tinta di country e di acustico con il raffinato lavoro di Lancio al mandolino ed un pregevole arrangiamento di fisarmonica. E poi ancora la rockata Detroit Made una sorta di risposta a Memphis On The Meantime , la bella Train To Birmingham pregna di umori sudisti, Adios California impreziosita dalla lap steel di Russ Pahl ed evocativa dei paesaggi del sud-ovest e l’acida e younghiana Down Around My Place con l’organo di Reese Wynans (Steve Ray Vaughan).
Come dire che di ragioni per acquistare Dirty Jeans and Mudslide Hymns ce ne è più di una anche se The Open Road aveva un altro tiro.
MAURO ZAMBELLINI
mercoledì 13 luglio 2011
Warren Haynes band a Genova, 11 luglio 2011
Ci voleva un grande concerto per smaltire la mia delusione per lo show di Mellencamp, e Warren Haynes ha oltrepassato qualsiasi aspettativa. Nella deliziosa cornice dell’Arena del Mare nel porto vecchio di Genova a poca distanza dall’Acquario con la lanterna sullo sfondo e gli enormi traghetti della Moby Line che sembravano infilarsi sul palco tanto erano vicini (ma le navi a contrario degli aerei non disturbano) Warren Haynes ha stupefatto le centinaio di presenti (una cifra ridicola per un colosso del genere, molto meno delle “esigue” ottocento prevendite per le quali il bulletto dell’Indiana ha annullato il concerto di Udine) con un set dove la musica è scivolata elegante, intensa, convincente rendendo indimenticabile una serata di mezz’estate. Uno show in cui Warren Haynes ha dato il meglio di sé come cantante e chitarrista e dove la band rigorosamente all blacks ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che quando bisogna mischiare groove, tecnica e anima i neri non sono secondi a nessuno. In scena è andato l’ultimo album di Warren Haynes, quel Man In Motion che ha spostato il baricentro della sua musica dal duro e arcigno free rock/blues dei Gov’t Mule ad un più rotondo e morbido soul/blues tinto di jazz governato dalla sua Gibson vintage color oro. Il suo è un nuovo Memphis Stax sound che nasce da Albert King e Steve Cropper e incamera rock, blues e jazz mentre la voce si erge superba per intensità, limpidezza, espressività. Da sempre Haynes è lodato come chitarrista ma è come cantante che oggi è diventato un colosso, entra nel cuore, strappa emozioni e arriva dove il suo maestro Gregg Allman gli ha insegnato.
Haynes è un mostro di bravura e talento, è un extraterrestre con la chitarra ed un cantante dall’ugola straziante che proprio nella sua nuova veste di Man In Motion trova massima espressione come soulman e come bluesman tanto da preferirlo in questa veste ai Gov’t Mule, senza naturalmente togliere nulla a quest’ultimi.
Haynes è un musicista in pace con sé stesso, gode a stare sul palco e suonare, ha l’atteggiamento del fan impegnato a deliziare sé stesso ed il suo pubblico, è instancabile, non molla un attimo, passa dall’elettrico all’acustico senza una pausa, accorda la chitarra mentre canta, si asciuga il sudore della fronte e poi riparte con un nuovo blues, non fa in tempo a concludere un pezzo che già inizia il seguente, è un uomo in movimento. Fermo sul palco come una statua è un monumento alla sacralità del rock, coinvolto in una missione dove la musica è la ragione della sua vita. In questo tour non ha portato i musicisti che lo hanno accompagnato nella registrazione di Man In Motion ad eccezione del sassofonista Ron Holloway, bravissimo nel soffiare un mix di be bop newyorchese e di shout alla Arnett Cobb e King Curtis sopra un groove memphisiano assolutamente irresistibile creato dalla coppia Terence Higgins, un batterista elegante e vivace, mai sopra le righe e Ron Johnson, il piccolo bassista con barba e cappello che sembra uno che organizza combattimenti di galli in qualche localaccio di New Orleans ed invece è un maestro di efficacia, tempismo, precisione, essenzialità. Un mago delle quattro corde. Completano la band il Booker T. Jones della situazione ovvero il tastierista Nigel Hall ed una cantante (Ruthie Foster) che fa poco ma basta e avanza. Due ore e mezzo di show senza break e cadute di tensioni, una grande dimostrazione di professionalità, feeling, amore e conoscenza. Passano uno dopo l’altro i brani del nuovo disco : lo splendido up-tempo di River’s Gonna Rise, appassionata, romantica, il funky grasso di Sick of My Shadow, l’eco Otis Redding di Your Wildest Dreams, spettacolare soul da brividi alla schiena, la sincopata On A Real Lonely Night, il Delta rivisitato alla Haynes di Hattiesburg Hustle , la jazzata A Friend To You dove il sassofonista mostra tutta la sua sapienza in termini di contaminazioni. Poi il palco si spoglia, rimane solo Warren con la chitarra acustica. La sua voce fende la notte, l’aria frizzante del mare si carica di magia, anche la lanterna si commuove, prima con una versione da pelle d’oca di One degli U2, poi con Spanish Castle Magic di Hendrix ed infine con Gallow’s Pole dei Led Zeppelin. Quando riparte la band il pubblico si scioglie, Beautifully Broken dei Muli è una ballad da mille e una notte e Man In Motion la chiusura del cerchio prima dell’ acclamato encore di Soulshine con cui Warren ringrazia la wonderful crowd.
Caldo, umile, superbo. Semplicemente divino.
Un esempio per tutti.
MAURO ZAMBELLINI LUGLIO 2011
venerdì 8 luglio 2011
Black Crowes a Vigevano 7 luglio
L’unica cosa stonata della serata è la durata dello show, solo un’ora e mezza per i Black Crowes, una delle band che ha fatto delle jam la propria cifra stilistica e quindi abituata a ben altri tempi. C’era gente che era venuta da Brescia, da Portogruaro, dalla Toscana e dalle Marche sobbarcandosi km e soldi non per vedere il pur bravo Paolo Bonfanti che apre la serata alle 20.45 ma per vedere i Black Crowes che bisogna aspettarli fino alle 22.30 ben sapendo che a mezzanotte si chiuderanno i battenti.
Detto questo lo show dei Black Crowes è stato assolutamente grandioso, una esaltante definizione di rock n’roll quintessenziale con urla, assoli di chitarra, intro di pianoforte, basso che pulsa come un ossesso, lo strepitoso drumming di Steve Gorman, le fiondate R&B e le ballate che si involano nel cosmo con i suoni che si dilatano e ti accompagnano su altri pianeti senza bisogno di un ticket a base di stupefacenti. Pur nella sua brevità e nella quasi assoluta mancanza di brani del repertorio recente quello di Vigevano, prima tappa europea del Say Goodbye to the Bad Guys Tour è stato un doppio concentrato di eccitazione, energia, note sanguinolenti, intensità, urgenza espressiva come poche volte capita di assistere oggi. Magari negli anni settanta queste cose erano all’ordine del giorno, oggi sono una rarità e nessuno meglio dei Black Crowes interpreta il rock come allora, in modo selvaggio, viscerale e trasgressivo, intendendo per trasgressione non il gesto ad effetto, iconoclasta o blasfemo qualsivoglia ma il trasgredire le regole estetiche della musica mainstream che va di moda oggi ovvero poche luci sul palco, nessun fronzolo, solo sei musicisti abbigliati come il loro pubblico con jeans, t-shirt e camice da lavoro ma in grado con le loro voci e i loro strumenti di creare un pathos sonoro ed una febbre emotiva che sono un assalto ai sensi e al cuore dello spettatore che di botto viene spedito direttamente nel nirvana del vero sentire.
Con Luther Dickinson al posto di Marc Ford i Black Crowes hanno mutato il sound ma sono rimasti la più straordinaria rock n’roll band della terra da quando i Rolling Stones se ne sono andati da Nellcote. Li ho visti negli anni novanta con Marc Ford ed erano stati concerti memorabili (Basilea nel 95 come supporter degli Stones e poi Palasesto e Palavobis), li ho visti (deludenti) ai Magazzini Generali al tempo dell’incerto By Your Side ma con Luther è un’altra cosa, né meglio né peggio, solo diversi perché il suono, almeno quello che si è sentito la sera del 7 luglio a Vigevano, si è fatto più aggressivo, più diretto, più memphisiano sebbene Stones e Faces siano sempre dietro le note e quando la jam monta i Dead strizzano l’occhiolino. Luther Dickinson e Rich Robinson si dividono le chitarre e anche se Rich si è infilato in alcuni assoli di grande efficacia è proprio Luther che fa il gioco sporco, che alza il tiro, che alimenta la jam, che spinge in avanti la band in quella che in certi momenti, quando i brani si allungano e abbracciano il cosmo sembra una felice e feroce connessione tra Allman e Dead. In questi frangenti è Chris Robinson con la sua voce da disperato profeta del rock n’roll ad accendere le polveri, canta, balla, urla, poi si ritrae e lascia il campo ai due chitarristi, li guarda passarsi la palla in un devastante gioco al rimando che porta i Crowes nei meandri di un rock psichedelico che è delizia per chi scrive e immaginazione per la mente.
Davanti al pubblico ruvido che il rock n’roll si merita, freaks, bikers e rockers di tutte le età, le lunghe e jammate versioni di Wiser Time aperta alla grande dall’assolo di piano elettrico di Adam McDougal poi sviluppatasi come una formidabile jam di psycho soul/blues, di Poor Eliiah/ Tribute to Johnson omaggio alla carovana di Delaney and Bonnie con Chris Robinson che imbraccia la chitarra e fenderizza come il Clapton di quel tour e di Thorn In My Pride inizio lento e dondolante con Chris Robinson che predica la sua profana omelia rock/blues poi trasformatasi in una selvaggia danza con l’armonica che impazza sull’eco di Midnight Rambler hanno sparso nella magica notte blue del suggestivo Parco del Castello di Vigevano, finalmente una location degna di un evento musicale, le vibrazioni sante del grande rock che fa storia.
Ci voleva gente che viene dal sud degli Stati Uniti, dal triangolo d’oro del rock, del blues e del soul per risvegliare emozioni che parevano estinte. Ci voleva un cantante, Chris Robinson, che sembra Robinson Crusoe ma canta come Rod Stewart e si muove scodinzolando come lo Jagger dell’American Tour del ’72 incitando la folla e la band in un rito sciamanico che si apre con le fucilate di Sting Me e Jealous Again e si chiude con le frustate di Remedy altro lascito del loro antico repertorio a delinquere. In mezzo c’è una folgorante Soul Singing, la commovente invocazione di She Talks To Angels dove i Crowes si ricordano delle ballate, l’urlo memphisiano di Hard To Handle e due tracce del repertorio più recente, il vago country-soul di Good Morning Captain ripresa da Before The Frost e la melodica Oh Josephine da Warpaint.
Undici tracce in tutto per 90 minuti di musica, troppo poco per chi ha aspettato dieci anni per rivederli ma sufficienti per sentire di che musica è fatto il paradiso.
MAURO ZAMBELLINI LUGLIO 2011
fotografia di Renato Cifarelli ©
giovedì 7 luglio 2011
Arianna and The Turtle Blues
Non è vero che il giardino del vicino è sempre più verde. Tradotto in termini di rock non è sempre vero che gli artisti americani e inglesi siano migliori dei nostri. In generale l’educazione musicale e la tecnica posseduta dagli anglosassoni è migliore della nostra perché il rock n’roll, il folk, il country ed il blues fanno parte del loro patrimonio culturale e già in età scolare se non addirittura prima la dimestichezza con gli strumenti, in primis la chitarra, ed il cantare le canzoni vengono quasi naturale, sono pratica diffusa, spesso tramandata dalla famiglia e da un background in cui la musica popolare ricopre un ruolo fondamentale e non è vista come vecchiume. Ci sono però delle eccezioni come in tutte le cose, mi è capitato spesso di vedere e sentire alle nostre latitudini delle autentiche mediocrità incensate solo perché venivano da Oltreoceano e godevano di quel fascino “esotico” che accompagna chi proviene magari da una piatta landa del Texas o da un minuscolo paesino del Tennessee. Casi sporadici ma se dovessi mettere insieme tutti i cantautori o i bluesmen che mi hanno tonicizzato i muscoli mascellari attraverso gli sbadigli in quaranta anni di frequentazione di concerti, beh, la lista sarebbe abbastanza lunga.
Al contrario ci sono dei giovani delle nostre parti che si fanno un mazzo così e ci mettono impegno, talento e conoscenza ma solo perché non si chiamano Johnny, Greg o Emmylou sono visti con sufficienza se non addirittura con diffidenza e spesso sono boicottati dalle riviste di settore. Ad esempio c’è una ragazza dal cognome enologicamente nobile, Antinori, e dal nome classico, Arianna, che quando l’ho sentita per la prima volta in una piazzetta di Travedona, deep Varesotto, sono rimasto, io e i parecchi presenti, di stucco per come imitava e cantava Janis Joplin con un feeling ed uno swing da paura, mostrando amore, passione, disperazione ed onestà nelle sue interpretazioni, senza urlare, senza gigioneggiare, senza schiamazzare ma entrando nelle canzoni di Janis con un sentimento ed una bravura vocale commoventi. Non sono il solo ad essermi accorto della bravura di Arianna perché nel 2010 lei ha vinto il premio del concorso su scala mondiale CHEAP THRILLS-YOU INSPIRED by Janis Joplin indetta dalla famiglia di Janis come miglior interprete della canzone Mercedes Benz. Per tale ragione è stata scelta dalla band originale di Janis, i Big Brother and Holding Company come loro cantante nella tournee europea del 2011 le cui date italiane sono riportate sotto.
Dopo quell’occasionale incontro nella piazzetta di Travedono davanti alla birreria di Poldo, uno che serve la miglior birra alla spina del nord-ovest gestendo da solo un pub molto frequentato , ho rivisto Arianna con la sua Turtle Blues Band il 25 giugno all’ Ameno Festival Blues 2011 e le impressioni ricevute sono state ancora più positive della prima volta perché davanti ad una platea competente e numerosa Arianna ha saputo conquistarsi la “piazza” con un set caldo, sensuale, misurato e profondo, facendo brillare in una magica notte d’estate stelle come Move Over, Down On Me, Piece of My Heart, Turtle Blues, Call On Me, Woman Is Losers e Mercedes Benz, tutte del repertorio di Janis. Ma se la vicentina (nonostante il cognome toscano abita a Vicenza come i musicisti della sua giovane ed entusiasta band) si è costruita la sua personalità su Janis Joplin ( e questo può essere un limite quando vorrà passare da tribute singer a cantante a tutto tondo), il suo pedigree va al di là del suo mito e conosce una cultura e un gusto musicale ben più ampio che abbraccia versioni personali e originali di Black Magic Woman dei Fleetwood Mac, White Rabbit dei Jefferson Airplane (da brividi), Baby What You Want To Me di Etta James, Night Time Right Time dei CCR, Rock n’ Roll dei Led Zeppelin e Oh Darling e Helter Skelter dei Beatles. Mica bruscolini. Un miracolo per una giovane cantante che all’epoca di questi pezzi non era forse neanche nata. A mio modesto parere Arianna Antinori è una promessa canora che stride nel panorama italiano femminile del rock, con la sola Mercedes Benz (per non dire di una White Rabbit da far accapponare la pelle) lei si sbarazza di quattro anni (o quanti sono) di X Factor e talent show similari.
Se non credete alle mie parole andate a sentirvela dal vivo, con la sua simpatica ed in crescendo Turtle Blues Band oppure con i BIG BROTHER AND HOLDING COMPANY che saranno:
Venerdi 29 luglio SPIAGGE SOUL FESTIVAL RAVENNA
Sabato 30 luglio PERAROCK ARCUGNANO (VICENZA)
Lunedì 1 agosto TRASIMENO BLUES CITTA’ DELLA PIEVE
Martedì 2 agosto BLUES SOTTO LE STELLE (L’AQUILA)
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