L’invecchiamento e la morte sono diventati temi
ricorrenti nel rock, mai come oggi. La longevità artistica di molti autori
permette tale riflessione dopo che nel passato molti di quelli che avevano
inventato la cultura rock se ne sono andati prematuramente o avevano
abbandonato il campo. Per fortuna c’è tutta una generazione che è rimasta, è
sopravvissuta, ha resistito al tempo e ai cambiamenti ed è diventata anziana
con lo stesso rock n’roll. Cosi abbiamo artisti che raccontano il loro percorso
dall’età della gloria giovanile a quella senile, mi vengono in mente i più
noti, Eric Clapton, Bob Dylan, Van Morrison, Paul McCartney, Bruce Springsteen
e appunto John Mellencamp che nella sua carriera ha attraversato tutte le
tappe, dall’euforia giovanile di American Fool al canto di protesta
di Scarecrow,
dagli Stones di Uh-Uh
alle celtic roots di The Lonesome Jubilee, dalla pura e
quadrata essenza rock di Whenever We Wanted al Woody Guthrie
di Trouble
No More fino al rauco, dimesso, country-folk blues degli ultimi album,
compreso il recentissimo Strictly A One-Eyed Jack, parente
stretto del nuovo Orpheus Descending. Il rischio di affrontare un tema così insidioso
come quello dell’invecchiamento è cadere nella tristezza fine a sé stessa, in
un tedio asfissiante, nell’autocommiserazione o al contrario nella
glorificazione di sé e del proprio passato. John Mellencamp evita il tranello
senza barare, senza truccare le carte, senza esibire un artefatto giovanilismo,
piuttosto incastra tale tema su una osservazione ancora vivida, critica, amara
ma capace di infondere forza e resistenza, della realtà che lo circonda, in particolare quella del
suo paese. Cosi attraverso undici canzoni di alto livello compositivo e sonoro
risulta si essere saggio come lo può essere un settantenne ma che ancora cammina
sull’altra parte della strada, quella parte che non è mainstream e nemmeno il muscolare rock adulto
di tanti veterani di questa musica. John Mellencamp è invecchiato bene nella
sua musica e nella sua sensibilità sociale, pur con una voce incatramata da
migliaia di sigarette che lo fanno assomigliare oggi più a Tom Waits che
all’amico di Jack and Diane. Orpheus Descending è un disco
maturo, emozionante, caldo e profondo fatto di ballate malinconiche dove è il
ripensare alla vita che è trascorsa ( cercherò
di fare del mio meglio nella vita che rimane suggerisce nella conclusiva Backbone) il motivo ispirante, di polveroso folk-rock sullo stato
delle cose ( nella terra dei cosi detti
liberi non ci sono eroi da nessuna parte canta in The So-Called Free) ma
anche di gagliardi colpi rock decisi e ben assestati dove si ascolta con
piacere il suono della National resofonica (il fido Andy York) ed il ritorno
del violino di Lisa Germano. Orpheus
Descending suona come un atto di resistenza, nella ricerca di un
bagliore di luce e speranza, anche se il mondo è andato nella direzione opposta
di come si desiderava. C’è’ sempre un
fottuto modo per reagire indica la canzone titolo, Mellencamp nonostante
tutto mantiene il suo ottimismo, per quanto doloroso possa sembrare e offre con
la sua musica un grido di battaglia lungo la strada. Senza fare sconti a
nessuno, come l’inizio crudo e diretto dell’album suggerisce. Hey God sul tema della violenza delle
armi in Usa è una rock song dal ritmo conciso ed insistente, sibila il violino
di Lisa Germano e Mellencamp, per stare in tema, mostra le sue cartucce da
sparare. La seguente The Eyes of Portland
è commovente e non potrebbe essere diversamente, l’incontro con una
senzatetto pone sul piatto il problema della povertà e dell’esclusione. La
slide, la voce waitsiana e l’arrangiamento paiono sottolineare le ingiustizie
di un mondo siffatto con un afflato che sta tra Steve Earle e il blues antico.
Ancora la National blueseggia in The So-Called
Free ma il ritmo meno metronomico è dinamico ed in levare, con la linea di
organo che infonde sapori di Muscle Shoals. Voce gutturale e arpeggi di
chitarra la portano nelle strade del Sud. The
Kindness of Lovers, Perfect World e Understated Reverence adottano un tono
più dimesso ed intimista, il violino suona funereo nella prima, il brano più
cupo del lotto, c’è tanto Dylan nella seconda, accompagnato dall’armonica e dall’Hammond, un elegiaco pianoforte (ed il
violino) regalano dolcezza alla terza come se fosse il Mellencamp di Big
Daddy. Ma l’urgenza non è dissolta anche se il disco conserva un suono
uniforme che a molti parrà ripetitivo, come è successo in anni recenti, One More
Tick attraverso ritmi scomposti che era dai tempi di Mr.Happy Go Lucky che non
si sentivano crea un ardito gioco tra latin, blues e rock, e la canzone titolo esibisce
la scioltezza e l’appeal di quel pezzo da novanta che era Freedom’s Road. Forse il brano che meglio sintetizza tutto l’album
è la lunga ballata Lighting and Luck dove
il racconto di Mellencamp ci prende per mano e nel verso usa quello che hai per ottenere ciò che vuoi confida che le cose
possono cambiare se le persone sono disposte ad impegnarsi. Ancora il violino
di Lisa Germano, le chitarre baritonali, le voci femminili ed un John
Mellencamp con la voce sgraziata dal tabacco e dal tempo ma in grado di tenerci
ancora attaccati a lui, alla sua musica, al messaggio di chi è rimasto un outsider.
MAURO
ZAMBELLINI GIUGNO 2023