lunedì 24 gennaio 2022

MUDDY WATERS di Robert Gordon


 

Questo di Robert Gordon, autore di numerosi libri e film documentari, non è solo una dettagliata biografia su Muddy Waters ma un grande romanzo del blues. Racconta difatti attraverso la vita travagliata ed avventurosa di McKinley A. Morganfield altrimenti conosciuto come Muddy Waters, nato nel 1913 a Rolling Fork nel Mississippi, il cammino del blues dalle sue origini rurali alla migrazione verso le grandi città industriali del Nord, in particolare Chicago dove subì una trasformazione radicale per via dell’introduzione della chitarra elettrica. Dal Delta country-blues al blues urbano di Chicago, Muddy Waters ha rappresentato l’evoluzione di un genere nato nei campi di cotone del Mississippi e trasformatosi nel mezzo espressivo di una generazione di musicisti urbani afroamericani, oltre a divenire modello per tanti chitarristi e cantanti bianchi sparsi in tutto il mondo. Basti ricordare che uno dei più importanti e longevi gruppi rock della storia, i Rolling Stones, ha preso il nome da una canzone di Muddy Waters, e la stessa canzone è servita come titolo del giornale musicale più conosciuto del pianeta, per riconoscere l’assoluta importanza storica e artistica di Muddy Waters. In questo bel volume della Shake Edizioni, Robert Gordon racconta una storia bellissima pur contrassegnata da vicende turbolenti, pericolose, drammatiche, luttuose, misere, una biografia straordinaria intrisa delle dinamiche e i cambiamenti culturali che hanno visto il blues mutare da un semplice canto di sofferenza al più profondo e popolare linguaggio di espressione dello stato d’animo umano, nelle sue manifestazioni dolci e amare, di gioia e di dolore. Che Muddy Waters  sia l’uomo che più  di tutti ha rappresentato la storia di tale genere musicale lo si poteva ben intuire fin dall’inizio quando pur essendo nato nel 1913 asseriva di essere venuto al mondo nel 1915 ed in un altro luogo da quello reale. Un uomo nato in un anno in cui non era nato, che diceva di essere di una città in cui non era nato e che portava un nome che non gli era stato dato alla nascita, più bluesman di così non si può essere ed è l’atto primo di una storia rocambolesca che Robert Gordon racconta per filo e per segno, con dovizia di particolari, aneddoti, note esilaranti e tristi, avvicendamenti di personaggi, caos famigliare, donne consumate come sigarette (un vero tombeur de femme il nostro Waters), figli riconosciuti e figli perduti, soldi bruciati e soldi mai pervenuti, Cadillac, liti, pistole, gangster, razzismo, maiale e pesce fritto, alcol, tanto alcol ma soprattutto musica. 


Dalla prima canzone incisa, il 31 agosto del 1941 ovvero Country Boy ai suoi testi pieni di sensualità e virilità come Hoochie Coochie Man, I Got My Mojo Working e Mannish Boy o intrisi di insoddisfazione esistenziale come Rollin’ Stone e I Can’t Be Satisfied, dai dischi per la Chess Records fino a Fathers and Sons, l’album dal vivo che avvicinò la generazione hippie al blues, fino alla rinascita di Hard Again voluta per espresso interessamento di Johnny Winter dopo che negli anni settanta Waters sembrava ormai passato di moda, travolto dal massiccio coinvolgimento del pubblico nero verso il soul e dal crescente successo dei gruppi bianchi di rock-blues ( ebbe a dire a proposito “saltano fuori questi ragazzi bianchi che cantano la mia roba ed il giorno dopo sono diventati uno dei più grandi gruppi in circolazione. Noi invece abbiamo lottato tanto per avere un piccolo riconoscimento”), la sua inconfondibile voce e la sua lamentosa slide sono stati il mezzo per conquistare il rispetto per una cultura messa da parte come un mucchio di rifiuti. La sua musica ha diffuso la voce trionfante di gente arrabbiata che chiedeva un cambiamento. Affermava lo stesso Waters “ il blues esisteva prima che io nascessi, ed esisterà sempre. Finché c’è gente che soffre, ci sarà blues”.  Di lui Keith Richards nella prefazione scrive che era come una carta geografica, era la chiave di tutto, e anche dopo essere diventato famoso e aver girato il mondo, continuava a identificarsi con l’ufficio della piantagione di cotone dove veniva pagato per il suo lavoro nei campi.



Un vero cantante di blues non ha nessun interesse per il paradiso e ben poche speranze sulla terra, è per tale ragione che Muddy Waters nel 1943 lasciò il Sud, non molto tempo dopo avrebbe cambiato il sound del blues. Chicago era la terra promessa e per Muddy il sogno si avverò. Aveva uno scopo e lo perseguì con tutti i mezzi, pagandone le conseguenze, solo alla fine della carriera guadagnò molto denaro e visse  gli ultimi anni della sua vita in un felice ambiente famigliare. Robert Gordon con la sua prosa scorrevole ci accompagna in questo lungo tragitto fino al decesso, avvenuto il 30 aprile del 1983, attraverso quindici capitoli ognuno relativo ad un lasso di tempo definito. Un viaggio trasognato ed insieme un pugno allo stomaco, dai campi di cotone del Mississippi e al dolore che li permeava, ai balli e le prostitute dei juke joint, dall’incontro con Alan Lomax alle strade malfamate di Chicago con le sue fabbriche, i suoi macelli e i suoi effervescenti club. L’amore per Robert Johnson e la rivalità con Howlin’ Wolf, l’amicizia con il chitarrista Jimmy Rogers, la stima per Willie Dixon ed il sodalizio col pianista Otis Spann, il ruolo di maestro e bandleader per i tanti che sono passati sotto la sua ala, Little Walter, James Cotton, Paul Oscher, Bob Margolin, Calvin Jones, Hubert Sumlin, Dave Peabody e tanti altri. Completo di riferimenti discografici  e di note succulenti, come quella relativa ai preparativi di The Last Waltz quando il manager di studio cercò di convincere Levon Helm a estromettere Muddy Waters dallo spettacolo e questi gli rispose “togliti immediatamente dalla mia vista figlio di puttana prima che dica ad uno di quei ragazzi dell’Arkansas di massacrarti di botte” e nella stessa occasione, durante le prove, tutti i chitarristi presenti,  da Robbie Robertson a Bob Dylan, da Eric Clapton a Neil Young e Steve Stills, rimasero a bocca aperta guardando Waters suonare Nine Below Zero, e l’espressione sulle loro facce valeva da sola il prezzo del biglietto.



La cultura del blues ha avuto un impatto sul ventesimo secolo che non è stato secondo a nessuno, Muddy Waters è stato “il blues” per antonomasia e non solo, questo è un libro che gli amanti della musica non possono ignorare. Fondamentale.

 

MAURO ZAMBELLINI       GENNAIO 2022

 

martedì 4 gennaio 2022

MY PLAYLIST 2021


 

Secondo anno in compagnia del Covid, concerti e festival saltati, il settore della cultura e dello spettacolo annichilito, tanti scomparsi, musicisti e non. Il tempo non aspetta nessuno, se ci si mette anche il virus è una strage. Che dire? Un anno di merda e l’orizzonte non è affatto luminoso. Cerchiamo di consolarci, un po’ se ci riusciamo, con i dischi e i libri e magari qualche film rubato a sporadiche e mascherate escursioni al cinema. Ho guardicchiato le classifiche di riviste musicali internazionali, pluripremiato è Ignorance di The Weather Station che altro non è che la cantautrice Tamara Lindeman. Nulla da obiettare, i gusti non si discutono ma se un disco così pallido vince la playlist di tanti magazine, c’è da riflettere sulla musica dei giorni nostri, o meglio sui giorni nostri, veramente miseri. Non voglio infilarmi nell’annoso dibattito se fosse meglio la musica del passato ma un disco come Ignorance, (ignoro i testi), nei decenni del secolo scorso sarebbe passato inosservato, al più sarebbe stato un outsider. Considerato l’identico ambiente di musica intimista, rarefatta, a metà via tra pop, rock, jazz e canzone d’autore provate a confrontarlo con un album come Shine di Joni Mitchell del 2007, quindi nemmeno troppo distante nel tempo, quest’ultimo lo sotterra. Come mandare il Venezia, di cui sono tifoso( dopo l’Inter si intende) a giocare contro il Manchester City.




Per fortuna non tutti esprimono le stesse classifiche e playlist, la mia è sempre stata definita tradizionalista ma l’età è quella che è, e non posso perdere troppo tempo dietro a dischi che nel giro di due/tre anni nessuno ricorda più. Si chiamano classici e ci sarà una ragione se anche con ristampe e concerti ritrovati fanno ancora sobbalzare dalle emozioni. Prendete ad esempio The Legendary 1979 No Nukes Concerts, chi ha suonato dal vivo come Bruce Springsteen e la E-Street Band tra il 1978 ed il 1981? Nessuno, forse solo Tom Petty e i suoi Heartbreakers in qualche tour e Neil Young coi Crazy Horse, per rimanere in quel contesto di rocker/songwriter and his band. Guardatevi il video del Madison Square Garden con uno Springsteen trentenne al massimo del suo vigore rocknrollistico, d’accordo che l’iniziativa era a favore delle energie alternative e contro il nucleare ma quello show con la E-Street Band è una devastante esplosione atomica.



Raffiche di vento, tempesta elettrica, mitragliate di chitarra ed una galoppata selvaggia come solo il bisonte Neil Young sa fare. Way Down in The Rust Bucket è lo spettacolare show del 13 novembre 1990 al Catlayst di Santa Cruz in California con i Crazy Horse durante il tour seguito alla pubblicazione di Ragged Glory. Rock n’ roll potente, visionario, furioso, crudo e psichedelico, altra deflagrazione atomica come quella di Bruce. Del canadese è uscito nell’anno appena trascorso, e ancora coi Crazy Horse,  l’album in studio Barn, ma sarebbe meglio dire in fattoria visto che è stato registrato in un casolare di legno sulle Montagne Rocciose, ed è un buon disco, non un capolavoro ma valevole d’acquisto, per chi scrive il suo miglior lavoro dai tempi di Psychedelic Pills. Ballate  dolenti dal sapore rurale, un po’ di nostalgia nelle melodie e taglienti accelerazioni elettriche. Una ballata, Welcome Back, che si candida tra i migliori brani dell’anno. A chiudere il triangolo non ci poteva essere che Bob Dylan che dopo aver sbancato le classifiche lo scorso anno con Rough and Rowdy Ways quest’anno partecipa ai giochi col Vol.16 delle Bootleg Series. Non sono un tossicodipendente di bootleg series, ovvero non tutte me le faccio anche se nutro una stima infinita per il Sig. Zimmerman ma Springtime in New York 1980-1985 è grandioso, con “scarti” che abbracciano tutto quello che c’è da sapere su Dylan ed il rock n’roll di quel periodo. I dylanologi rigorosi non l’hanno incensato come sono soliti fare e questo è un buon segno, ci sono tanti Dylan e ognuno ama il suo. Questo del Vol.16 a me fa impazzire, ruota attorno alla nascita nel 1983 a New York presso il Power Station Studio di Infidels, un disco rockato, metropolitano, oserei dire springsteeniano, ma ci sono anche out-takes del discutibile Shot of Love e del bistrattato Empire Burlesque. Il box di 5CD è una fotografia della fredda primavera newyorchese dei primi ottanta con brani come Don't Fall Apart Me Tonight, Blind and Willie McTell, Jokerman, New Danville Girl, Neighborhood Bully, Sweetheart Like You, Union Sundown, Too Late  in grado di mettere in ginocchio chiunque. Musicisti come la sezione ritmica reggae Ainsley Dunbar-Robbie Shakespeare, tastieristi come Alan Clark, chitarristi come Mark Knopfler e Mick Taylor, qui la arruffata poesia di strada di Dylan si veste di caotico, elettrico folk-rock urbano e diverse out-takes sono lì a dimostrare che un album come Empire Burlesque sarebbe stato altra cosa se gli scarti fossero stati preferiti ai tagli ufficiali. Rimanendo nel girone Leoni & Ristampe ricordo che Summer of Sorcery Live!  di Little Steven coi Disciples Soul è un triplo Cd live per ballare e cantare, divertente e sgarruppato, coloratissimo e garage, registrato al Beacon Theatre di New York nel novembre del 2019, e sempre da New York ma dal Madison Square Garden  arriva la sontuosa celebrazione di uno dei gruppi americani più amati di sempre, la Allman Brothers Band. I pochi rimasti e i tanti che hanno suonato con loro, da Derek Trucks a Warren Haynes, da Jaimoe a Chuck Leavell, da Otel Burbridge a Reese Wynans, sotto il nome di The Brothers due giorni prima che il mondo venisse messo in lockdown, hanno dato vita ad un evento unico, omaggiando la musica e le canzoni degli Allman con una performance da lasciare senza parole e senza fiato, parte del cui ricavato è andato a The Big House la fondazione creata nella casa di Vineville Ave. a Macon dove tra il 1970 ed il 1973 vissero gli Allman. Musica galattica tra rock, blues, soul, jazz e psichedelia, tutto in formato jam, raccolta in quattro CD. Ancora un disco live poco chiacchierato ma piacevolissimo, da suonare ad alto volume in macchina, è Breaking Ground cronaca di un concerto della Steve Miller Band nel Maryland il 3 agosto del 1977 subito dopo l’uscita del disco Book of Dreams. Insieme al superlativo Steve Miller c’è l’armonicista Norton Buffalo, lo show è brillante, blues e cosmic-rock con tutti i cavalli di battaglia della SMB e qualcosa di più, catturato in un momento topico della loro carriera.



Il più bell’album di scarti della storia del rock rimane Tattoo You originariamente pubblicato nel 1981 e quest’anno riedito con l’aggiunta di un Cd intitolato Lost and Found:Rarities ovvero altri nove scarti di album precedenti, alcuni davvero notevoli nel focalizzare quei Rolling Stones tra anni settanta e ottanta ancora sporchi, febbricitanti, sensuali.

Se questi sono i pesi lordi che non possono mancare, altri titoli, forse anche minori, tengono in piedi quella grande fabbrica di sogni che è il rock n’roll, ogni anno messa a dura prova da cambiamenti estetici e socioculturali. Per chi continua ad accontentarsi del benessere indotto da un cantante che si destreggia attorno a chitarre, basso, batteria e qualche tastiera, il 2021 non è stato avaro. John Paul Keith è un autentico sconosciuto che vive a Memphis e con The Rhythm of the City ha rinfrescato un sound che negli anni settanta era di casa in quella città grazie alle registrazioni della Hi Records e della Sun, ovvero un mix di soul, rockabilly e blues con un pizzico di pub-rock al servizio di una voce calda  e confidenziale. Molto più conosciuto è Dan Auerbach, leader dei Black Keys, che oltre ad essere artefice attraverso la sua etichetta personale Easy Eye Sound di una riscoperta del soul di stampo vintage, assieme all’amico Patrick Carney, al bassista Eric Deaton e al chitarrista Kenny Brown, ha realizzato un sentito tributo al Hills Country Blues, quel ramo di Delta blues tipico delle colline settentrionali del Mississippi, sbocciato tra Oxford e Holly Springs, i cui padri hanno i nomi di Fred Mc Dowell, Junior Kimbrough e R.L Burnside. Delta Kream dei Black Keys è spigoloso e forte, come un sorso di bourbon distillato clandestinamente, trasmette quel ruspante sapore della cucina down-home, è volutamente provinciale e dimostra quanto rispetto nutra verso le radici blues  uno dei gruppi di pop e rock più popolari degli Stati Uniti. Chapeau. Rimanendo nel circondario, proprio dalla citata scuderia di Auerbach, arriva il secondo disco di Robert Finley per la Easy Eye Sound ovvero Shorecrppper’s Son, nuovo attestato delle capacità del cantante di Bernice, Louisiana, dopo una vita avventurosa e sfortunata, di usare il suo falsetto per un southern soul che anche qui attinge al Hills Country Blues, alle spezie down-home e allo stile delle registrazioni  Muscle Shoals. Georgiano di Atlanta il venticinquenne Eddie 9V al secolo Brooks Mason Kelly, con Little Black Flies si rivela un astro nascente della musica del Sud di derivazione blues, anche se il suo spumeggiante cocktail prevede massicci innesti di soul  Stax, di rockabilly e funky n’roll. Un disco energico, brioso e zeppo di feeling per un cantante e chitarrista, ma Eddie 9V suona un sacco di strumenti, che, arrivato di giovanissimo sulla scena, sa come maneggiare gli insegnamenti dei grandi vecchi mettendoci dentro istinto, passione, cuore e quel pizzico di sporcizia che ci vuole. Siamo agli antipodi di Joe Bonamassa. 



Che il Sud-Est degli Stati Uniti continui a sventolare la bandiera di una musica autentica e di cuore lo dimostra la dedica che Jason Isbell, pur essendo nativo dell’Alabama, con i suoi 400 Unit ha rivolto allo stato della Georgia dopo che questo ha voltato le spalle a Trump ed è passato sotto l’egida democratica. Il suo è un disco di canzoni “georgiane” i cui proventi sono andati in beneficenza, Georgia Blue questo il titolo del disco presenta composizioni dei R.E.M, Black Crowes, Drivin’ N’ Cryin’, Otis Redding, James Brown, Cat Power, Vic Chesnutt, interpretati da Isbell con la sua band e con alcuni invitati. Particolare menzione per la resa di Midnight Train To Georgia con Britney Spencer e John Paul White ed una sfavillante in Memory of Elizabeth Reed con Peter Levin. Molto applaudito dalle riviste nostrane, e mi unisco al coro, il texano James McMurtry con The Horses and The Hounds è ritornato ai suoi momenti migliori dopo alcuni dischi piuttosto routinari, e mi va di segnalare anche Open Door Policy degli Hold Steady per chi ama le atmosfere dell’heartland rock di spirito blue collar. L’affettuoso ricordo per la prematura scomparsa del figlio,  Steve Earle lo ha scritto in J.T bell’omaggio alle canzoni dello scomparso con calde sfumature country e folk ed una Harlem River Blues da antologia, mentre su altri lidi l’errabondo songwriter Israel Nash ha raggiunto il suo personale highlight con il rarefatto rock cosmico di Topaz, immergendosi in quei paesaggi lisergici che furono del Jonathan Wilson di Gentle Spirit.  All’insegna di un rock-blues alla cartavetrata e di un sana attitudine blue-collar è Get Humble  degli Handsome Jack, trio dell’area newyorchese che non nasconde l’amore per i Creedence Clearwater Revival e per quelle band proletarie sorte su imitazione dei Faces. Ma un disco che ho ascoltato parecchio e mi ha sedotto per gentilezza melodica, per il clima estatico di certe armonie, per la serenità e la tranquillità che infonde è Other You di Steve Gunn, un autore ed un chitarrista originale seppur legato ai paesaggi di un folk-rock pastorale basato su un artigianale lavoro strumentale. Meno d’impatto rispetto ai precedenti Eyes On The Lines e The Unseen in Between, il nuovo disco conserva la circolarità di ballate che disegnano un loop emotivo fatto di suoni cristallini e visioni bucoliche. Other You è il mio disco (nuovo) del 2021.

Passando al panorama italiano, vivace e fertile, cito quattro lavori diametralmente diversi l’uno dall’altro. Me and The Devil della J.F Band che è riduttivo dire italiana visto la presenza del percussionista Jaimoe degli Allman, dei chitarristi David Grissom (Joe Ely e John Mellencamp),Scott Sharrard (Gregg Allman Band) e del bassista Joe Fonda, è un potente, jammato ed improvvisato melting di jazz-rock e blues dove spiccano spiritate e stravolte versioni di Robert Johnson ed una Spanish Moon trattata jazz in grado di resuscitare anche Lowell George. Al polo opposto Warriors Grow Up and Die di Luca Milani è un disco  riflessivo, intimista, di colori autunnali e  note languide che segna uno scarto in senso cantautorale nella sua discografia, stesso passo intentato anche da Maurizio Glielmo detto Gnola ma in quell’area in cui il songwriting si fonde col rock e col blues. Aiutato dai soliti pards, Gnola con Beggars and Liars avvia un percorso ai confini del roots-rock di scuola Hiatt e J.J Cale iniettandolo di melodie southern soul. Uno strappo ragionato rispetto agli shuffle con cui ha brillantemente costruito la sua avventura blues tra dischi in studio e concerti dal vivo. I marchigiani Gang continuano invece imperterriti sulla loro strada col produttore Jono Manson e con un pugno di canzoni (Ritorno al Fuoco) che tra storie d’Italia, sentimenti popolari, coerenza, folk e rock allunga la grande tradizione del canzoniere italiano di natura sociale.



Di documentari musicali mi va di ricordare Summer of Soul, tenuto nel dimenticatoio per 50 anni e testimone della Woodstock afroamericana svoltasi a Morris Mount Park ad Harlem negli stessi giorni della missione lunare Apollo e nello stesso anno del più celebrato festival rock. Uno spaccato dell’altra parte d America con la sua gioia, la sua cultura, i suoi colori, i suoi dolori ed il suo ritmo, mentre per quanto riguarda le letture consiglio Leadbelly di Edmond G.Addeo e Richard M.Garvin, Muddy Waters di Robert Gordon, Bees Wing di Richard Thompson, New York Rock di Steven Blush, Storie Sterrate di Marco Denti e The Allman Brothers Band-I Ribelli del Southern Rock che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima. E’ tutto, speriamo in un anno migliore, ciao.

 

MAURO ZAMBELLINI