C'è sempre un momento in cui scopri che vale la pena
di fare quello che fai. Intervistare Tom Petty era un'occasione imperdibile, e
ci siamo arrivati più sull'onda della passione che spinti dalla necessità di
scoprire e far conoscere il suo nuovo disco, che tra l'altro era Wildflowers.
Non avevamo avuto il tempo di ascoltarlo quel tanto che serve per scoprire il
capolavoro che è, ma avendo consumato tutti gli altri, pensavamo di avere dei
buoni motivi per discutere un po'. La nostra intervista era l'ultima della
lunga giornata di Tom Petty a Milano, poi doveva prendere un volo per chissà
dove. Ci presentammo con un valigia che conteneva tutti i suoi album (bootleg
compresi) e l'intenzione di rendere omaggio tanto al suo lavoro quanto al
nostro. Ci ricevette in un sala riservata di un albergo lussuoso, a Milano,
dove l'atmosfera ovattata e chic strideva con lo stile casual di Tom Petty,
jeans, camicia lasciata, scarpe da tennis. Gli addetti stampa di turno ci
avvisarono che avevamo mezz'ora, per cui partimmo senza tanti preamboli e lui
ci assecondò con grande gentilezza rispondendo a tutte le domande, facendoci
ripetere quelle che non riusciva a intercettare nel nostro traballante inglese,
sorridendo e ridendo spesso con noi finché allo scadere della mezz'ora non ci
parve di parlare la stessa lingua. Naturalmente, in quel preciso momento,
bussarono alla porta e ci ricordarono che il tempo era scaduto e noi, già
soddisfatti di aver potuto scambiare le nostre opinioni con Tom Petty,
decidemmo di non andare oltre, se non quei cinque minuti canonici per gli
autografi (siamo e restiamo fans e appassionati, prima di tutto) e per
salutarlo. Solo che Tom Petty si accorse della nostra valigia e ci chiese:
“Cosa avete lì dentro?”, e ovviamente eravamo un po' titubanti, ma cominciammo
a tirar fuori Damn The Torpedoes, Hard Promises, Long After
Dark, Southern Accents, ma arrivati ai bootleg eravamo un po'
titutanti. Invece Tom Petty li guardò con grande curiosità, controllando la
qualità del vinile, raccontandoci aneddoti dei concerti e degli Heartbreakers.
Ci guardammo stupiti, ma non sarebbe stata l'ultima volta, quel giorno.
Bussarono di nuovo alla porta, e questa volta era il road manager che,
rivolgendosi direttamente a Tom Petty, gli ricordava che avevano un aereo da
prendere. Lui senza distogliere la sua attenzione da noi e dai dischi rispose:
“Manda avanti pure i bagagli, io prendo un taxi e vi raggiungo. Devo parlare
ancora con questi ragazzi. Hanno comprato tutti i miei dischi”. Ci guardammo in
faccia esterefatti, sbalorditi da tanta disponibilità (era Tom Petty, non uno
qualsiasi) e non sapevamo più né cosa chiedere né cosa fare. Ma lui ci venne
incontro: “Forza, ragazzi, ditemi cos'altro volete sapere”. Ci ha chiamato
ragazzi, “boys”, per tutto il tempo, con l'umiltà e la nobiltà di un grande
uomo, prima ancora di un grandissimo artista, facendoci sentire parte di
qualcosa di grande, più grande di noi e della nostra intervista. Non lo
dimenticheremo mai.
In generale il suono delle
canzoni di Wildflowers
è simile a quello dei tuoi primi dischi.
Centra con la scelta di Rick Rubin come produttore?
Gran parte del disco è stato registrato dal vivo,
senza sintetizzatori, computer o latri marchingegni. Solo le chitarre ed il
suono d'insieme dei musicisti. Ci siamo concentrati soprattutto sulle canzoni e
credo di aver perso più tempo a leggere e rilegger i testi che a registrarli.
Volevo inserire molte canzoni perché un compact disc è decisamente costoso e,
una volta composte ne abbiamo registrate una ventina nel giro di pochi giorni.
In questo senso Wildflowers può essere considerato ugualmente
un disco degli Heartbreakers.
Tutte
le canzoni si riferiscono ad una sfera intima della tua personalità, penso a You Wreck Me o Don't Fade On Me o ancora Crawling
Back To You. Cosa è cambiato rispetto a Into
The Great Wide Open?
Non lo so, non mi siedo mai ad un tavolino a
studiare una lirica o a progettare una canzone. Seguo solo il mio istinto. A
volte mi piace raccontare delle storie attraverso dei personaggi, come in Two Gunslinger, è sempre interessante
ricostruire un passato, una memoria e cercare di svelarli nel corso della
canzone. Altrimenti mi piace anche essere più diretto. Wildflowers racconta e spiega i miei amici, la mia concezione
dell'amicizia, questo momento della vita positivo perché riesco ad apprezzare
le sfumature, la famiglia, i ragazzi, il mio cane come non era mai stato prima.
E' tutto ciò che mi sta intorno che è finito in Wildflowers, c'è Wake Up Time
che è molto esplicita in questo senso.
Oggi
songwriter come te, Bruce Springsteen, John Mellencamp parlano nei loro dischi
della vita domestica, degli aspetti famigliari, dei figli, come mai?
Perché siamo invecchiati, credo, e abbiamo una
vita molto domestica. Non credo di poter cantare tutte le fantasie di quando
ero teenager. Suppongo sia così.
Sarete
invecchiati ma il rock n'roll è rimasto lo stesso, no?
Beh, speriamo. In effetti, gli anni sono passati
dal punto di vista cronologico. Io mi sento ancora lo stesso e fortunatamente
continuo a sentire nello stesso modo il rock n'roll. Riesco ancora a suonarlo,
mi piace come quando ero ragazzo. Davvero è rimasto lo stesso. Certo, non sono
più incazzato come allora, ma questo è un altro discotrso.
Quindi
è possibile che tu scriva ancora una canzone come American Girl?
Oh, non sarebbe male. Nel tributo che le
underground bands hanno fatto (You Got
Lucky, A Tribute to Tom Petty,1994. n.d.r)con le mie canzoni c'è una
versione differente ma mi piace l'idea, quella della versione grungy del suono
Heartbreakers. Mi piace quel disco. E' strano e interessante. Quanto ad American Girl ricordo che non appena
uscì Roger McGuinn mi chiamò immediatamente. Era a Los Angeles in uno studio, e
quando lo raggiunsi ero proprio nervoso, emozionato. Lui mi guardò e con un
sorriso mi disse." ciao, ragazzo prendi quella chitarra e vieni qui a
suonare". Io la presi e suonai qualcosa di mostruoso perché ero così teso:
suonare con Roger Mc Guinn, allora! Lui disse, senti lo sai, no? ho sentito per
radio questa canzone, American Girl, e
pensavo fosse un mio pezzo, ma non mi ricordo di averlo mai inciso. Io non
sapevo più cosa dire. Pensavo di aver ferito uno dei miei eroi, qualcosa del
genere e d invece Roger disse, nessun problema. Volevo solo dirti che è buona e
la vorrei registrarla. Fu un grande successo per me e per tutti gli
Heartbreakers.
Cosa
hai provato quando Jonathan Demme ha usato American
Girl per il silenzio degli innocenti? La scena
in cui l'ha inserita è una delle più angoscianti del film.
Si, però è successo in modo divertente. Sono
sempre stato un fan di Jonathan Demme e stavo leggendo il libro di Thomas
Harris quando hanno chiamato il mio ufficio per avere American Girl. Visto che conoscevo e apprezzavo il suo lavoro non
ci sono stati problemi e tutto è filato liscio ed in fretta e così me ne sono
dimenticato. Quando poi è uscito il film, un pomeriggio sono andato e vederlo e
mi sono detto " ehi, ma quella è American
Girl, è la mia canzone". Mi è piaciuta come l'hanno inserita e mi è
piaciuta anche tutta la soundtrack in generale. Certo, non ho idea di cosa
possa significare American Girl in
quel preciso momento del film. Io quando l'ho scritta sicuramente non pensavo a
qualche serial killer, davvero! Suppongo serva piuttosto ad inquadrare quello
che andava per la maggiore nelle radio americane nella seconda metà degli anni
settanta. Sai, quando una canzone dura a così a lungo nel tempo è facile
trovare nuove interpretazioni, altri significati. E' un po' quello che succede
con tutti i classici del rock n'roll".
Quindi
potrebbe essere che Tom Petty sia una sorta di anello congiunzione tra leggende
del rock n'roll come Roy Orbison e Bob Dylan e l'atteggiamento delle nuove
generazioni?
Siamo comunque molto simili. Intendo dire non ho
alcun rapporto con tutte queste nuove pop metal band o come le vogliamo
chiamare. Credo che abbiano un'idea molto superficiale del rock n'roll: quella
di diventare delle star, di fare successo, di apparire in televisione e sulle
copertine dei giornali. Sento invece di avere molto in comune con molte giovani
band americane, gente a cui piace sperimentare, provare, cercare, trovare altri
canali, altri modi per esprimersi. Non mi interessa quale audience uno può
avere, se dovrà suonare blues o rap o grunge o qualsiasi altro tipo di musica
per essere passato alla radio. Io sono dell'idea che esistono soltanto due tipi
di musica: la buona musica e la pessima. Per me non c'è alcuna differenza tra i
R.E.M, Bob Dylan, Hank Williams e Johnny Cash.
Se
da un lato è abbastanza facile farci un'idea di cosa si possa considerare buona
musica, dall'altro non è altrettanto semplice decidere cosa non lo sia o non lo
sarà. Secondo te si tratta di una questione tecnica, di gusto personale o di
qualcos'altro?
Beh, io credo sia un fatto molto individuale.
Ognuno dovrebbe trovare gli strumenti per capire e per scegliere cosa sia buono
o meno. E' difficile da spiegare, è come cercare di definire bello o brutto un
quadro, un dipinto. Una persona potrebbe essere interessata alle figure
astratte, un'altra al surrealismo oppure a disegni più classici: comunque,
guardi il quadro e ti può piacere o meno. E' difficile da dire. Prendi Andy
Warhol, per esempio. Conosco gente che ne va pazza e altri che sostengono che
sia solo spazzatura. E' qualcosa di istintivo, personale. Comunque sono
d'accordo con voi, spesso è oiù facile riconoscere la buona musica.
Facciamo
un esempio per capirci:possiamo considerare buona musica quella che hanno fatto
i Sex Pistols?
Io credo di sì. Intendo dire, non è qualcosa di
cui andrei orgoglioso, ma mi piacciono parecchie canzoni dei Sex Pistols, anche
se sono altri i miei standard: Elvis, prima che andasse nell'esercito, era un
grande artista ed è una musica che continuo ad ascoltare. Poi Muddy Waters, gli
Animals, ma non vi posso raccontare tutta la mia collezione di dischi. Sono
sempre un grande fan ed un grande compratore ed il discorso potrebbe farsi
complicato. Per esempio, durante le session di Wildflowers Rick Rubin arrivava con il suo sacchetto di CD ed io
arrivavo con il mio. Poi cominciavamo: " ascolta questo, ascolta
quello", e via di questo passo.
Hai
citato nomi di songwriter country, vieni da Gainsville, Florida, che non è poi
così distante dalla Georgia dove è nato Gram Parsons. Pensi che la musica
country abbia influenzato il tuo modo di scrivere le canzoni?
Yeah, sono cresciuto con quel genere di sound, è
la musica che ascoltavano i miei genitori: George Jones, Tammy Wynette, tutta
la country music degli anni '50 e '60. La sto riscoprendo oggi perché non mi va
quella che va per la maggiore oggi, c'è poca gente che suona come allora. Si,
credo che sia stata un'influenza definitiva e non solo per me, ma anche per
tutta la band e per molti altri songwriter.
Le
melodie delle tue canzoni però sono un po' più eccentriche di quelle country.
Da questo punto di vista sembri essere stato ispirato da Beatles e Rolling
Stones?
Forse dai Beatles, perché sono stati una
grandissima influenza su di me. La prima volta che li vidi in televisione ho
pensato che nella vita avevo due possibilità: o fare il contadino o fare quello
che facevano loro. Poi quando ho cominciato a suonare, con le prime band, avevo
l'idea di unire quello che facevano Beatles e Rolling Stones con una base
orientata verso il folk. Comunque il mio intento è di essere il più onesto
possibile, voglio che i ragazzi possano leggere nella mia musica quello che mi
è sempre piaciuto, quelle sono le mie radici: i Beatles, gli Stones, Elvis,
Chuck Berry, i Byrds, Slim Harpo, i Beach Boys. Così possono scoprire tutti
questi personaggi, credo sia questa l'idea di fondo.
A
volte è difficile distinguere te dal lavoro degli Heartbreakers, in particolare
da Mike Campbell. Quanto è importante il suo apporto o quanto influenza la
stesura definitiva delle canzoni?
Nenache un po!Beh, qualcosa si. No, davvero
scherzi a parte, Michael Campbell è veramente un musicista brillante. Non ho
altre parole. Generalmente cominciamo col parlare delle parti di chitarra e,
devo dire la verità, tutto quello che ho imparato dello strumento è merito suo.
Poi il lavoro si evolve perché la sua presenza all'interno della band è
determinante. E' un punto di riferimento ed è uno che non mi hai mai mollato.
Non ditegli che ve l'ho detto io se non comincia a darsi delle arie, ma è un
grande musicista, sul serio.
Alla
fine del tour con Bob Dylan, Mike Campbell ha detto che a volte gli sembrava di
suonare qualcosa di caotico, a metà strada tra Van Morrison e gli Stooges?
Già. Suonare con Dylan è stata una grande scuola
per me, aldilà del fatto che è stato influenza ed ispirazione fin dagli anni
70. E'stata dura davvero. Abbiamo dovuto
imparare un sacco di canzoni ed era una grossa responsabilità guidare la band
nei suoi brani. Non è stato facile lavorare con Dylan perché fondamentalmente
lui è un folksinger e gli basta una chitarra e la voce, quindi era un po'
complicato infilare tutte le sue canzoni in un rock set come il nostro.. Lui è
abituato a suonare come gli va, non deve andare necessariamente a tempo con
qualcuno, può scegliere la tonalità che vuole, la successione dei pezzi senza
scaletta. Creargli un background musicale era complicato perché non si
riuscivano mai a stabilire delle regole e dei ruoli precisi. Era tutta una
comunicazione velocissima tra di noi: "è una canzone in Mi",
"cambia la tonalità", questo genere di messaggi. Per me è stato molto
interessante perché non avevo il peso di essere anche il fromtman. Guidavo gli
Hearbreakers e ogni sera era un po' come una partita di baseball, ci guardavamo
negli occhi e dovevamo capire cosa fare. Alla fine gli Heartbreakers sembrava
ragionassero con un solo cervello. E'stato un gran lavoro, davvero.
Parliamo
dei tuoi dischi, il nostro preferito è sempre stato Damn The Torpedoes. E' possibile considerarlo ancora oggi il tuo
disco migliore?
Il migliore in assoluto, non lo so. Sicuramente
uno dei migliori. Diciamo che è stato un punto alto della mia carriera, questo
sì.
E'
vero che inizialmente Hard Promises doveva
intitolarsi 7.98 per reazione al rincaro del costo dei dischi?
Si, quella è stata una dura battaglia contro
l'etichetta discografica. Il punto era che l'aumento del prezzo era
generalizzato a tutto il catalogo ma il primo titolo che sarebbe uscito con
quel prezzo era proprio Hard Promises. La
cifra era 8.98 dollari e per questo ho minacciato di intitolarlo 7.98 se fosse stato messo in circolazione con quel
prezzo. La mia ida ha funzionato e alla fine i discografici hanno ceduto,
almeno per quanto riguarda Hard Promises.
Gli altri poi, come si è visto, invece li hanno aumentati regolarmente. Il
costo dei dischi è un enorme problema. Il rock n'roll non è una musica di
elite, è la musica della gente comune. Quando faccio un disco penso di farlo
per tutti, non solo per chi può permetterselo.
Un
disco controverso è stato Southern
Accents. Quando è uscito ci è sembrato troppo sovraprodotto, oggi
riascoltato suona un po' meglio...
Si, è stato un esperimento: non mi interessa
rivoltare la solita terra e con Southern
Accents abbiamo cercato altre aree, altra terra. Abbiamo provato a fare
qualcosa di diverso, Dave Stewart è stato perfetto allo scopo. Lui è
completamente pazzo ma mi piaceva il suo modo di lavorare. C'era un po' di
psichedelia, non molta però. Solo per divertirsi.
Dal
vivo Don't Come Around Here Non More diventava
uno spettacolo a parte: c'erano le ombre che si rincorrevano sul palco, il
baule con tutti gli effetti e alla fine uscivi col simbolo della non violenza.
Che idea c'era dietro quella allegoria?
Solo divertimento. Forse, per tornare a ciò che si
diceva prima, per riprodurre un po' l'atmosfera psichedelica del video di Don't Come Around Here No More. Non che
ci fosse un gran background come idea. Però era molto divertente: i personaggi
che mi rincorrevano erano i tecnici del suono e ogni volta impazzivano perché
non sapevano mai da dove sarei uscito. Era un modo per spezzare il ritmo, la
tensione del concerto.
In
Southern Accents c'è questa canzone, Spike, che ci ricorda lo stile di J.J
Cale...
Oh, amo J.J Cale, è uno dei miei eroi. Il problema
di quella canzone è che è stata incompresa dalla maggior parte delle persone.
Tutti pensavano che Spike fossi io, invece è solo un personaggio, non c'è nulla
di personale.
Il
live Pack Up The Plantation è stato
un po' una delusione, è chiara la tua passione per il soul ed il r&b ma i
fiati in quel disco centravano poco col suono degli Heartbreakers..
Sono perfettamente d'accordo. Non lo suono mai
quel disco. E'stata una registrazione sfortunata, davvero. Ci sono dei bootleg
migliori. Credo che ci sia in circolazione anche qualcosa della mia prima band,
i Mudcrutch.
Ad
ogni modo gli Heartbreakers sono sempre stati una grande live band. Pensi che i
loro suono abbia influenzato quei gruppi che stanno venendo allo scoperto come
Counting Crows, Billy Pilgrim, Jayhawks, Hootie and The Blowfish?
Beh, sarei molto contento se gli Heartbreakers
fossero stati motivo di ispirazione per qualcuno perché c'è così tanta gente
che ha influenzato me che mi sembra naturale passare il testimone. E' una
particolarità del rock n'roll questa.
Quanto
conta per un songwriter avere una buona band?
Beh, io considero un lusso avere una band. E' un
grande stimolo perché se hai un gruppo lo devi anche portare in giro ed in
tutti questi anni di lavoro siamo diventati come fratelli. C'è una dinamica
molto importante perché ognuno rispetta l'essenza della band e si sta insieme
perché si ama la stessa musica, si hanno gli stessi obiettivi. Il lato strano
di tutta la faccenda è che dopo diciotto anni che si vive nelle stesse stanze,
nello stesso aereo, nello stesso bus, gomito a gomito, l'esperienza può
diventare quasi noiosa e le dinamiche non sono più quelle di una rock n'roll
band ma quelle di una famiglia. Comunque gli Heartbreakers sono una buona band.
Bill
Flanagan ha detto che al di là del successo o dei risultati ogni rock n'roll
band ha qualcosa di speciale. Sei d'accordo?
Oh, Bill è sempre brillante ed è un nostro amico e
ha sempre delle idee molto interessanti, ma non so cosa volesse realmente dire
con quella frase. Certo, una band è una fonte di energia ma quello che è più
importante è la musica. Il rock n'roll ha salvato la mia vita, si dice così,
no? E' questo il punto. suonare rock n'roll resta comunque un lavoro di gran
lunga molto più interessanate di ogni altro. Credo di essere stato fortunato in
questo senso.
In
Let Me Up (I've Had Enough) c'era
quella canzone, Runaway Train , che
ha lo stesso titolo del film di Konchalowsky (A trenta secondi dalla fine
n.d.r) , c'è qualche attinenza?
Oh, ho presente il film ma la canzone è tutta
un'altra storia, è un modo di dire tutto americano. Ad ogni modo, mi piace Let Me Up , penso sia un buon disco,
infatti negli Usa non ha venduto per niente.
Ci
sembra che il grosso salto di qualità come songwriter sia venuto con Full Moon Fever , un album in cui hai
cercato di scrivere le canzoni in un modo un po' diverso dando più spazio alle
chitarre acustiche, per esempio..
Si, Full
Moon Fever è stao registrato in un modo molto veloce, alla fine del tour
con Dylan. Jeff Lynne ha avuto un ruolo molto importante nella lavorazione del
disco ma quello che ha determinato il risultato finale è stato che le idee
arrivavano così, in fretta. Cosa molto rara, riuscivo ad essere molto prolifico
e Full Moon Fever è stato un album
che è stato registrato con molta facilità. Forse anche per questo si può
ascoltare altrettanto facilmente.
Il
capitolo successivo, per certi versi simile, è Into The Great Wide Open, un grosso successo
Si, ho scritto quell'album durante la guerra del
Golfo, ci sono molte idee riguardo la fine degli anni ottanta e ciò che abbiamo
perso. Ho cercato di scrivere di soggetti che in qualche modo avessero a che
fare, anche indirettamente, con la guerra, con il mondo delle corporazioni e
tutto quel genere di cose. Credo di aver scritto per Into The Great Wide Open le mie liriche migliori. Mi è piaciuto
molto usare metafore come Learning To Fly
o Two Gunslingers, per esempio.
Si, Into The Great Wide Open è uno
dei miei dischi preferiti.
Hai
visto o sentito qualche songwriter di recente che possa continuare il lavoro
fatto da te, da Mellencamp, da Springsteen?
Beh, al momento mi sembra di no e spero che
continui ancora così perché il mio cervello funziona ancora e vorrei continuare
a scrivere canzoni. Insomma, quando ho compiuto quaranta anni mi sentivo
triste, credevo di essere diventato vecchio, questo genere di cose. Poi sono
arrivati i miei amici, abbiamo fatto una bella festa e tutto è passato. Mi
sento ancora in corsa, non vedo motivi per cui dovrei smettere o cambiare
lavoro. Non lo so, c'è questo ragazzo che si chiama Billy Kong, mi piace e mi
piacciono anche parecchie delle nuove band. Hanno un approccio diretto, molto
naturale. Onesto. Di songwriter poi ce n'è uno per ogni strada, la differenza è
il lavoro che ci metti: scrivere una canzone non è un happening. D'accordo, a
volte è un divertimento andare in tour o registrare con gli amici, ma per
quello devi averle, le canzoni. E scrivere è come pescare:ogni tanto riesci a
prendere qualcosa, altrimenti rimani con il tuo sacchetto vuoto. E' un lavoro
complicato. Posso immaginare come facciano Bruce o Mellencamp, ci lavorano
sodo. Capita che le canzoni vengano più naturalmente: per Wildflowers è stata la prima volta nella mia vita che le canzoni
siano uscite così, tutte insieme, parole e musiche, in pochi giorni. Tanto è
vero che quando sono arrivato con il demotape in studio, Mike Campbell le ha
sentite e mi ha chiesto, "chi è questo tizio?" Non so come sia potuto
succedere, forse è perché ho raggiunto uno speciale stadio di maturità, non lo
so. So solo che le canzoni di Wildflowers
partivano con un verso e poi arrivava il chorus, un ponte, il middle eight
ed un finale. Una dopo l'altra. Scrivere canzoni è strano. A volte capita di
uscire per strada, così per farsi un giro, e tornare con un paio di pezzi già
finiti. Altre invece è tutto più freddo: puoi stare a suonare il piano o la
chitarra tutto il giorno e non ne viene fuori nulla. E comunque sia che si
tratti di tre minuti o tre giorni o tre mesi è sempre con un duro lavoro che si
arriva alla fine di una grande canzone.
MARCO
DENTI e MAURO ZAMBELLINI
questa intervista è apparsa originariamente sul numero 203 del Mucchio Selvaggio, dicembre 1994