venerdì 21 ottobre 2022

LO SPAVENTAPASSERI



Solo tre anni prima John Mellencamp, nato il 7 ottobre del 1951 a Seymour nello stato dell’Indiana, aveva sbancato le classifiche americane con un furbo connubio di pop e rock che raccontava di due adolescenti americani, Jack and Diane, che si affacciavano alla vita con i loro sogni, i loro desideri e le loro paure. Col nome di John Cougar era di colpo diventato un teen idol nonostante nell’ambiente musicale avesse evidenziato un carattere non proprio docile e accomodante, abbandonando di colpo le interviste, schernendo i giornalisti che non gli andavano a genio e mostrando quell’ atteggiamento ribelle che il titolo dell’album del 1982 contenente quell’hit ben sintetizzava : American Fool. Tre anni dopo il Cugaro si era trasformato in John Mellencamp pur preservando ancora tra nome e cognome il riferimento al felino americano, e con Willie Nelson e Neil Young allestì a Champaign nell’Illinois una delle manifestazioni di beneficenza più durature nel tempo, il Farm Aid, un concerto per raccogliere fondi in aiuto ad agricoltori e braccianti del Midwest messi in ginocchio dalle restrizioni nei prestiti delle Farmers Bank, frutto del feroce clima dell’era Reagan. Un evento che è continuato per anni e lo ha visto protagonista, una tangibile prova di solidarietà che ha fruttato fino ad oggi 60 milioni di dollari da  devolvere a contadini in difficoltà e alle loro famiglie. Un cambiamento repentino quindi, da scapestrato ragazzo della porta accanto ad artista sensibile alle istanze sociali del suo paese. In mezzo c’era stato un album che aveva fatto presagire il cambio di passo, pur riconoscendo ad American Fool un solido impianto rockista costruito su un tuonante bam-bam ritmico che concedeva margini a canzoni pop assolutamente non banali, Uh-Uh aveva alzato il tiro con tutti quei riferimenti rollingstoniani nel suono e quella canzone, Pink Houses, che senza tante metafore diceva delle miserie causate dall’amministrazione repubblicana. Il suo songwriting era maturato ed era sotto gli occhi di tutti, ma quando in giovane età aveva parlato di amore e ragazze il suo scrivere non era mai apparso futile e ancora prima di Jack and Diane, la sua I Need A Lover, grazie a Pat Benatar, aveva acchiappato i cuori dei teenagers americani. Canzoni che filavano spedite grazie ad uno schietto e diretto rock n’roll a stelle e strisce cantato come facevano i “negri” della Stax e outsider come Mitch Ryder. Un universo di american music incamerato in un suono asciutto e tagliente ma dotato delle giuste melodie, una veste che negli anni ottanta lo  proiettò nel coast to coast della ballata rock, insieme a Springsteen, Tom Petty, Bob Seger.



Ma è il 1983 l’anno del cambiamento, quando Mellencamp sotto lo pseudonimo di Little Bastard produce Uh-Uh assieme Don Gehman, un produttore coi fiocchi che ha firmato i lavori di R.E.M, Blues Traveler, Jimmy Barnes, Hootie and The Blowfish, ristampe di Clapton e Neil Young e con lo stesso Mellencamp ha messo a punto il magnifico Hard Line dei Blasters a cui il piccolo bastardo regalò la bellissima Colored Lights. E’ il significativo prologo di Scarecrow, pubblicato solo un anno dopo Born In The Usa, nell’autunno del 1985, ed in qualche modo parente per la sincerità con cui racconta quell’America che un tempo si riconosceva e trovava rifugio nel rock nì’ roll, oggi dispersa in una frammentazione sociale che è specchio della politica in atto. Scarecrow  (il mio album preferito di Mellencamp pur nella difficoltà di scegliere un possibile the best in una discografia così copiosa e di altissimo livello) è il frutto dell’evoluzione artistica del personaggio senza che venga tradito di una virgola l’ ambiente umano da cui proveniva ed il cammino che lo aveva portato fino a lì, una progressione nel segno di un riconoscimento del proprio passato e contemporaneamente l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza sociale. Con Pink Houses John Mellencamp aveva dato un senso a tutto Uh-Uh, in quei versi “oh but ain’t that America for you and me, ain’t that America were something to see, baby, ain’t that America, home of the free, little pink houses for you and me” c’era il dichiarato rifiuto di camminare su una strada facile dando un seguito ad American Fool, e in quel coro risuonava un misto di ironia patriotica e ambiguità populista con un plausibile riferimento a Woody Guthrie. Ma è con Scarecrow  che Mellencamp si fa carico di una visione sociale ancora più compiuta e profonda, in primis con canzoni come Rain On The Sacrecrow, The Face of the Nation e You’ve Got To Stand for Something. Benintesi, nessuna delle canzoni del disco è esplicitamente politica ma in modo istintivo, rabbioso, passionale l’artista si libera di alcuni condizionamenti del music business e sente il bisogno di dire la sua sul mondo e sull’America. The Face of the Nation è un violento atto d’accusa contro i sogni distrutti di persone lasciate indietro dalle promesse di un mondo hi-tech fatto di inaccessibili possibilità. Un popolo di vecchi, di bimbi che piangono e di gente rimasta senza lavoro a cui il cantante non offre soluzioni concrete (è d’altra parte solo un musicista) ma li esorta ad una semplice, umana perseveranza. Soffia il Dylan di The Times They Are A-Changin’ ma vent’anni prima le persone della sua terra, il Midwest, non stavano perdendo le loro fattorie al ritmo di una ogni cinque minuti. In Rain On The Scarecrow, co-scritta con l’amico George Green, la musica acuisce la drammaticità di una situazione familiare che è diventata mancanza di prospettive, e culmina in una sorta di inno dell’ heartland rock: Scarecrow on a wooden cross. Blackbird in the barn, four hundred empty acres that used to be my farm. I grew up like my daddy did, my grandpa cleared this land, when I was five I walked the fence, while grandpa held my hand. Nella magnifica You’ve Got To Stand for Something non spiega in modo specifico ciò che dovremmo aspettarci ma attraverso una litania di immagini, dai Rolling Stones a Fidel Castro passando per Johnny Rotten, i Who, le Pantere Nere, Marlon Brando e Kruscev, un uomo che cammina sulla luna e Miss America, il messaggio è chiaro: difendi la tua verità e come quella verità si collega alla tua esperienza del mondo. “So che il popolo americano paga un alto prezzo per la giustizia e non so perché, nessuno sembra sapere perché, conosco tante cose ma non ne conosco altrettante”, l’unica cosa di cui Mellencamp sembra certo è che “dobbiamo iniziare a rispettare questo mondo o si girerà e ci morderà il viso”. L’ artista ha scelto di manifestare le sue posizioni in modo esplicito, esprimendo un punto di vista forte proprio nel momento in cui sarebbe stato più semplice per lui sdraiarsi su soluzioni più facili ed immediatamente commerciali. 


Dal punto di vista specificatamente musicale Scarecrow, registrato al Belmont Mall, uno studio allestito in quei giorni dall’artista sulla Route 46 nelle vicinanze di una stazione di servizio e di un truckstop cafè, è un riuscito insieme di crudo rock stradaiolo con un lontano sapore Creedence, colpi di R&B di matrice Memphis ed un po’ di urlacci alla James Brown, il tutto esibito con energia, sincerità e feeling. Il cantato, come la scrittura e l’apporto strumentale, sostenuto dalla coppia di chitarristi Larry Crane e Mike Wanchic e dalla tuonante sezione ritmica di Toby Myers, basso, e Kenny Aronoff, batteria, è appassionato, molte delle canzoni sono scritte in una chiave più bassa rispetto agli album precedenti così che la voce goda di una ampiezza maggiore, un fattore che consente più melodia. Il sound è un perfetto matrimonio di semplicità tecnica e musicale, le ringhianti chitarre di Crane e Wanchic si allacciano al potente drumming di Aronoff e dopo anni di gavetta la band è diventata una estensione vivente del songwriter, uno strumento per disegnare la sua musica. Ci fu pure un cambiamento nel modo di porsi dell’artista, l’ amico George Green co-autore di due brani del disco, arrivò a dire che “aveva imparato a dire per favore e grazie e nonostante lo spirito ribelle si sentiva più felice anche se non ancora soddisfatto”.  I Can’t get no satisfaction, il suo amore per i Rolling Stones più che nelle dichiarazioni lo si rintraccia nel sound di molti dischi, a parte Uh-Uh  mi va di ricordare Nothin’ Matters and What If I Did del 1980  e Whenever We Wanted del 1991. Anche Scarecrow non fa mistero di quell’amore, forse più nei brani di carattere personale che in quelli di taglio sociale. Il range è vario, nell’allegoria country-folk di Minutes to Memories, un vecchio su un Greyhound racconta  ad un giovane quanto ha imparato nella vita grazie al lavoro e alla famiglia, ma alla fine il giovane pur riconoscendo la visione del vecchio si ostinerà a fare di testa sua, pagando un caro prezzo, fino a che nell’ultima strofa ricorderà quel vecchio uomo sul bus ed ora che sono diventato vecchio anche io capisco che aveva ragione”.  In Lonely Ol’Night, un incalzante rock alla Creedence con un pizzico di distorsione elettrica, due amanti si ritrovano  lacerati da bisogni insoddisfatti e paure, come se Jack and Diane anni dopo non fossero più giovani ed innocenti ma posti di fronte alla difficile situazione di  mantenere l’amore, un dilemma sulla condizione umana che si sfoga nel ritornello “she calls me baby, she calls everybody baby, it’s lonely ol’ night but ain’t they all”. Il duetto con Ricky Lee Jones in Between a Laugh and a Tear è l’episodio più dolce e romantico del disco, una ballata  sul desiderio di raggiungere un equilibrio nella vita tra sorrisi e lacrime, una atteggiamento molto diverso da quello espresso in American Fool. La scoppiettante Rumbleseat  sparge buon umore, il senso positivo con cui affrontare ed esorcizzare i conflitti viaggia sulle note di un suono Stax, è un possibile antidoto alla depressione, e  R.O.C.K In The Usa è quello che dice il titolo, una corsa al ritmo del rock n’roll con un testo che suona come un ode ai santi dell’american music. “Dissero arrivederci alle loro famiglie, salutarono gli amici, con qualche sogno in testa e pochi soldi in tasca, alcuni bianchi, altri neri, con quel po’ di fede che bisogna sempre avere roccarono gli States. C’erano Frankie Lymon, Bobby Fuller, Mitch Ryder, Jackie Wilson, Shangri Las, gli Young Rascals, Martha Reeves, per non dimenticare  James Brown. Venivano dalle città e dalla provincia, suonavano sulle macchine con chitarre e rullante e facevano goin’ crack boom bam”. Il ruvido e arrabbiato rock n’roll The Kind of Fella I Am  ha una slide alla Ron Wood che accarezza il blues, gli Stones sono anche in Justice and Independence’85 . Ma è Small Town a fare di Scarecrow una sorta di concept album sull’età che avanza. Diverse canzoni ritraggono umori e aspetti della vita e del passato del songwriter anche se la metafora della piccola città induce ad una visione sociale sulle aspirazioni e frustrazioni di quel Midwest fregato dalla modernità e dal liberismo esasperato. Introdotta da Grandma’s Theme dove Mellencamp con la chitarra acustica accompagnare la flebile voce di sua nonna Laura cantare il vecchio folk The Baggage Coach, Small Town è una magnifica ballata, la risposta blue collar alla muscolare Born In The Usa del collega Springsteen, ed è uno dei titoli più rappresentativi del suo songbook. John Cascella aggiunge le tastiere, Kenny Aronoff è un martello pneumatico, il violino ne sottolinea il mood provinciale, spesso si parla di perfezione, in questo caso la si raggiunge.


Undici canzoni non fanno la rivoluzione ma danno sicuramente coraggio, in piena era reaganiana Scarecrow  si ergeva come un baluardo, l’urlo critico del rock n’roll, un album epocale che il tempo non ha scalfito, contrariamente ad altri dischi degli anni 80 grazie ad un sound che era già classico al momento della sua  pubblicazione. Giusto celebrarlo con una Super Deluxe Edition ovvero l’originale rimixato e rimasterizzato ed un ulteriore disco di rarità ed inediti. Due le canzoni mai pubblicate prima: Carolina Shag aperta da una rullata alla Aronoff è  polveroso e scapigliato heartland rock perfettamente in sintonia con l’album originale, ottimo, Smart Guys mantiene una connotazione anni ’80 e sembra più che altro una out-takes di American Fool, più intrigante è la versione di Shama Lama Ding Dong con quei coretti soul, i fiati R&B e quell’aria da party che gli aprì le porte della colonna sonora del film Animal House grazie alla versione di Otis Day and The Knights. Due le out-takes di Small Town: un demo acustico di poco più di un minuto ed una bella versione folkie con tanto di violino e mandolino ad anticipare il futuro Mellencamp degli Appalachi. I demo di Between Laugh and a Tear e Rumbleseat  sono prototipi acustici di ciò che verrà poi fuori con la band mentre i rough mixes interessano Lonely Ol’ Night poco diversa dall’originale,  R.O.C.K In The Usa a cui è stata aggiunta nel mezzo una tastiera Farfisa e l’incisiva Minutes to Memories declinata folk-rock. A partire da The Lonesome Jubilee si è parlato delle radici folk di John Mellencamp ma negli anni di Uh-Uh e Scarecrow forte era l’influenza che la musica nera esercitava sul nostro, le due cover qui riportate mostrano  quello “stato d’animo”. Il lato melodico della soul music con tanto di cori doo-wop in puro stile sobborgo newyorchese risuona nella bella interpretazione di Under The Boardwalk  dei Drifters pur personalizzata dal raffinato lavoro di chitarre acustiche/violino e voce crooner, il lato selvaggio del funk esce invece nella focosa versione di Cold Sweat  di James Brown, assoluto punto di riferimento come performer.

Con queste aggiunte Scarecrow brilla ancora di più confermandosi una delle opere più significative per temi e musica del rock americano anni ottanta, attuale anche oggi.

MAURO ZAMBELLINI