Esistono ancora i dischi di rock n'roll ? Beh, a dire il
vero si fa sempre più fatica a trovarne, visto che il genere si è distribuito
in cento diramazioni e sono le etichette a tenere banco, da americana all'alt-country, dalle jam band allo stoner rock, dall'indie-rock al nuovo hard-rock,
tanto per buttarne lì qualcuna, mentre i dischi che propongono il vecchio
verbo, con tutte le contaminazioni possibili ma sempre portatori di quel blend fatto
di ganci elettrici, solide ritmiche, riff serrati e ballate che spezzano il
cuore, sono sempre più rari. Certo, per chi scrive, è rock n'roll il magnifico
doppio album The Ghosts of Highway 20 di Lucinda
Williams nonostante siano le ballate dolorose e le atmosfere malinconiche e
rarefatte a costituirne l'ossatura, e non azzardatevi a nominate il termine americana alla Williams, vi guarderà in
cagnesco, e così lo è anche un altro disco di ballate, ovvero A
Cure For Loneliness di Peter Wolf perché il rock n'roll
non è solo velocità, eccitazione e assoli, ma pure riflessione, nostalgia, sentimento.
Non escluderei nemmeno Let
Me Get By della Tedeschi-Trucks
Band tra le cose rock, pur col suo melting di soul, blues, jazz e southern
music. Oltre a questi titoli, usciti ormai da qualche mese, la produzione di un
certo tipo di rock n' roll più o meno
classico latita sommersa dai tanti songwriters, anche nazionali, in
circolazione e dalle derive acustiche o pseudo americana che hanno finito per saturare un genere.
Un bel sospiro di
sollievo l'ho avuto con il recente Mudcrutch 2 con cui Tom
Petty, uno dei pochi rimasti a masticare il vecchio verbo con la classe dei
grandi, mostra di essere sempre sul
pezzo. Qui non è con gli Heartbreakers
ma con la sua band delle origini, i Mudcrutch, ovvero la chitarra in mano a Mike
Campbell e Tom Leadon, lui al basso, Benmont Tench con organo, piano e
mellotron (uno strumento che sembra ritornato di moda), Randall Marsh alla
batteria. Nel 2008 era uscito il loro disco-reunion suscitando molto entusiasmo
per la sua vena roots mista a qualche episodio vagamente psichedelico (Crystal River) e delle cover da leccarsi
le dita ovvero il traditional folk Shady
Grove virato rock n'roll, il pimpante standard country-rock Six Days on The Road ed una irresistibile resa di Lover of The Bayou dei Byrds screziata
di psichedelia. In Mudcrutch 2 le canzoni
sono al contrario tutte firmate da Petty e dai suoi soci, il disco è piacevole,
estremamente piacevole nella sua alternanza di rock ariosi e autostradali,
ballate dolenti e qualche fiammata country-rock ( come in The Other Side Of The Mountain) ma, a mio modesto parere, non è pari al
precedente. A dirla tutta sembra più un disco degli Heartbreakers che dei
Mudcrutch, la voce di Tom Petty ogni tanto si mischia a quella di Leadon e
Tench ma è lui che spicca in prima linea, d'accordo che il leader fa a meno
della sua Rickenbaker e lavora di basso elettrico ma alla fine l'impressione è
quella di avere tra le mani un nuovo disco degli Heartbreakers, meno jammato di
Mojo e meno mainstream di Hypnotic Eye, ma sempre posizionato
sui clichè del sound degli spezzacuori. Mancano
quegli sprazzi di rock ruvido e provinciale dei Mudcrutch quando si facevano
largo in quel di Gainsville, Florida, tra alligatori, country-rock, southern
rock ed echi di rock californiano, aspetto che invece non difettava nel
"meno perfetto" ma più ruspante disco del 2008. Poco male, è sempre
del buon rock n'roll quello che esce da Mudcrutch 2 e di questi tempi non guasta.
Chi non
sembra esaurirsi mai nel suo rockare la città è Willie Nile, un artista che è diventato una sorta di personaggio da
fumetto in bianco e nero ambientato nelle strade di New York (la grafica del
suo nuovo disco è eloquente a proposito) col suo look da old rockers never die, col suo tono gagliardo e barricadiero, con
la sua consapevolezza di essere passatista ma senza retorica, col suo "essere"
tra storie epiche e di disperazione, occupando un posto di merito nella genealogia
rock della città, tra Dion, Lou Reed, le New York Dolls, i Ramones e Bruce Springsteen. Il suo World War Willie a parere di chi scrive, è forse il suo
miglior lavoro da Streets Of New York ovvero dal 2006, un concentrato di
serrato e nervoso rock chitarristico con quella vena romantica che gli è
propria e quelle aperture melodiche che ti portano in fretta a cantare le sue
canzoni. Se Forever Wild in apertura
non appare solo il semplice titolo di una canzone ma l'inossidabile filosofia
che muove il simpatico ed esuberante rocker di Buffalo trapiantato nella Grande
Mela, altre canzoni come Let's All Come
Together, Grandpa Rocks, Runaway Girl, Hell Yeah, Trouble Down In Diamond Town proprio
con quei titoli esplicitano l'intero suo mondo musicale e la parata dei suoi
miti, Clash compresi, oltre a sintetizzare un personale percorso discografico,
citando nei riff, nelle melodie, negli sgarri elettrici e nelle delicatezze
acustiche, album come Willie Nile, Golden Down, Streets of N.Y, House Of A
Thousand Guitars e American Ride.
World
War Willie è un
disco vivo e pulsante, pieno di entusiasmo e di quel rock urbano d'autore che un
tempo faceva proseliti e oggi è relegato nelle backstreets, un disco che in barba alla modernità si chiude con una
emozionante Sweet Jane, un modo per ricordare che l'ultimo santo
rimasto in città è proprio lui, il piccolo Willie Nile.
Dall'altra costa americana arriva The Record Company, un terzetto formato dal chitarrista, cantante e
armonicista Chris Vos, dal bassista e cantante Alex Stiff e dal batterista e
pianista Marc Cazorla. Sono di casa a Los Angeles e sono riusciti a
sopravvivere alla dittatura hip-hop, col loro unico album (prima c'erano stati
alcuni Ep) intitolato Give It Back To You dimostrano che ci sono giovani resistenti che ancora
vanno in fibrillazione per Stooges e Rolling Stones, John Lee Hooker e Hound
Dog Taylor. Possiedono l'immaturità dei coraggiosi ma sono freschi da morire,
frullano i grandi vecchi con un'attitudine da teppistelli urbani pronti a far
saltare in aria il club sotto casa, hanno
verve e masticano alla maniera di un chewinggum un rock n'roll tinto di
beat e di blues. Sono la risposta americana agli Strypes, ritmica secca e concisa,
quasi da Violent Femmes, l'armonica di Chris Vos ci mette una generosa dose di
blues e di Yardbirds, la sua voce è credibile anche senza essere roca e
disperata, la chitarra morde e lascia il segno senza essere un miracolo di
tecnica. In qualche traccia, ad esempio On
The Move, c'è parvenza di Black Keys prima maniera ma per ora La compagnia del disco non pare
interessata a diventare trendy, anche la copertina e la grafica di Give
It Back To You rimandano agli anni del vinile e del rock pionieristico,
quando il blues costituiva per i giovani metropolitani una preziosa fonte di
ispirazione. Senza eccedere nei volumi ma badando a non disperdere nulla della loro
freschezza, i tre suonano con quella ingenuità e quel contagioso spirito da
esordienti che spesso rendono una squadra di serie B più divertente di tante
squadre di zona Champions. Sentire il groove incalzante di Feels So Good, l'ipnotico boogie di Turn Me Loose, il drive semiacustico di Give It Back To You con cui cantano di una California scivolata a
Detroit, di This Crooked City un
ballata evocativa che sale come fosse Atlantis
di Donovan e di In The Mood For You dove Stones e John Lee Hooker sono mixati
con quella spregiudicatezza che anni fa apparteneva ai bravi ma fugaci Red
Devils. Un finale selvaggio per un disco che è una boccata di aria fresca.
In tre
sono anche Moreland & Arbuckle e
Simo. Il trio del Kansas arriva al sesto disco, il chitarrista Aaron Moreland,
l'armonicista e cantante Dustin Arbuckle ed il batterista Kendall Newby
ripropongono invariata la loro mistura di gritty
blues and roots rock from the heartland, graffiante sound di straordinaria
compattezza che coniuga l' asciutto gesto bluesy di una trio da juke joint con
gli sporchi riff di una garage band. Contemporaneamente tradizionali e moderni,
Moreland & Arbuckle sono strutturati come un trio senza basso sull'esempio del
maestro del genere Hound Dog Taylor, posseggono
l'energia dei primissimi Black Keys e suonano un solido e serrato
rock/blues con tanto di aperture roots e
pause melodiche da ballata heartland.
La loro lenta ma costante evoluzione che li ha portati ad una delle etichette
storiche del blues, la Alligator, non ha scalfito la natura di band underground
ad alto numero di ottani, che non sfigura in un festival blues come in un club
di rock alternativo. Non sono indie per intenderci ma posseggono lo spirito ed
il basso profilo di chi si è fatto la gavetta sulla strada lontano dagli uffici
discografici, nei concerti, nei festival, lavorando sodo e assimilando i
diversi linguaggi del blues, dal North Hills Mississippi Blues al Delta Blues,
dal blues rurale a quello urbano di Hound Dog Taylor, per poi riversarli in un sudato
rock provinciale. Dopo 7
Cities, sorta di concept album
basato sulle imprese del conquistatore spagnolo Francisco Vasquez Coronado nel
16mo secolo in America, la loro
discografia si allunga con Promised Land or Bust , la terra promessa o la rovina, un vero e arzillo B-record fatto di
rabbia e grazia, tensione e sarcasmo ( in
When The Lights Are Burning Low attenti a quella donna che ha bad intentions behind bedroom eyes), una
escursione simil-jazz (Why'D She Have To
Go ) e la potente rivisitazione di I'
m a King Bee di Slim Harpo. Dal Kansas, cuore e muscoli, il loro disco
migliore
.
Una
bella storia rock è quella di J.D Simo,
americano di Chicago che all'età di dieci anni è già in grado di suonare la
chitarra nei bar della città. Nato nel
1985, a quindici anni, abbandonata la scuola si trasferisce a Phoenix, Arizona
e con una prima band incide un Ep dal vivo che vende cinquemila copie. Vive per sei anni sulla strada dormendo in un van, poi arriva a
Nashville e trova occupazione prima come chitarrista nella Don Kelley Band e in
seguito come sessionman negli studi della Music City. L'incontro con il
batterista Adam Abrashoff ed il bassista Frank Swart lo convincono a formare un
power trio sull'esempio di quelli in auge negli anni settanta. D'altra parte è
cresciuto con una dieta di British Blues e blues del Delta anche se la
folgorazione è avvenuta quando a soli cinque anni ha visto uno special sul
comeback del '68 di Elvis Presley. La sua vita è un susseguirsi di avvenimenti
a cascata, prima in giro a suonare con la sua band imitando i bluesmen della
Chess, poi la scoperta di Steve Cropper e del rhythm and blues, infine
l'assestamento del trio con Elan Shapiro al posto di Swart. Sudano, mangiano da
schifo e si fanno le ossa nei bar della provincia americana e nei festival,
partecipano al Mountain Jam e al Bonnaroo,
ci mettono l'anima e il sangue in quello che suonano e acquisiscono una
sinergia perfetta, fino a pubblicare all'inizio del 2012 un disco a nome Simo. I tre sono tutt'uno, J.D
rifiuta di essere il leader ma il nome
del trio è il suo, l'amalgama è grandiosa anche se ognuno è libero di
improvvisare e di aggiungere di suo ad un sulfureo concentrato di rock/blues
psichedelico con deviazioni hard. Quando
è il momento di pensare al nuovo disco succede il fatto che cambia la storia, i
tre hanno pronto un po' di canzoni e scelgono di registrarle nientemeno che
alla Big House, la casa-comune in cui vissero gli Allman tra la fine dei
sessanta e l'inizio dei settanta a Macon in Georgia. E per l'occasione J.D
Simo imbraccia la storica Les Paul del
1957 di Duane Allman, un onore che condivide solo con Warren Haynes, Derek
Trucks e Neels Cline di Wilco. La casa e la chitarra infondono una particolare chimica
alle registrazioni, il piano originario di un album già in cantiere salta in
aria, in meno di 48 ore Simo registrano
dodici nuovi pezzi in quelle session. Il progetto iniziale viene accantonato e
con l'aiuto dell'ingegnere Nick Worley alla consolle la band suona come fosse
dal vivo una vulcanica miscela di rock-blues senza darsi misure e limiti. Il
risultato è un disco potentissimo e di carattere, magari derivativo ma
ugualmente esplosivo, che si colloca tra gli Allman Brothers (basta l'iniziale Stranger Blues per ricordare One Way Out e poi Ain'
t Doin' Nothin' è una jam
strumentale che pare estratta da Whipping
Post dove J.D Simo si immola in una estenuante imitazione di Duane Allman),
i Led Zeppelin (Let Love Show The Way),
i Free e i Gov't Mule, pur con una spalmatura
celtica in un brano. Let
Love Show The Way,
questo il titolo dell' album, è come la copertina, colorato, ingenuo,
psichedelico, esuberante, un disco che non appartiene a questa epoca perché
selvaggio, libero, vibrante, come lo erano le registrazione tra i sixties e i
seventies prima che le case discografiche prendessero in mano la situazione imponendo
agli artisti i loro diktat commerciali. Qualcosa di loro ricorda gli altrettanto
spontanei e bravi svedesi Blues Pills ma qui il sound è decisamente americano,
compreso qualche affondo southern rock ed un paio di episodi acustici di ottimo
livello, il calmo e pastorale
country-blues di Today, I'M Here e la dolce cover di Please Be With Me di Eric Clapton. Per chi fosse interessato o semplicemente
curioso, sappia che Simo apriranno il concerto dei Blackberry Smoke al
Carroponte di Sesto San Giovanni il 29 giugno.
Calda
merce southern è rimasta in Flux il
terzo disco di Rich Robinson, il
quale sembra essere il vero erede del sound dei Black Crowes, più che i viaggi
cosmici del fratello Chris, i cui Brotherhood viaggiano a duemila anni luce
lontano da casa. Rich Robinson non ha tagliato i ponti con il rock dei Corvi
Neri anche se la voce non è certo quella da "predicatore delirante
soul" del fratello e come rivela il suo nuovo disco anche lui si prende la
licenza di divagare, spaziando tra gli aromi del rock sudista e reminiscenze di
Stones, aperture West-Coast e qualche fraseggio folk, sprazzi di psichedelia e
tentativi prog.
Un disco, Flux, che conferma l'amore del meno
famoso dei fratelli Robinson al rock anni settanta, pur adattandolo ai tempi
odierni e rendendolo fruibile per una nuova schiera di ascoltatori. Se come
cantante Rich Robinson non è certo memorabile, come chitarrista ha numeri da
vendere, sia con l'acustica che con le elettriche, e come autore migliora a
vista d'occhio anche se gli manca quel quid che nei Black Crowes significava canzoni che si memorizzano con la
velocità dei classici. Ma Rich Robinson è questo, prendere o lasciare, la sua
voglia di musica si traduce in un flusso sonoro che attraverso tredici brani
esplicitano la sua ricerca, qui aiutato da una band che non lesina in tastiere,
organo e pianoforte (Matt Slocum, Marco Benevento e Danny Mitchell) e voci di
supporto (John Hogg e Daniela Cotton) oltre alla tosta sezione ritmica di Zak
Gabbard (basso) e Joe Magistro (batteria). Il disco è stato registrato come i
precedenti agli Appllehead Studios di Saugerties, località dello stato di New
York nei pressi di Woodstock ed è un continuo crescendo di cambi di marcia, di
umore e di improvvisazione quanto mai significative. Per tale motivo risulta un
vero flusso sonoro dove le canzoni
sfiorano la jam, seguire l'istinto
del momento, così da fluttuare con spontaneità dal funky di Shipwreck al groove di The Upstairs Land, dal gospel di Everything's Alright al blues distorto
e scorticato di Which Your Way Blows,
incrociando brani come Ides of Nowhere in
cui l'iniziale inciso di chitarra tra flamenco e Laurel Canyon finisce per
divenire un'idea per qualcosa di progressivo e sperimentale, e come Astral la migliore traccia dell'album con il vento della West-Coast e le
chitarre dei Corvi Neri.
Rich
Robinson si concede pure il vezzo di un singolo, Music That Will Lift Me, una sorta di frizzante ballata rock che si
sviluppa su un assolo di chitarra alla Stones era Tattoo You.
Altra natura quella degli Hard Working Americans una sorta di supergruppo formato dal
cantante Todd Snider, dal chitarrista di Chris Robinson Brotherhood Neal Casal,
dal fratello più giovane di Derek Trucks, il batterista Duane Trucks, dal
bassista degli Widespread Panic Dave Schools, dal tastierista Chad Staehly, ai
quali si è aggiunto in questo disco il chitarrista Jesse Aycock. Il loro
esordio risale al 2014 con l'album omonimo, da allora sono sempre stati in
movimento suonando in lungo ed in largo per gli Stati Uniti, tanto da
registrare Rest In Chaos durante il tour, in una pausa a Chicago e a
Nashville, città dove risiede il portavoce della band, Todd Snider.
Il loro primo album era costituito praticamente
solo da cover, questo nuovo disco è tutta opera loro ad eccezione della ripresa
di The High Of Inspiration dell'appena
scomparso Guy Clark. Lo stile non è
cambiato ovvero una robusta riproposizione di rock americano appena
venato di roots, con in primo piano la voce roca e malinconica di Snider e
dietro una solidissima band elettrica. Se The First Waltz, il CD/DVD che raccontava la loro vita
on the road, per via della sua
natura live, era caratterizzato da
versioni spesso tendenti alla jam, il gruppo in copertina omaggiava
esplicitamente Jerry Garcia definendolo importante tanto quanto Beniamino
Franklin, le tredici canzoni di Rest In
Chaos mantengono una
dimensione più ridotta rispecchiando il lavoro collettivo di un songwriter con
la propria band. Quindi ballate, anche
meditative e riflessive, come l' iniziale, bellissima Opening Statement, resa evocativa dalla lap steel di Jesse Aycock, e It
Runs Together, pervase da una malinconia seducente e da un disincanto verso
il mondo circostante, specchio delle vicissitudini esistenziali di Snider, un
lungo periodo nella tossicodipendenza dopo il boom degli anni novanta. Che
le ferite siano ancora aperte lo si evince da brani come Dope Is Dope e Roman Candles in cui il nostro tratta la materia con
fin troppa cognizione di causa, senza però cadere in commiserazione, piuttosto
mantenendo quella lucidità che, per esempio, contraddistinse nel passato Steve
Earle. Il quale, assieme a Jerry Jeff Walker e John Prine, è un po' il punto di
riferimento del songwriting di Snider, caustico al punto giusto e pure capace
di ironia e di una qualche reazione contro
le sconfitte e le scivolate della vita.
Ma Rest
In Chaos non è un disco di Todd Snider, la firma è
quella degli Hard Working Americans, una band che vive attorno alla massiccia
sezione ritmica di Trucks e Schools e agli svolazzi e ganci di Neal Casal, un chitarrista che ha fatto
passi da gigante ed è oggi uno dei sideman più personali in circolazione, lirico e crudo al tempo stesso, bluesato e
psichedelico, misurato e aggressivo a seconda delle occasioni. Se la voce ed il
cuore li mette Snider, il sound lo
creano Casal e gli altri e allora gli stacanovisti
americani sono una blue- collar band cattiva, sporca e determinata che
evoca tanto gli Heartbreakers di Tom Petty versione Mojo, quanto del
muscoloso pseudo rock-blues, il folk per sola voce e chitarra acustica della
commovente The High Price of Inspiration di
Guy Clark e le cose più country di Neil
Young, la caotica psichedelia di Acid e
l'heartland rock di Purple Mountain
Jamboree. Puro rock americano con sciabolate elettriche e confessioni da
songwriter, un rotolare contagioso di strade, chitarre, motel, energia e l'orgoglio di felici operai
del rock n'roll.
MAURO ZAMBELLINI primavera
sound 2016