Fino alla fine del secolo scorso i Rolling Stones sono stati la più grande rock n’roll band della storia, poi nei duemila hanno cavalcato con furbizia la loro leggenda non privando il pubblico di grandi show come testimoniano le diverse pubblicazioni uscite a seguito dei tour Four Licks, Bigger Bang, 14 On Fire e No Filter.
L’ultimo
tour del secolo scorso fu allestito per promuovere l’album Bridges To Babylon, iniziato il 23 settembre 1997 a
Chicago si concluse due anni dopo il 20 giugno a Colonia in Germania. Ci fu una
interruzione nella parentesi europea, un primo segmento con partenza nel giugno
1998 da Norimberga e arrivo a Istanbul nel settembre dello stesso anno, ed una seconda tranche tra
maggio e giugno del 1999. Un tour faraonico che toccò Stati Uniti, Canada,
Messico, Giappone, Sud America, Germania, Belgio, Olanda, Francia, Svizzera,
Austria, Spagna, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Estonia, Russia,
Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Grecia e Turchia, ma non l’Italia. Appendice
di quella carovana fu il No Security Tour, il cui disco
omonimo uscì nel novembre del 1998, con date negli Stati Uniti, in Canada ed
Europa, per esibizioni in arene più piccole a differenza dei mega stadi del Bridges
To Babylon, luoghi che contenessero al massimo 20 mila persone.
Dall’inesauribile archivio delle Pietre Rotolanti arriva in via ufficiale la
registrazione del 8 giugno 1999 al Shepherd’s Bush di Londra prima delle due
serate a Wembley che raccolsero circa 70 mila persone. I Rolling Stones si
esibirono per un numero di limitati fortunati (1800) nel teatro di Shepherd’s
Bush, venue che sorge nel quartiere di Hammersmith noto alle cronache del rock
fin dagli anni sessanta. Lo spazio ridotto, l’intimità di un pubblico
sostanzialmente da club, la felicità di suonare in casa regalano un feeling
paragonabile agli anni in cui gli Stones ad inizio carriera si esibivano al
Crawdaddy. Performance di classe,
atmosfera da club, qualità audio eccelsa, sound meno potente rispetto a quello
degli stadi, con parecchie sottigliezze strumentali, Welcome To Sheperd’s Bush è
paragonabile (pur con le diversità del caso) al Mocambo 1977 e alle esibizioni in formato teatro (
Paradiso Amsterdam, Olympia Parigi,
Brixton Academy Londra) immortalate nello splendido ed imperdibile cofanetto Totally
Stripped. Disponibile in più
formati (BluRay+2CD, 2CD, 2LP, 4K UHD) Welcome To Shepherd’s Bush è un
attestato della grandeur degli Stones nel secolo scorso prima che
lo spettacolo in sé prenda il sopravvento. Se la voce di Mick Jagger nel corso del tempo ha sorprendentemente tenuto, tanto che
le ultime performance non hanno nulla da invidiare alle più nobili esibizioni
del passato, lo stesso non si può dire per l’amato Keith Richards che dopo la “caduta dall’albero” ha un po’ smarrito
quello smalto e quel graffio che da chitarrista ritmico tramutava in un
diabolico e geniale colpo solista, rendendo riconoscibile dopo solo una nota la
canzone intera. Ancora oggi i suoi riff sono una delle portate più attese dello
show delle Pietre ma mi è capitato di assistere in concerti recenti a delle
entrate che più dei riff assomigliavano a dei frastuoni metal. Poco male, va
bene così per un musicista che è sul palco da più di sessanta anni, di fianco
c’è l’amico Ron Wood che a tratti è il vero motore chitarristico della band,
specie quando lavora di slide. Ne è sempre stato consapevole Keef fin da tempi
non sospetti, affermò difatti “ Ronnie
porta la giusta alchimia, a contrario di Mick Taylor è uno fatto per una band
con due chitarre, la sua forza che è poi anche la mia, è suonare in coppia con
un altro chitarrista. Niente menate virtuosistiche”. Nella calda serata del Shepherd’ s Bush dove
il livello di energia è costante per tutti i 96 minuti del set, Keith Richards
è ancora lo stregone che con un solo tocco ti rivela cosa sia il rock n’roll e gli Stones sono quella alchimia che ti fa
dire, cazzo ma questi nella loro
apparente semplicità rock-pop-blues hanno davvero venduto l’anima al diavolo.
Forse lo pensavano anche i colleghi accorsi a vederli nel teatro di
Hammersmith, da Pete Townshend a Jimmy Page, da Robert Plant a Lenny Kravitz,
dagli Areosmith alle mogli, ed ex mogli. Nel 1999 gli Stones non avevano ancora
compiuto i 40 anni di attività ma la storia l’avevano già scritta e questa è
una ulteriore occasione per sentire ancora l’ odore di zolfo perché il menù non
è il karaoke degli ultimi anni. Ci sono ingredienti “esotici” come Melody che prima era stata eseguita live solo a
El Mocambo e qui beneficia del raffinato lavoro di Chuck Leavell al pianoforte e Michael Davis col trombone, le rarissime
rese di Moon Is Up e Brande New Car estratte da Voodoo Lounge, una
sontuosa versione di I Got The Blues e
quella Route 66 che attesta la vicinanza della loro Londra
a Chicago, Memphis e New Orleans.
19
titoli tra cui tre classici messi nel finale, Tumbling Dice con Richards che riffa di brutto e alle spalle la
sezione fiati (Bobby Keys, Tim Ries,Micheal Davis, Kent Smith) che inscena uno
smargiasso e chiassoso R&B, i sei
minuti e passa di Brown Sugar con incendiario assolo di Bobby Keys al sax e Charlie
Watts inusuale “picchiatore”, ed una devastante, veemente e colossale Jumpin’ Jack Flash che fa piazza pulita di tante altre
versioni. Nel mezzo spicca Honky Tonk
Women con l’invitata di turno Sheryl Crow ( frequente sui palchi del Bridges
To Babylon Tour )a fianco di Lisa Fisher ed una scoppiettante It’s Only Rock n’ Roll. L’inizio è affidato alla lasciva e funky Shattered, alla nervosa e punkizzata Respectable , all’unico estratto di Exile
All Down The Line resa
caliente dall’infuocata sezione fiati all’unisono, e ad una intensa versione
bluesata di Some Girls con Wood e Keef
in gran spolvero. Lo stesso Richards si riappropria (vocalmente parlando) di Before They Make Me Run e sfoggia un malinconico country-blues in You Got The Silver, la quale
immancabilmente evoca in me una scena del film di Antonioni Zabriskie Point e mi rimanda ad un mondo
che oggi mi pare sia appartenuto ad un altro pianeta. You Got Me Rocking, anch’essa di Voodoo Lounge, promossa nei successivi tour a classico
del loro set, è una frustata con il magnifico slidin’ di Ron Wood e la furba Saint of Me proveniente dal loro album
in studio del momento, grazie al coro del pubblico che ne allunga il finale si
tramuta in quegli inni cantati da tutto lo stadio nel football inglese.
Classe,
canzoni e feeling, nel caso specifico un suono pulito da teatro con
arrangiamenti di fiati e cori di prim’ordine, da qualunque parte ed in
qualsiasi momento li si prenda i Rolling Stones non deludono mai.