Qualcuno si ricorderà di quell’album uscito nel lontano 1980 con in copertina, rigorosamente in bianco e nero, la foto di un giovane di bell’aspetto con giacca, camicia scura e sigaretta tra le labbra. Un disco che trasudava New York da tutti i solchi e metteva in fila una sequenza di canzoni capaci di catapultarvi in un film sotto una luna vagabonda , dietro la cattedrale mentre qualcuno sing me a song.
Scampoli di romanticismo springsteeniano, espliciti fino nel titolo di Across The River e riminiscenze di linguaggio stoniano (She’s So Cold) mischiati con crudi scatti di vita urbana come gli Old Men Sleeping On The Bowery e accorate preghiere (Dear Lord), il tutto all’insegna di un rock n’roll diretto, tagliente e senza fronzoli, che sapeva di Fender e di ritmi nervosi alla Who. Si intitolava semplicemente Willie Nile quel disco, che poi era il nome del suo autore, uno che era nato a Buffalo ma si era spostato nel Greenwich Village e allora la stampa americana gli era corsa attorno gridando al nuovo Dylan, l’ennesimo.
Ne è passato di tempo, quasi tutti i nuovi Dylan si sono persi, nessuno è diventato Dylan ma Willie Nile è rimasto quel folletto arguto, vivace, pieno di cuore ed entusiasmo che saltava impugnando la Fender voltando le spalle al pubblico e volgendo lo sguardo al proprio batterista, che altri non era che Jay Dee Daugherty, quello che ancora oggi suona nel Patti Smith Group.
Nile non ha fatto una carriera esorbitante, c’era da aspettarselo, troppo cuore ed eleganza per entrare nel ring ma nemmeno è diventato una figura patetica del Greenwich che fu. Ha continuato per la sua strada, pubblicando dischi in giusta misura, né troppi né troppo pochi, togliendosi dalla circolazione per un po’ di tempo ma continuando con la sua arte e non avvilendosi perché i tempi erano cambiati. Ha saputo aspettare e poi due anni fa ha giocato il jolly con un disco, Streets Of New York, che rimetteva in scena la boheme di New York come lui la sapeva cantare, con una selezione di canzoni che, senza retorica passatista, coniugavano lo spirito poetico del songwriter con una schietta dimostrazione di rock urbano. House Of A Thousand Guitars il nuovo disco è il degno successore di quel lavoro e, come suggerisce il titolo, è ancora più venato di rock n’roll e chitarre elettriche anche se, come è nella tradizione dell’autore ci sono anche languori, malinconie e ballate.
Con l’atteggiamento spavaldo e scapigliato che lo ha sempre contraddistinto e con il solito amore per le strade e i romanzi , Willie Nile si ripropone al meglio recuperando il sound aguzzo ed essenziale del suo primo disco.
House Of Thousand Guitars gioca sul fatto di avere una band, gli Worry Dolls, che sembra tagliata su misura su Nile, col chitarrista Andy York (John Mellencamp) talmente bravo nel sintetizzare un assolo da togliere qualsiasi grasso in eccesso ed una sezione ritmica, il bassista Brad Albetta ed il batterista Rich Pagano che conoscano a memoria il groove newyorchese ovvero quel misto di arditi saliscendi che sembrano le montagne russe ritagliate sulla skyline della città.
E’ vero che gli Worry Dolls partecipano solo a metà nel disco perché il resto è affidato all’inseparabile Frankie Lee nelle vesti di batterista, a Steuart Smith 0nelle vesti di chitarrista e Stewart Lerman in quella di bassista ma l’amalgama è perfetta ed al di là di qualche sfumatura il disco suona omogeneo e compatto.
Che le chitarre, compresa la Stratocaster di Nile, siano costantemente all’offensiva lo dice il titolo del disco e la canzone-titolo, un vorticoso rock dove vengono citati i nomi dei grandi santi del rock (Hendrix, Stones, Dylan, Robert Johnson, Hank Williams, John Lee Hooker, Muddy Waters, John Lennon) in una sorta di omaggio a quella lezione musicale di cui Nile è figlio. Lezione che si ripropone nel vortice di ritmi e guitar sound di Run, un pop veloce e frizzante e nel tono rollingstoniano di Doomsday Dance. Poi c’è uno di quei brani che entrano nel cuore e fanno la storia di un artista, Love Is Train è metà ballata e metà rock n’roll, ha forza, onestà e freschezza per diventare uno dei classici del nostro. Cosa che succede anche a Magdalena sguaiato trash-punk da lower east side con le chitarra di Nile e York che gracchiano sporche, urgenti, insolenti e The Midnight Rose, enfasi springsteeniana e grande lavoro di squadra per un brano che ha muscoli e cuore in giusto dosaggio.
Ma è nella ballate che si rincontra il Nile della New York City serenade, nello splendido titolo di Her Love Falls Like Rain dove qualcuno potrà scorgere armonie vagamente beatlesiane, in Little Light dove sembrerà di essere in uno di quei momenti del concerto in cui tutti cantano con l’accendino in mano ed in Touch Me dove si verrà coinvolti da ricordi e malinconie attraverso la voce commossa del protagonista e del suo pianoforte.
Poi il finale, non troppo enfatico anche se già il titolo, When The Last Light Goes Out On Broadway, dice di quanto sia bravo Willie Nile a cantare l’anima profonda di New York City. Splendido.
Mauro Zambellini Marzo 2009