martedì 21 giugno 2011
Clarence Clemons (January 11, 1942 - June 18, 2011)
È come se mi avessero detto che la E-Street Band non esistesse più e forse è così ma la scomparsa di Clarence Clemons segna la fine di un’epoca per loro e per noi. Ci eravamo abituati a vederlo acciaccato, zoppicante, stanco, seduto su un trono dorato in qualche momento del concerto, anche se ad onore del vero nell’ultima tournee era parso più in forma che nel passato recente, ma ci bastava vederlo lì, alla sinistra (per noi che lo vedevamo) di Bruce per credere che tutto era come prima, che la E-Street Band fosse sempre la stessa, quel sogno che a cominciare dal tour di The River aveva accompagnato i nostri anni migliori e ci aveva fatti diventare adulti pensando che in fondo fondo il paradiso poteva attendere perché qui sulla terra c’era qualcosa e qualcuno che ci faceva stare tremendamente bene e ci faceva dimenticare tutte le ingiustizie e le cattiverie del mondo. Ci bastava sentire il suo sax ogni tanto e vedere quella enorme montagna nera che quando veniva inquadrato dallo schermo mostrava un viso da fiero guerriero indiano o il presidente mancante nelle rocce di Mount Rushmore nel Sud Dakota per sentirsi in pace, per sentire il cuore allargarsi, per rabbrividire di emozione quando immancabile arrivava il sassofono di Born To Run, l’unico assolo di sax in grado di competere con un assolo di chitarra elettrica, e Jungleland si ergeva in tutta la sua sontuosa grandezza facendoci capire che anche noi plebei del rock n’roll avevamo la nostra musica lirica, la nostra opera, la nostra sinfonia, i nostri Puccini e Verdi anche se figli delle backstreets e non dalle accademie.
Non era il più grande sassofonista del mondo Clarence Clemons ma era The Master of Universe, The Big Kahuna, The Prince of The City, The Duke of Paducah, per noi semplicemente BIG MAN, l’uomo alla destra (sul palco) di Bruce che ha reso immortali alcune entrate di sax più e molto di più dei suoi più talentuosi maestri come Junior Walker e King Curtis.
Una presenza monumentale, una montagna di uomo, il carrello elevatore che faceva rialzare in piedi Bruce dopo la sua scivolata di ginocchia sul palco, una “divinità” nera, magnetico nello sguardo, nella presenza, nell’ abbigliamento, nella bigiotteria e nelle unghie colorate, nei capelli e nel cappello, inquietante, imperioso e rassicurante al tempo stesso, la tangibile dimostrazione che con lui sul palco la E-Street Band fosse la più concreta realizzazione dell’integrazione nella musica popolare, già negli anni 70 quando non erano lontani i tempi della segregazione razziale ed il rock bianco viaggiava su strade diverse dal R&B nero.
La leggenda narra che nel settembre del 1971 mentre la Bruce Springsteen Band stava suonando allo Student Prince in Asbury Avenue la porta si aprì ed un ombra gigantesca entrò nel locale. Era Clarence Clemons allora sassofonista di Norman Seldin and The Joyful Noyze, un gruppo di discreto successo locale di scena al Wonder Bar pochi isolati più avanti. Chiese di poter salire sul palco e di suonare qualcosa con loro, fecero Spirit In The Night ed il firmamento si illuminò. Non se ne andò più. Nacque il mito della E-Street Band la più grande orchestra spettacolo del rock e il sax di Clarence Clemons divenne l’ inconfondibile trademark del sound di Springsteen tanto che quando capitava di imbattersi casualmente alla radio nei suoi assoli immediatamente veniva in mente la E-Street Band anche senza la voce di Bruce. Da sempre colonna portante e mascotte della band il suo contribuito non è mai venuto meno anche se nei dischi degli anni duemila il suo ruolo era stato ridimensionato ma album come The River non avrebbero potuto avere la stessa devastante carica rock/soul senza il suo lavoro.
Se ne è andato per le complicazioni dovute ad un ictus ed una amarezza profonda è immediatamente circolata fin dalle prime ore della giornata, domenica 19 luglio, tra le migliaia di fans italiani che con e-mail e sms si sono passati sbigottiti la notizia tra amici e conoscenti sperando che la condivisione del lutto potesse in qual modo alleviare il dolore e la consapevolezza che non solo la vita di Clemons fosse volata via ma anche un pezzetto della nostra storia.
La musica non muore, noi continueremo ad ascoltare il sax di BIG MAN e ad immaginarcelo come l’eroe buono che dà la stoccata decisiva a Born To Run, porta tutti a ballare in strada con 10th Avenue Freeze Out, dipinge di immenso il cielo di Jungleland e abbraccia il mondo con Land of Hope and Dreams ricordandoci quanta gioia, emozione e commozione ci ha dato.
Riposa in pace Clarence, sarai sempre con noi.
MAURO ZAMBELLINI 19 GIUGNO 2011
lunedì 20 giugno 2011
Grayson Capps & The Lost Cause Minstrels The Roayl Potato Family
Una canzone per Bobby Long ha portato fortuna alla famiglia Capps. Il padre Ronald Everett, romanziere, pittore e gran bevitore ha visto il suo libro diventare un film con la recitazione di John Travolta e Scarlett Johansson, il figlio Grayson si è fatto un nome nell’ambiente musicale con la canzone A Love Song For Bobby Long e poi ha continuato sulla stessa strada pubblicando dischi di genuino songwriting sudista. Il suo nuovo disco, il quinto della sua carriera si intitola The Lost Cause Minstrels ed è un variegato affresco di umori e suoni del sud a contatto con un universo culturale ed umano non molto diverso da quello dei romanzi del padre. Sebbene nativo di Mobile in Alabama, Grayson Capps si è ormai saldamente legato a New Orleans e ne è rimasto stregato. La sua musica ne porta il segno, se i personaggi delle sue storie sono balordi, perditempo, sognatori, innamorati traditi e quel simpatico ricettacolo umano zeppo di perdenti e visionari che era il microcosmo di Una canzone per Bobby Long, la sua scenografia musicale è il riflesso di quel sottobosco di generi che circonda la città della Louisiana: le voci soul, il blues svaccato e lazy da caldo pomeriggio del sud, sprazzi di morbido swamp-rock alla Tony Joe White, le slide aspre del Delta blues, qualche fendente di rock e i ritmi della seconda linea del Mardi Gras filtrati attraverso lo stile del cantautore che non perde mai di vista la melodia della sua canzone. The Lost Cause Minstrels è un ottimo disco, non solo un paio di canzoni di prestigio ma un lavoro completo da songwriter di vaglia e musicista esperto, allegro e pimpante ma anche umbratile e riflessivo. Basterebbe l’iniziale Highway 42 per capire che Grayson Capps non è uno dei tanti perché la canzone è di quelle che rimangono addosso al primo ascolto e ti prendono sia la testa che il cuore, un folk-rock urgente, costruito con la chitarra acustica e l’armonica ma svelto nel ritmo e con una coreografia di voci femminili che lo riempiono di soul, di gioia e di sole. Un inizio alla grande, immediatamente replicato da Coconut Moonshine, ancora calde voci femminili, ritmo sornione, la voce da gaglioffo di Grayson, la tromba e poi il pianoforte per un brano che ad un certo diventa uno swing grondante sudore e salute. Si balla in una balera del French Quarter guardando la luna fare capolino e quando arriva John The Dagger gli spiriti del bayou sono lì davanti perché adesso Grayson fa il loup garou, il ritmo è scuro e la slide è un coltello affilato.
New Orleans è regina in The Last Cause Minstrels, ipnotica e visionaria in Chief Seattle, calda come un bourbon in Janey’s Alley Blues di Richard “Rabbit” Brown, un lascito della antologia di Harry Smith e nel delicato country-blues di Annie’s Blues che arriva dal repertorio di Taj Mahal.
Sono l’anima blues di Grayson Capps, l’alter ego del rock fracassone e distorto di No Definitions, della sontuosa e regale Paris, France e della sarabanda festosa di Ol’ Slac, un subbuglio di ritmi e fiati da Mardi Gras che saluta la rinascita del vecchio carnevale di Mobile. Chiude Rock n’Roll ma non pensate che sia come dice il titolo perché qui Capps lascia a casa ironia e allegria e si trasforma in una sorta di Steve Earle che con una ballata bluesy suonata in punta di strumenti canta la malinconia del rock n’roll.
I nuovi compari di Grayson Capps, ora che gli Stumpknockers non ci sono più, sono il batterista John Milham, fondamentale per come si destreggia tra ritmi in levare e pestaggio rock, Corky Hughes un chitarrista di tutto rispetto, Christian Grizzard il bassista e Chris Spies un tastierista che ha il tocco del cuoco di classe. Splendide le voci femminili. Ricordate il nome, Grayson Capps ed il titolo, Menestrelli della causa persa, una garanzia per il divertimento di quest’estate.
MAURO ZAMBELLINI giugno 2011
domenica 5 giugno 2011
mercoledì 1 giugno 2011
Eric Clapton and Steve Winwood at Royal Albert Hall 29 maggio 2011
Un week-end da ricordare a lungo: un concerto bellissimo alla Royal Albert Hall di Londra, la conquista della Coppa Italia nella stessa sera da parte della mia squadra del cuore e la grande scoppola subita dal duo Berlusconi-Bossi, il giorno dopo, a Milano e nel resto d’Italia. Memorabile.
Mi limito alla musica, naturalmente. Non ero mai stato ed era un sogno: vedere un concerto nella mitica Royal Albert Hall di Londra, teatro che ha ospitato concerti leggendari e parte della storia del rock inglese. All’entrata rimango di stucco, come un teatro di simili dimensioni, elegante signorilità, bellezza e comodità possa essere adibito a spettacoli, come quelli rock, che da noi sono relegati a luoghi “plebei”, a stadi, palazzetti e piazze dove spesso si sente e si vede male, è una fatica prendere da bere e accedere ai servizi una avventura di sopravvivenza. Può sembrare il solito lamento dell’italiano che vede il giardino del vicino più verde del suo ma purtroppo è una sacrosanta verità perché in Italia il costo dei biglietti per un concerto rock “di grande richiamo” ha raggiunto prezzi da capogiro senza che il servizio sia migliorato, scadente ed inadeguato nella maggior parte dei casi. La Royal Albert Hall è una versione in grande (8000 posti) dell’antico Globe di Shakespeare ovvero un palco con il parterre ed intorno a cerchio le file laterali, due giri di palchetti ed il loggione finale.
Mi ritrovo nella fila laterale più bassa, poco distante dal palco, pagando come per il prossimo 22 giugno Dylan all’Alcatraz ma con il posto assegnato ed un’acustica che non è una stridente accozzaglia di onde sonore. Era dagli anni settanta che non vedevo Eric Clapton, musicista che ho sempre apprezzato e non sempre amato perché la sua discografia non è avara di cadute di gusto e quando viene in Italia spesso accompagna artisti nazionali di cui non me ne frega niente oppure si fa pagare come Frank Sinatra a Las Vegas.
Cinque concerti alla Royal Albert Hall in compagnia di Steve Winwood sono stati una tentazione troppo forte per resistere, considerata l’economia di un volo EasyJet e la voglia di un weekend londinese. Il concerto a cui assisto è quello del 29 maggio, la sera seguente alla vittoria blaugrana in Champions, inutile aggiungere la loro festa in città ma anche la sportività del londinesi che nel pub dove ho visto la finale e bevuto parecchie birre hanno sportivamente applaudito alla fine la squadra campione.
Ma è manolenta che mi ha portato a Londra. Un applauso prolungato lo accoglie quando entra in scena abbigliato come dovesse fare una passeggiatina serale con il cane. Camicia sportiva fuori dai pantaloni, jeans larghi e comodi , scarpe da barca, unica concessione una collana. Winwood non è molto diverso ma sembra più atletico, il tastierista (bravissimo) Chris Stainton (Joe Cocker, Bill Wyman, Pete Townshend) sembra il maggiordomo di The Rocky Horror Picture Show, pallido, magro, capelli lunghi, dritti, ingrigiti, non ha la gobba ma è perennemente piegato su quelle tastiere magiche, sul piano elettrico e sull’Hammond che usa quando Winwood suona la chitarra. La sezione ritmica è di lusso e sta alle spalle, Willie Weeks al basso e l’immenso Steve Gadd alla batteria, due coriste nere ( Michelle John e Sharon White) aggiungono una giusta dose di gospel.
La partenza è a due chitarre (Clapton e Winwood), due Stratocaster azzurre brillano nella notte con Had To Cry Today anticipando il tema dello show ovvero un cocktail di brani di Clapton, Winwood, Blind Faith, Cream, Derek and The Dominos, Spencer Davis Group e Traffic, più qualche blues della tradizione rivisitato a loro modo ed un sentito omaggio allo scomparso Gary Moore con la commovente Still Got The Blues. In quasi due ore me mezzo di show passano più di quarantanni di rock e british blues ai massimi livelli con sortite nel soul, nel R&B, nel jazz e nella psichedelia. Le chitarre cavalcano libere e selvagge, l’ Hammond e il piano evocano Memphis e portano il rock dei bianchi in una chiesa Battista, la sezione ritmica è raffinata e sostanziosa al tempo stesso, le ugole femminili sono calde e sensuali, la voce di Clapton è pigra e low down easy, quella di Winwood è un canto che viene giù da una valle lontana e inonda il tutto con un suono che è anima e sensi. L’equilibrio è perfetto, Winwood canta i Blind Faith (Presence of The Lord è magnifica, Can’t Find My Way Home mette i brividi) , i Traffic (Pearly Queen è uno degli highlights dello show, sontuosamente black, Glad jazzata e progressive si innesta a medley in Well All Right, Dear Mr.Fantasy è l’encore che manda in tripudio la Royal Albert Hall ), lo Spencer Davis Group (una Gimme Some Lovin che mette in piedi il parterre a ballare), Ray Charles (Georgia On My Mind) ed uno scampolo del suo successo da solista ( While You See A Chance). Clapton si occupa del blues (Crossroads magnificamente riarrangiata con voci gospel e lentezze southern, Hoochie Coochie Man è addirittura erotica, Key To Highway e LowDown sono il miglio pretesto affinchè manolenta esibisca quel Strat-Fender sound di cui è inventore) e a metà dello show incornicia in un siparietto acustico una versione anomala di Layla e di That’s No Way To Get Along facendo vibrare le corde della sua chitarra come un cristallo di Boemia.
Dire che il concerto è superbo è superfluo perché sia Clapton che Winwood e il resto della band sono di una classe eccezionale, concedono poco allo spettacolo in quanto a teatralità perché lo spettacolo è nella loro musica, nelle loro stupende canzoni, nelle loro corde, nei loro tasti, nelle voci, nei ritmi, nel suono, un suono che ti entra nella pelle, nelle vene, nel cuore e ti manda in paradiso. Che questa sera si chiama Royal Albert Hall. Prima della fine la festa raggiunge l’apice, Voodoo Chile e Cocaine celebrano un concerto sontuoso. La prima è lunga, ipnotica, carica, la seconda è sbrigativa, tagliata con un laid back leggero e scorrevole, quasi a voler ricordare che certe abitudini sono un lontano ricordo. E’ la musica che immortala Eric Clapton e Steve Winwood, due giganti che per la prima volta formalizzarono la loro partnership nel marzo del 1966 nella compilation What’s Shakin organizzata dal produttore Joe Boyd per la Elektra. Quarantacinque anni di musica ma non li dimostrano.
Mauro Zambellini Giugno 2011
Mi limito alla musica, naturalmente. Non ero mai stato ed era un sogno: vedere un concerto nella mitica Royal Albert Hall di Londra, teatro che ha ospitato concerti leggendari e parte della storia del rock inglese. All’entrata rimango di stucco, come un teatro di simili dimensioni, elegante signorilità, bellezza e comodità possa essere adibito a spettacoli, come quelli rock, che da noi sono relegati a luoghi “plebei”, a stadi, palazzetti e piazze dove spesso si sente e si vede male, è una fatica prendere da bere e accedere ai servizi una avventura di sopravvivenza. Può sembrare il solito lamento dell’italiano che vede il giardino del vicino più verde del suo ma purtroppo è una sacrosanta verità perché in Italia il costo dei biglietti per un concerto rock “di grande richiamo” ha raggiunto prezzi da capogiro senza che il servizio sia migliorato, scadente ed inadeguato nella maggior parte dei casi. La Royal Albert Hall è una versione in grande (8000 posti) dell’antico Globe di Shakespeare ovvero un palco con il parterre ed intorno a cerchio le file laterali, due giri di palchetti ed il loggione finale.
Mi ritrovo nella fila laterale più bassa, poco distante dal palco, pagando come per il prossimo 22 giugno Dylan all’Alcatraz ma con il posto assegnato ed un’acustica che non è una stridente accozzaglia di onde sonore. Era dagli anni settanta che non vedevo Eric Clapton, musicista che ho sempre apprezzato e non sempre amato perché la sua discografia non è avara di cadute di gusto e quando viene in Italia spesso accompagna artisti nazionali di cui non me ne frega niente oppure si fa pagare come Frank Sinatra a Las Vegas.
Cinque concerti alla Royal Albert Hall in compagnia di Steve Winwood sono stati una tentazione troppo forte per resistere, considerata l’economia di un volo EasyJet e la voglia di un weekend londinese. Il concerto a cui assisto è quello del 29 maggio, la sera seguente alla vittoria blaugrana in Champions, inutile aggiungere la loro festa in città ma anche la sportività del londinesi che nel pub dove ho visto la finale e bevuto parecchie birre hanno sportivamente applaudito alla fine la squadra campione.
Ma è manolenta che mi ha portato a Londra. Un applauso prolungato lo accoglie quando entra in scena abbigliato come dovesse fare una passeggiatina serale con il cane. Camicia sportiva fuori dai pantaloni, jeans larghi e comodi , scarpe da barca, unica concessione una collana. Winwood non è molto diverso ma sembra più atletico, il tastierista (bravissimo) Chris Stainton (Joe Cocker, Bill Wyman, Pete Townshend) sembra il maggiordomo di The Rocky Horror Picture Show, pallido, magro, capelli lunghi, dritti, ingrigiti, non ha la gobba ma è perennemente piegato su quelle tastiere magiche, sul piano elettrico e sull’Hammond che usa quando Winwood suona la chitarra. La sezione ritmica è di lusso e sta alle spalle, Willie Weeks al basso e l’immenso Steve Gadd alla batteria, due coriste nere ( Michelle John e Sharon White) aggiungono una giusta dose di gospel.
La partenza è a due chitarre (Clapton e Winwood), due Stratocaster azzurre brillano nella notte con Had To Cry Today anticipando il tema dello show ovvero un cocktail di brani di Clapton, Winwood, Blind Faith, Cream, Derek and The Dominos, Spencer Davis Group e Traffic, più qualche blues della tradizione rivisitato a loro modo ed un sentito omaggio allo scomparso Gary Moore con la commovente Still Got The Blues. In quasi due ore me mezzo di show passano più di quarantanni di rock e british blues ai massimi livelli con sortite nel soul, nel R&B, nel jazz e nella psichedelia. Le chitarre cavalcano libere e selvagge, l’ Hammond e il piano evocano Memphis e portano il rock dei bianchi in una chiesa Battista, la sezione ritmica è raffinata e sostanziosa al tempo stesso, le ugole femminili sono calde e sensuali, la voce di Clapton è pigra e low down easy, quella di Winwood è un canto che viene giù da una valle lontana e inonda il tutto con un suono che è anima e sensi. L’equilibrio è perfetto, Winwood canta i Blind Faith (Presence of The Lord è magnifica, Can’t Find My Way Home mette i brividi) , i Traffic (Pearly Queen è uno degli highlights dello show, sontuosamente black, Glad jazzata e progressive si innesta a medley in Well All Right, Dear Mr.Fantasy è l’encore che manda in tripudio la Royal Albert Hall ), lo Spencer Davis Group (una Gimme Some Lovin che mette in piedi il parterre a ballare), Ray Charles (Georgia On My Mind) ed uno scampolo del suo successo da solista ( While You See A Chance). Clapton si occupa del blues (Crossroads magnificamente riarrangiata con voci gospel e lentezze southern, Hoochie Coochie Man è addirittura erotica, Key To Highway e LowDown sono il miglio pretesto affinchè manolenta esibisca quel Strat-Fender sound di cui è inventore) e a metà dello show incornicia in un siparietto acustico una versione anomala di Layla e di That’s No Way To Get Along facendo vibrare le corde della sua chitarra come un cristallo di Boemia.
Dire che il concerto è superbo è superfluo perché sia Clapton che Winwood e il resto della band sono di una classe eccezionale, concedono poco allo spettacolo in quanto a teatralità perché lo spettacolo è nella loro musica, nelle loro stupende canzoni, nelle loro corde, nei loro tasti, nelle voci, nei ritmi, nel suono, un suono che ti entra nella pelle, nelle vene, nel cuore e ti manda in paradiso. Che questa sera si chiama Royal Albert Hall. Prima della fine la festa raggiunge l’apice, Voodoo Chile e Cocaine celebrano un concerto sontuoso. La prima è lunga, ipnotica, carica, la seconda è sbrigativa, tagliata con un laid back leggero e scorrevole, quasi a voler ricordare che certe abitudini sono un lontano ricordo. E’ la musica che immortala Eric Clapton e Steve Winwood, due giganti che per la prima volta formalizzarono la loro partnership nel marzo del 1966 nella compilation What’s Shakin organizzata dal produttore Joe Boyd per la Elektra. Quarantacinque anni di musica ma non li dimostrano.
Mauro Zambellini Giugno 2011
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