sabato 30 novembre 2024

THE ROLLING STONES Welcome to the Shepherd's Bush



Fino alla fine del secolo scorso i Rolling Stones sono stati la più grande rock n’roll band della storia, poi nei duemila hanno cavalcato con furbizia la loro leggenda non privando il pubblico di grandi show come testimoniano le diverse pubblicazioni uscite a seguito dei tour Four Licks, Bigger Bang, 14 On Fire e No Filter.

L’ultimo tour del secolo scorso fu allestito per promuovere l’album Bridges To Babylon,  iniziato il 23 settembre 1997 a Chicago si concluse due anni dopo il 20 giugno a Colonia in Germania. Ci fu una interruzione nella parentesi europea, un primo segmento con partenza nel giugno 1998 da Norimberga e arrivo a Istanbul nel settembre  dello stesso anno, ed una seconda tranche tra maggio e giugno del 1999. Un tour faraonico che toccò Stati Uniti, Canada, Messico, Giappone, Sud America, Germania, Belgio, Olanda, Francia, Svizzera, Austria, Spagna, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Estonia, Russia, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Grecia e Turchia, ma non l’Italia. Appendice di quella carovana fu il No Security Tour, il cui disco omonimo uscì nel novembre del 1998, con date negli Stati Uniti, in Canada ed Europa, per esibizioni in arene più piccole a differenza dei mega stadi del Bridges To Babylon, luoghi che contenessero al massimo 20 mila persone. Dall’inesauribile archivio delle Pietre Rotolanti arriva in via ufficiale la registrazione del 8 giugno 1999 al Shepherd’s Bush di Londra prima delle due serate a Wembley che raccolsero circa 70 mila persone. I Rolling Stones si esibirono per un numero di limitati fortunati (1800) nel teatro di Shepherd’s Bush, venue che sorge nel quartiere di Hammersmith noto alle cronache del rock fin dagli anni sessanta. Lo spazio ridotto, l’intimità di un pubblico sostanzialmente da club, la felicità di suonare in casa regalano un feeling paragonabile agli anni in cui gli Stones ad inizio carriera si esibivano al Crawdaddy.  Performance di classe, atmosfera da club, qualità audio eccelsa, sound meno potente rispetto a quello degli stadi, con parecchie sottigliezze strumentali,  Welcome To Sheperd’s Bush è paragonabile (pur con le diversità del caso) al Mocambo 1977  e alle esibizioni in formato teatro ( Paradiso  Amsterdam, Olympia Parigi, Brixton Academy Londra) immortalate nello splendido ed imperdibile cofanetto Totally Stripped.  Disponibile in più formati (BluRay+2CD, 2CD, 2LP, 4K UHD) Welcome To Shepherd’s Bush è un attestato della grandeur  degli Stones nel secolo scorso prima che lo spettacolo in sé prenda il sopravvento. Se la voce di Mick Jagger nel corso del tempo ha sorprendentemente tenuto, tanto che le ultime performance non hanno nulla da invidiare alle più nobili esibizioni del passato, lo stesso non si può dire per l’amato Keith Richards che dopo la “caduta dall’albero” ha un po’ smarrito quello smalto e quel graffio che da chitarrista ritmico tramutava in un diabolico e geniale colpo solista, rendendo riconoscibile dopo solo una nota la canzone intera. Ancora oggi i suoi riff sono una delle portate più attese dello show delle Pietre ma mi è capitato di assistere in concerti recenti a delle entrate che più dei riff assomigliavano a dei frastuoni metal. Poco male, va bene così per un musicista che è sul palco da più di sessanta anni, di fianco c’è l’amico Ron Wood che a tratti è il vero motore chitarristico della band, specie quando lavora di slide. Ne è sempre stato consapevole Keef fin da tempi non sospetti, affermò difatti “ Ronnie porta la giusta alchimia, a contrario di Mick Taylor è uno fatto per una band con due chitarre, la sua forza che è poi anche la mia, è suonare in coppia con un altro chitarrista. Niente menate virtuosistiche”.  Nella calda serata del Shepherd’ s Bush dove il livello di energia è costante per tutti i 96 minuti del set, Keith Richards è ancora lo stregone che con un solo tocco ti rivela cosa sia il rock n’roll  e gli Stones sono quella alchimia che ti fa dire, cazzo ma questi nella loro apparente semplicità rock-pop-blues hanno davvero venduto l’anima al diavolo. Forse lo pensavano anche i colleghi accorsi a vederli nel teatro di Hammersmith, da Pete Townshend a Jimmy Page, da Robert Plant a Lenny Kravitz, dagli Areosmith alle mogli, ed ex mogli. Nel 1999 gli Stones non avevano ancora compiuto i 40 anni di attività ma la storia l’avevano già scritta e questa è una ulteriore occasione per sentire ancora l’ odore di zolfo perché il menù non è il karaoke degli ultimi anni. Ci sono ingredienti “esotici” come Melody  che prima era stata eseguita live solo a El Mocambo e qui beneficia del raffinato lavoro di Chuck Leavell al pianoforte e Michael Davis col trombone, le rarissime rese di Moon Is Up e Brande New Car  estratte da Voodoo Lounge, una sontuosa versione di I Got The Blues e quella Route 66  che attesta la vicinanza della loro Londra a Chicago, Memphis e New Orleans.

19 titoli tra cui tre classici messi nel finale, Tumbling Dice con Richards che riffa di brutto e alle spalle la sezione fiati (Bobby Keys, Tim Ries,Micheal Davis, Kent Smith) che inscena uno smargiasso e chiassoso R&B, i sei minuti e passa di Brown Sugar  con incendiario assolo di Bobby Keys al sax e Charlie Watts inusuale “picchiatore”, ed una devastante, veemente e colossale Jumpin’ Jack Flash  che fa piazza pulita di tante altre versioni. Nel mezzo spicca Honky Tonk Women  con l’invitata di turno Sheryl Crow ( frequente sui palchi del Bridges To Babylon Tour )a fianco di Lisa Fisher ed una scoppiettante It’s Only Rock n’ Roll.  L’inizio è affidato alla lasciva e funky Shattered, alla nervosa e punkizzata Respectable , all’unico estratto di Exile  All Down The Line  resa caliente dall’infuocata sezione fiati all’unisono, e ad una intensa versione bluesata di Some Girls con Wood e Keef in gran spolvero. Lo stesso Richards si riappropria (vocalmente parlando) di Before They Make Me Run  e sfoggia un malinconico country-blues in You Got The Silver, la quale immancabilmente evoca in me una scena del film di Antonioni Zabriskie Point e mi rimanda ad un mondo che oggi mi pare sia appartenuto ad un altro pianeta. You Got Me Rocking, anch’essa di Voodoo Lounge, promossa nei successivi tour a classico del loro set, è una frustata con il magnifico slidin’ di Ron Wood e la furba Saint of Me proveniente dal loro album in studio del momento, grazie al coro del pubblico che ne allunga il finale si tramuta in quegli inni cantati da tutto lo stadio nel football inglese.  

Classe, canzoni e feeling, nel caso specifico un suono pulito da teatro con arrangiamenti di fiati e cori di prim’ordine, da qualunque parte ed in qualsiasi momento li si prenda i Rolling Stones non deludono mai.

 

MAURO ZAMBELLINI    NOVEMBRE 2024

 

mercoledì 27 novembre 2024

JAMES LEE BURKE Clete Jimenez Edizioni

Per la prima volta nella serie del detective Dave Robicheaux, l’autore James Lee Burke affida il ruolo di protagonista a Cletus Purcel, storico compagno di avventura di Robicheaux, investigatore privato, ex membro del Dipartimento di Polizia di New Orleans  allontanato per i suoi modi non propriamente ortodossi e veterano di guerra. Sempre in prima linea quando c’è da prendere la parte dei più deboli, corazza dura e pochi punti deboli, Clete sa che Dave è il cavaliere errante e lui lo scudiero ma non per questo rinuncia ad immergersi in prima persona nel lercio mondo della Louisiana del Sud stravolto dalla droga,  abitato da corrotti invischiati con la politica, da papponi capaci di accarezzare una donna solo con la frusta o sottometterla con l’eroina, da riccastri in cerca di notorietà ma semplici pedine di un gioco più grande di loro, da ambigue femme fatale disposte a tutto, da sudicie frattagli umane che inneggiano ai campi di concentramento nazisti e non si fanno scrupolo nel commerciare il leprechaun, nome di un uno gnomo irlandese per nascondere una sostanza altamente tossica capace di scatenare una epidemia mondiale. Tutto inizia quando Clete trova la sua Cadillac Eldorado del 1959 saccheggiata e fatta a pezzi da un gruppo di teppisti coinvolti nel traffico di droga, il suo passato tormentato emerge con prepotenza e scatena una reazione istintiva pensando a quegli spacciatori che hanno venduto il fentanyl  a sua nipote, morta per overdose. Si mette sulle tracce dei responsabili e viene assunto da una donna misteriosa per indagare su suo marito che sembra coinvolto con i responsabili del traffico di leprechaun, imbattendosi di conseguenza in una serie di brutali omicidi ad opera di un uomo tatuato che compare nelle situazioni più impensabili. L’intreccio si complica, Clete ha allucinazioni in cui vede Giovanna d’Arco rivelarsi  come consigliera e protettrice nell’ aiutarlo a sfuggire agguati mortali, mette in dubbio i secondi fini della donna che lo ha assunto come detective e con l’aiuto di Dave Robicheaux entra nel corto circuito di un mondo in cui i bastardi che hanno distrutto la sua Caddy ed i relativi personaggi di contorno potrebbero essere le pedine di un piano molto più oscuro e pericoloso di quanto potessero immaginare. Avvincente e violento e sorretto dall’inconfondibile prosa di James Lee Burke, umoristica, sagace, visionaria, altamente  lirica quando si dilunga nelle descrizioni di quella parte della Louisiana che si estende tra New Orleans e la regione cajun, trasportando i lettori letteralmente in quel luogo di magia e mistero.  Era un luogo antidiluviano che poteva essersi formato durante il primo giorno della Creazione e poi essere stato dimenticato: era selvatico e minaccioso in modo tranquillo, con le paludi e gli acquitrini che sfociavano nel Golfo del Messico senza che se ne vedesse la fine. La sua bellezza testimonia se stessa, come una signora vanitosa e temibile. I chilometri di canneti sommersi, tifa e muschio appeso alle querce, i pellicani che volano in  formazione, il rollio delle nuvole  e le trombe d’acqua all’orizzonte ti fanno tremare. Il sole non  cala, muore, e il suo fuoco si porta dietro il fumo rosso”,  Clete  porta una nuova prospettiva ad un serie divenuta iconica, il miglior romanzo a puntate sul profondo Sud americano nella costante lotta tra la giustizia dei deboli ed il male dei potenti e criminali, letture che non si vorrebbero mai concludere tanto perspicaci sono le metafore sociali e la vena dissacrante dei due protagonisti. Forse in Clete  sono più importanti l’analisi psicologica dei personaggi, la dettagliata descrizione ambientale, la suggestione visionaria di un Medioevo che sale  come nebbia dal bayou, più che la storia stessa, quasi un pretesto per potarci in un universo che si vorrebbe contemporaneamente vivere e fuggire. Come afferma Clete a pag.307  : “ Sempre meglio che vivere nella Città della Noia.  Come diceva il grande filosofo americano Bob Seger, datemi il vecchio rock n’roll di una volta”.

MAURO ZAMBELLINI       NOVEMBRE 2024