Un week-end da ricordare a lungo: un concerto bellissimo alla Royal Albert Hall di Londra, la conquista della Coppa Italia nella stessa sera da parte della mia squadra del cuore e la grande scoppola subita dal duo Berlusconi-Bossi, il giorno dopo, a Milano e nel resto d’Italia. Memorabile.
Mi limito alla musica, naturalmente. Non ero mai stato ed era un sogno: vedere un concerto nella mitica Royal Albert Hall di Londra, teatro che ha ospitato concerti leggendari e parte della storia del rock inglese. All’entrata rimango di stucco, come un teatro di simili dimensioni, elegante signorilità, bellezza e comodità possa essere adibito a spettacoli, come quelli rock, che da noi sono relegati a luoghi “plebei”, a stadi, palazzetti e piazze dove spesso si sente e si vede male, è una fatica prendere da bere e accedere ai servizi una avventura di sopravvivenza. Può sembrare il solito lamento dell’italiano che vede il giardino del vicino più verde del suo ma purtroppo è una sacrosanta verità perché in Italia il costo dei biglietti per un concerto rock “di grande richiamo” ha raggiunto prezzi da capogiro senza che il servizio sia migliorato, scadente ed inadeguato nella maggior parte dei casi. La Royal Albert Hall è una versione in grande (8000 posti) dell’antico Globe di Shakespeare ovvero un palco con il parterre ed intorno a cerchio le file laterali, due giri di palchetti ed il loggione finale.
Mi ritrovo nella fila laterale più bassa, poco distante dal palco, pagando come per il prossimo 22 giugno Dylan all’Alcatraz ma con il posto assegnato ed un’acustica che non è una stridente accozzaglia di onde sonore. Era dagli anni settanta che non vedevo Eric Clapton, musicista che ho sempre apprezzato e non sempre amato perché la sua discografia non è avara di cadute di gusto e quando viene in Italia spesso accompagna artisti nazionali di cui non me ne frega niente oppure si fa pagare come Frank Sinatra a Las Vegas.
Cinque concerti alla Royal Albert Hall in compagnia di Steve Winwood sono stati una tentazione troppo forte per resistere, considerata l’economia di un volo EasyJet e la voglia di un weekend londinese. Il concerto a cui assisto è quello del 29 maggio, la sera seguente alla vittoria blaugrana in Champions, inutile aggiungere la loro festa in città ma anche la sportività del londinesi che nel pub dove ho visto la finale e bevuto parecchie birre hanno sportivamente applaudito alla fine la squadra campione.
Ma è manolenta che mi ha portato a Londra. Un applauso prolungato lo accoglie quando entra in scena abbigliato come dovesse fare una passeggiatina serale con il cane. Camicia sportiva fuori dai pantaloni, jeans larghi e comodi , scarpe da barca, unica concessione una collana. Winwood non è molto diverso ma sembra più atletico, il tastierista (bravissimo) Chris Stainton (Joe Cocker, Bill Wyman, Pete Townshend) sembra il maggiordomo di The Rocky Horror Picture Show, pallido, magro, capelli lunghi, dritti, ingrigiti, non ha la gobba ma è perennemente piegato su quelle tastiere magiche, sul piano elettrico e sull’Hammond che usa quando Winwood suona la chitarra. La sezione ritmica è di lusso e sta alle spalle, Willie Weeks al basso e l’immenso Steve Gadd alla batteria, due coriste nere ( Michelle John e Sharon White) aggiungono una giusta dose di gospel.
La partenza è a due chitarre (Clapton e Winwood), due Stratocaster azzurre brillano nella notte con Had To Cry Today anticipando il tema dello show ovvero un cocktail di brani di Clapton, Winwood, Blind Faith, Cream, Derek and The Dominos, Spencer Davis Group e Traffic, più qualche blues della tradizione rivisitato a loro modo ed un sentito omaggio allo scomparso Gary Moore con la commovente Still Got The Blues. In quasi due ore me mezzo di show passano più di quarantanni di rock e british blues ai massimi livelli con sortite nel soul, nel R&B, nel jazz e nella psichedelia. Le chitarre cavalcano libere e selvagge, l’ Hammond e il piano evocano Memphis e portano il rock dei bianchi in una chiesa Battista, la sezione ritmica è raffinata e sostanziosa al tempo stesso, le ugole femminili sono calde e sensuali, la voce di Clapton è pigra e low down easy, quella di Winwood è un canto che viene giù da una valle lontana e inonda il tutto con un suono che è anima e sensi. L’equilibrio è perfetto, Winwood canta i Blind Faith (Presence of The Lord è magnifica, Can’t Find My Way Home mette i brividi) , i Traffic (Pearly Queen è uno degli highlights dello show, sontuosamente black, Glad jazzata e progressive si innesta a medley in Well All Right, Dear Mr.Fantasy è l’encore che manda in tripudio la Royal Albert Hall ), lo Spencer Davis Group (una Gimme Some Lovin che mette in piedi il parterre a ballare), Ray Charles (Georgia On My Mind) ed uno scampolo del suo successo da solista ( While You See A Chance). Clapton si occupa del blues (Crossroads magnificamente riarrangiata con voci gospel e lentezze southern, Hoochie Coochie Man è addirittura erotica, Key To Highway e LowDown sono il miglio pretesto affinchè manolenta esibisca quel Strat-Fender sound di cui è inventore) e a metà dello show incornicia in un siparietto acustico una versione anomala di Layla e di That’s No Way To Get Along facendo vibrare le corde della sua chitarra come un cristallo di Boemia.
Dire che il concerto è superbo è superfluo perché sia Clapton che Winwood e il resto della band sono di una classe eccezionale, concedono poco allo spettacolo in quanto a teatralità perché lo spettacolo è nella loro musica, nelle loro stupende canzoni, nelle loro corde, nei loro tasti, nelle voci, nei ritmi, nel suono, un suono che ti entra nella pelle, nelle vene, nel cuore e ti manda in paradiso. Che questa sera si chiama Royal Albert Hall. Prima della fine la festa raggiunge l’apice, Voodoo Chile e Cocaine celebrano un concerto sontuoso. La prima è lunga, ipnotica, carica, la seconda è sbrigativa, tagliata con un laid back leggero e scorrevole, quasi a voler ricordare che certe abitudini sono un lontano ricordo. E’ la musica che immortala Eric Clapton e Steve Winwood, due giganti che per la prima volta formalizzarono la loro partnership nel marzo del 1966 nella compilation What’s Shakin organizzata dal produttore Joe Boyd per la Elektra. Quarantacinque anni di musica ma non li dimostrano.
Mauro Zambellini Giugno 2011
1 commento:
Mauro, gli inglesi hanno un'altra classe..e soprattutto una tradizione seria per quanto riguarda gli spazi da adibire alla musica (ma anche tedeschi, americani, giapponesi, estoni e uzbechi.....) siamo solo noi italiani che ancora difettiamo su parecchie cose e consideriamo la musica come un qualcosa da cui ottrenere il massimo guadagno col minimo sforzo; ricordiamoci che Milano si "bruciò" Springsteen per colpa di quattro babbioni che non volevano "rumore" sotto casa....
complimenti per il concerto che deve essere stato magnifico (dannazione non esserci stati, io che almeno una volta all'anno vado in U.K) UN SALUTO!
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