Nome
affatto conosciuto sebbene nel 1994 l’allora ventenne John Paul Keith fondava i
Viceroys poi diventati V-Roys, autori di alcuni album per l’etichetta
E-squarred di Steve Earle, con cui collaborarono nel maxi-single di Johnny Too Bad. Nativo di Knoxville ma
per nulla stanziale visto che ha vissuto in sequenza a New York, Nashville e
Birmingham in Alabama, dopo essere stato il leader dei Nevers, John Paul Keith
si è trasferito all’inizio degli anni zero a Memphis dove ha trovato l’humus
giusto per la sua musica. Qualche disco a suo nome, una collaborazione con Amy
LaVere e col chitarrista texano Will Sexton che gli ha prodotto nel 2018
l’album Heart Shaped Shadow e adesso un disco infarcito dei migliori
umori memphisiani, dieci canzoni cantate con voce calda e melodica che
abbracciano l’intero panorama musicale della città, dal sound venato di blues e
rockabilly fabbricato negli studi Sun al soul di marca Stax, dal rhythm and
blues delle incisioni della Hi-Records al rock n’roll profumato Presley. Mai
titolo fu più azzeccato per definire un disco, The Rhythm of The City
pulsa febbricitante attorno al ritmo di una città che è il cuore della musica
americana di derivazione sudista, dove ancora oggi outsider come John Paul
Keith trovano il modo di aggiungere il loro sentito e sincero contributo ad una
storia che regala ancora emozioni e bei dischi. E lo fa con stile, gusto, senso
della misura e cura dei dettagli, evitando di sembrare revival o passatista.
Tutt’altro, prendete Love Love Love ad
esempio, un connubio tra Presley e Johnny
Burnett che potrebbe apparire una minestra super riscaldata se non fosse
che suona scoppiettante, festosa, arzilla in una dimostrazione di fresco e
vitale rock n’roll, corroborato da una sezione fiati che per tutto il disco
aggiunge il giusto tasso di negritudine. Tutto The Rhythm of The City funziona
e non solo nei brani più briosi, The
Sun’s Gonna Shine Again ispirato, a detta di Keith, da uno dei veterani del
soul di Memphis, Don Bryant, evoca
quello svogliato ma terribilmente romantico modo di cantare le ballate soul di Alex Chilton, il quale un po’ centra
anche con il sound aereo-spaziale della title track che per ammissione dell’autore
è uno esplicito omaggio a The Letter dei
BoxTops, la quale iniziava proprio con un aereo in fase di decollo. Poi The Rhythm of The City si risolve in
altro modo ed un lancinante assolo di chitarra fa capire quanto nerbo ci possa
essere nella sua musica . D’altra parte i compagni di ventura sono ben
assortiti, il leader canta e suona la chitarra e attorno a lui ruotano musicisti locali come Al Gamble (St.
Paul And The Broken Bones) alle tastiere, Danny Banks (Nicole Adkins Band) alla
batteria e Matthew Wilson (John Nemeth and The Blue Dreamers) al basso, nonché
una robusta sezione fiati e le carezzevoli voci delle sorelle Jackson dei Southern Avenue nel malizioso e
sensuale soul How Can You Walk Away. Le
Jackson fanno da contrappunto anche nella lenta I Don’t Wanna Know e in If I
Ever Get The Chance Again dove fiati,
tastiere e chitarre si fondono per creare un tappeto di velluto al cantato di
Keith. Più energica, con una brillantissima chitarra e l’Hammond in gran spolvero, If I Had Money sposta leggermente il
baricentro verso il blues texano se non fosse che un superbo sassofono riporti
tutto a casa, cioè a Memphis con gioia di tutti i partecipanti, prima del
conclusivo omaggio al deep soul di How Do
I Say No dove John Paul Keith rischia di fare il crooner.
Bella copertina, ottimi musicisti, canzoni ben
equilibrate e varie, Memphis sound di prima qualità, The Rhythm of The City non
è niente di più che un disco da sentire a qualsiasi ora del giorno, plaudendo ad un benemerito sconosciuto che in
tutto questo casino del mondo tecnologico moderno, riesce ancora a scrivere e
cantare canzoni che fanno pensare all’amore. Grazie John Paul Keith.
MAURO ZAMBELLINI GIUGNO 2021