giovedì 25 marzo 2021

Lo stato delle cose: BRUCE SPRINGSTEEN e il declino dell'impero americano

Volentieri ospito questo contributo dell’amico e collega Marco Denti tratto dal recente suo libro, Storie Sterrate, edito da Jimenez, nel quale l’autore si sbizzarrisce in modo originale ed approfondito a scovare collegamenti tra rock e letteratura indagando nei musicisti che sono scrittori e negli scrittori che sono musicisti. Cinquanta quadretti in cui musica e parole si abbracciano, si sovrappongono , si completano, si confondono scegliendo una strada già tracciata ed una storia sterrata. Chi ha narrato la propria autobiografia e insieme tutta un’era, chi, scrivendo il proprio memoir, ha smantellato un’intera carriera, chi ha varcato il confine tra memoir e romanzo, chi avrebbe potuto scrivere un romanzo ed invece non l’ha mai fatto ma nelle sue canzoni ci sono più storie che in un’intera bibliografia, chi l’ha fatto senza motivo e chi per andare indietro nel tempo, o per andare avanti. Da Laurie Anderson a Leonard Cohen, da Steve Earle a Suzanne Vega, da Morrisey a Elvis Costello, da Elliott Murphy a Graham Parker, da Nick Cave a Lou Reed, da Warren Zevon a Richard Hell, da Frank Zappa a Natalie Merchant, da Jim Carroll a Neil Young, da Rickie Lee Jones a Lucinda Williams, da Willy Vlautin a Bruce Springseen. Il rock è l’attimo, la letteratura ha bisogno di più tempo, cinquanta esempi di strambo corteggiamento reciproco.


Lo stato delle cose: Bruce Springsteen e il declino dell’impero americano

Non c’è stato nessuno più prigioniero del rock’n’roll di Bruce Springsteen, perché alla base del rock’n’roll c’è l’idea di una sfida, di una fuga, più di ogni altra cosa, di una promessa, per cui ha dato tutto. Una prova celebrata nelle continue metafore automobilistiche delle “macchine da suicidio”, da Thunder Road a Racing in the Street fino alla definitiva sublimazione di The Promise. Ma non è solo la strada: è correre nelle alleanze dell’amicizia, con l’idea di muoversi insieme, la voglia sfrenata di attraversare lo spazio e il tempo come mezzo per ritrovare, anche solo a livello epidermico, una via di scampo dalla realtà e nello stesso tempo un mezzo per sentirsene parte. Non erano competizioni semplici. Le gare erano affronti ai motori, agli altri concorrenti, ai trucchi più o meno leali, alle città. Erano prove di coraggio: la paura di non arrivare o di perdere non era contemplata. La messa a punto comprendeva anche la misura delle speranze, il chiarire dei sogni e delle illusioni. Ogni notte, ogni volta. Springsteen ha avuto un coraggio immane, e mai abbastanza riconosciuto, nel rincorrere quel miraggio. È la terra promessa senza la terra, è la sfida senza la gara, è esplodere senza scoppiare.



            Negli anni il racconto di Springsteen è stato molto, molto dettagliato, e si è sviluppato coltivando un’ossessione che ha trovato la collocazione definitiva e insuperata nello psicodramma dei suoi concerti, ma che restava pur sempre una promessa e in quanto tale irraggiungibile. Bruce Springsteen ha spinto al massimo nella direzione sognante del rock’n’roll e si è consumato, nel senso vero e proprio della parola, perché nessuno si è speso più di lui per il proprio pubblico con un apice, volendolo trovare, in No Nukes, nella condivisione di quel fantastico rituale con Jackson Browne e Tom Petty. Ciò non di meno ha insistito nell’infondere energia su energia nell’inseguimento di quel miraggio che resta un’attrazione magnetica, e per dirla con il protagonista di The River, ha continuato a scendere al fiume pur sapendo che il fiume ormai era asciutto. Il senso del rock’n’roll è tutto nell’espressione di un desiderio che avrebbe trovato un’ultima spiaggia nella malinconica destinazione di THE RIVER, in particolare nelle ballate della seconda e conclusiva parte, che in qualche modo conducevano a NEBRASKA e a BORN IN THE U.S.A., e lì la corsa è finita.



            C’è un vecchio film, Copland, dove il protagonista si mette ad ascoltare Stolen Car, mentre tutto il suo mondo gli si sgretola at- torno senza pietà. È quell’atmosfera crepuscolare, da Mansion on the Hill a My Hometown che riporta inevitabilmente al paesaggio del New Jersey, che si è sfaldato. La decadenza, anche architettonica e urbanistica di quegli scorci di provincia, diventati una de- solata landa suburbana, è andata in parallelo. In quel frangente, Springsteen si è rivelato una voce potente, quando la terra promessa si è svelata in un intreccio di raccordi autostradali e centri commerciali perché come scrive Richard Ford “il mondo diventa più piccolo e più concentrato quanto più a lungo vi restiamo”, ed è rimasta solo una città in rovine.

            È stato un grande storyteller che ha costruito le canzoni come piccoli film, quindi sempre con una prospettiva più vicina alle immagini che alla parola. Ciò non toglie nulla all’altissima qualità del- la sua narrativa, pur nelle mutazioni seguite nel corso degli anni, dall’esuberanza colorita e beatnik degli esordi fino all’apoteosi di BORN TO RUN e alle riflessioni più mature di DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN, THE RIVER e NEBRASKA, ma i paesaggi che stavano sullo sfondo si sono incupiti e la terra della speranza e dei sogni è rimasta un’illusione, o un bel tema per una canzone.

            Nell’affrancarsi dalla desolazione di quei territori, sono apparse trame più crude, ma anche più distanti. Le crime story di Murder Incorporated e Code of Silence: nel corso degli anni, fuorilegge e delinquenti si sono susseguiti in molte canzoni perché Bruce Springsteen ha costruito delle miniature molto efficaci, rendendo persino comprensibile la loro umanità. Nei primi versi di Atlantic City comprime la vicenda di un personaggio che da solo è sufficiente a rappresentare il lato oscuro e noir del songwriting di Springsteen, capace di creare un’intera canzone a partire dal titolo di un giornale, guardandolo da una prospettiva inedita e trasformandolo in una storia a parte. Non è da tutti. Ha saputo trarre dalla fiction la forza ideale per raccontare la realtà americana del ventesimo secolo ed è indiscutibile che si sia speso anche nell’approfondire tematiche introspettive, come nell’intero TUNNEL OF LOVE o con una rilevanza storica e sociale come in THE GHOST OF TOM JOAD, American Skin o Devils & Dust, o persino fantasmagoriche come Outlaw Pete (compreso il libro a fumetti) o Hunter of Invisible Game, tutti tentativi di trovare altre soluzioni, ma spesso dai risultati controversi. Il suo sogno restava sempre un altro.



In fondo tutti gli immaginari sono circoscritti e definiti perché è proprio lì che indugia il lavoro dell’artista. Il nocciolo della questione rispetto a Springsteen è che questa continua invocazione della primordiale promessa emana una luce, un abbaglio che gli altri non hanno, ma che poi è proprio come tutti gli altri, limitato lì. Questa è la contraddizione, in fondo. Quel senso che emana dal rock’n’roll e non ha corrispettivo nella letteratura perché quello che dice una storia è lì, concluso per sempre (modifichi una storia e diventa un’altra storia), mentre una canzone è una lusinga reiterata all’infinito. Nessuno (a parte Elvis) come Springsteen ha interpretato il senso di quel sogno, l’ha cantato e descritto e immaginato e recitato più e più volte, saltando da una parte all’altra del palco. E ci ha convinto. Per una parte importante e ingombrante della sua carriera e della sua vita Springsteen ha fatto di più: ha condiviso le sue aspettative, il suo sogno, la sua fede e con ogni probabilità i motivi di una sfida (implicita ed esplicita) che alimentava tutta la sua determinazione. Un circolo chiuso, in definitiva, ma che ha creato un’attenzione straordinaria del suo pubblico, a sua volta ricambiata con una generosità e un entusiasmo più unici che rari.



            Per quanto ampio, alla fine, l’immaginario di Bruce Springsteen è circoscritto, è rimasto qualcosa di molto definito e concluso, come se Springsteen avesse una visione completa e in qualche modo definitiva. Springsteen ha ricostruito un paesaggio con una cura famelica del dettaglio. Dalla sua scrittura, dal suo songwriting in apparenza sembrano evolversi interi mondi, che in realtà implodono. Il rock’n’roll è evanescente ed effimero ed è proprio in quei momenti che si vede con un’ottica diversa, quando si capisce che la sua inutilità tiene insieme le nostre vite, ci salva dalla realtà. È una prospettiva con tutti gli elementi dell’incognita e della speranza, è una sfida, è un’illusione, che poi a bene guardare è quel miraggio tutto americano della terra dei liberi e della casa dei coraggiosi.



            I frequenti tentativi di espandere la realtà e la fiction springsteeniane si sono rivelati dei viaggi in riserva e senza destinazione. Se serve un esempio valga il caso di Tennessee Jones, con la raccolta di racconti Liberami dal nulla: basato sulle suggestioni di NEBRASKA, è forse lo sforzo più ambizioso dal punto di vista letterario, ma ancora peggio è andata dal punto di vista cinematografico, do- ve gli sforzi per espandere la forma delle canzoni di Springsteen si sono risolti di norma in piccole caricature, più o meno ispirate. È mancato il senso stesso del rock’n’roll, quel desiderio di arrivare da qualche parte (ma dove?) che alimentava il battito e che una volta arenatosi nella placida sconfitta del “nowhere to run, nowhere to go” di BORN IN THE U.S.A. si è poi trascinato in osservazioni più o meno puntuali nel corso degli anni, compresi un capolavoro narrativo come THE GHOST OF TOM JOAD e uno sforzo coraggioso come THE RISING. Ma la promessa, quella promessa, è rimasta lì, sullo sfondo, come un’ombra, un avviso, una cambiale non pagata. L’autobiografia è l’ammissione di quel limite, e non deve sorprendere che il carattere meditabondo di ciò che è seguito, dalle repliche di Broadway a WESTERN STARS non fa che confermare i contorni di quell’immaginario che ha celebrato la promessa, ma non ha saputo ritrovarla. Non doveva nemmeno, se è per quello.


            Bisogna dire che a differenza di suoi emeriti colleghi, vicini e lontani, Springsteen non ha mai indossato una maschera, non ha mai interpretato un personaggio né sul palco né su disco, non si è negato dietro Ziggy, non ha avuto rifugi come Idra, non si è nascosto nella o dalla folla (anzi). Forse per raccontare le storie, e per conviverci, serve una distanza di sicurezza che Springsteen non si è mai premurato di avere. Si è messo alla pari, lui e il suo pubblico, nel realizzare un legame unico, ma ci vuole un sacco di energia per tenere in piedi l’edificio, e lui ce l’ha messa tutta. Una scelta spontanea, forse, e limitata, ma senza dubbio genuina, che ha pagato in termini di energie e ha chiesto un “prezzo che devi pagare”. Deve essere successo qualcosa del genere.

            Parlando degli altri, in realtà Bruce Springsteen ha parlato sempre di se stesso. Questo attrito, che ha generato una visione singolare, si è inceppato nel momento in cui Bruce Springsteen ha parlato di se stesso credendo di parlare anche per gli altri. Forse è solo una sensazione, ma per spiegarla è utile l’opinione di Laurie Anderson, piuttosto insolita per il popolo springsteeniano, ma arguta nel cogliere il senso della prospettiva: “Se vedi Bruce Springsteen dal vivo, ti rendi conto dell’energia e della totalità dell’evento, mentre se è inquadrato con l’idea di trasmettere una maggiore intimità con le riprese ravvicinate, si perde tutta l’energia”. Il punto di vista di Laurie Anderson, ripreso da una discussione con il critico d’arte Germano Celant a proposito della qualità e della pro- spettiva delle immagini, è curioso, ma rende l’idea.



          Quando ha deciso di confrontarsi con la scrittura è come se si fosse messo a scrivere una storia che aveva raccontato un milione di volte e anche lui è caduto nella trappola di infilarsi in quell’immaginario che era già tutto lì, che aveva già espresso con le canzoni, con le chitarre, con il sassofono di Big Man, con la E Street Band e con gli stadi che inneggiavano all’unisono il suo nome come se di volta in volta volessero ritrovare un vecchio amico tornato da un lungo viaggio. Spinto da un’esigenza chiaramente personale, Springsteen si è dedicato al memoir e ne è uscito il resoconto (paradossale, sorprendente) di un uomo nel confessionale che, per forza di cose, rispolverava storie già raccontate, aggiungendoci particolari piuttosto intimi e dolorosi, ma incappando, come tutti gli altri prima di lui, nelle medesime frontiere definite dal suo immaginario. Il suo memoir si è rivelato timoroso e lacunoso, ma soprattutto autosufficiente. Forse ha dato voce a così tanti personaggi o ha interpretato così tanti personaggi da confondere se stesso. È vero che ha dato tutto, ma con ogni probabilità c’è un prezzo da pagare, e non è relativo. Le aspettative ci hanno tradito, ma avremmo dovuto ricordare quello che diceva ancora Richard Ford, cioè che “i romanzi sono una specie di vento che tira i rimasugli della vita quotidiana dalle strade polverose dove spendiamo i nostri giorni, li fa avvitare nell’aria creando figure sempre nuove e ce li riporta addosso lasciandoci lì con un mezzo sorriso sciocco, a chiederci cosa ci sia successo. A chiederci perché ridiamo e perché piangiamo”. Anche la rilettura dell’autobiografia nello scenario di Broadway non ha saputo aggiungere altro, al di là dell’aspetto emotivo. Un anno di repliche è servito a capire che il grande romanzo americano, quell’eterna balena bianca che fluttua misteriosamente nel tempo e nei nostri desideri, non solo l’aveva già scritto, ma l’aveva anche vissuto.

MARCO DENTI 


 

sabato 13 marzo 2021

Ladies and gentlemen from Boston, Mass. :THE DEL FUEGOS

E’ luogo comune considerare gli anni ottanta come uno dei periodi più infelici del rock. Batterie supervitaminizzate, sintetizzatori, produzioni laccate da specchiarsi dentro, pop dai colori sgargianti, romantici incipriati e dark carnevaleschi, l’unico modo che i musicisti avevano per farsi ascoltare era entrare nella heavy rotation di MTV e soddisfare a certi clichè. La diversità era bandita. Ma in quegli anni la diversità era proprio la più elementare delle condizioni: saper suonare il rock n’roll. Per fortuna sotto l’ufficialità, pulsava un mondo sommerso che nella stessa decade partorì nomi di eccelsa qualità musicale, molti dei quali ancora on the road. Ne cito alcuni: Dream Syndicate, Blasters, Los Lobos, Twin White Rope, Waterboys, Green On Red, X, Replacements, Beat Farmers, Violent Femmes, Del Lords, Fleshtones, Pogues, Jason and The Scorchers, Charlie Pickett e last but not least The Del Fuegos, una band che ancora oggi la si ricorda per aver immortalato la città di Boston nell’immaginario del rock con un album che proponeva una attitudine ed un suono che parevano out of time. Rasoiate alla Stones, voce sabbiosa arsa dal whiskey, ballate umide di pioggia intrise di un romanticismo al neon , canzoni di quattro minuti ereditate o dal più focoso R&B e dai Creedence trattate con l’urgenza delle band garagiste, in due parole Rock and Roll.


In verità i fratelli Zanes (un’altra storia di rock brothers come quella dei Creedence , dei Blasters, dei Black Crowes) ed il bassista  Tom Lloyd non erano nativi di Boston ma provenivano da Concord,  30 mila anime, capitale del New Hampshire, ma nella città del Massachusetts si erano trapiantati frequentando quel girone di giovani disperati che amavano ancora i suoni elettrici vintage, tipi come i Neats, i Lyres, i Flies, il Ben Vaughn Combo e altre amenità minori. Il nome lo scelse il maggiore dei due fratelli Zanes, Dan, cantante e chitarrista ritmico che così liquidò la faccenda: “sapete dove si trova la Terra del Fuoco? In fondo, in fondo al mondo, beh più in basso di così non avremmo mai potuto cadere”. Detto e fatto, in quanto ad ironia e simpatia Dan Zanes non si è mai tirato indietro, sapendo che far parte di una rock n’roll band era una delle poche possibilità per non finire a lavorare all’ufficio postale o in un grande magazzino. Comunque sia, negli alti( pochi) e bassi (tanti) della loro avventura musicale, i Del Fuegos sono rimasti fedeli fino in fondo all’immagine di una innocente e divertita garage band che suonava cià che gli dettava il cuore ed il proprio gusto. Cresciuti ad una dieta di R&B (Brenda Lee, Wilson Pickett, Gary U.S Bonds, Del Shannon) e con nel sangue i riff di Keith Richards, Dan Zanes, il fratello Warren, chitarra solista, e Tom Lloyd, cambiati un po’ di batteristi (prima Nick Patterson, poi Steve Morrell, alla fine Brent Giessman) registrano un singolo, I Always Call Her Back/ I Can’t Sleep  prima di accasarsi con la Ace of Hearts, con la quale riescono nell’impresa di non pubblicare nulla ad eccezione di un brano della compilation A Boston Rock Christmas . Babbo Natale gli regala l’attenzione di quelli della Slash, una etichetta distribuita dalla WB, in quel periodo al top in fatto di rock “allora alternativo” con in scuderia Dream Syndicate, Blasters, Green On Red, BoDeans, Los Lobos, Plugz, Rank and File, X, Violent Femmes. I quattro bostoniani partono per Los Angeles per un viaggio affatto turistico, nell’Ohio il Van esce di strada compromettendo la strumentazione, appena arrivati nella Città degli Angeli si rifocillano con delle birre in un bar ma quando tornano al furgone trovano il finestrino spaccato e bagagli, giubbotti e agende con gli indirizzi volatilizzati. Gli angeli evidentemente non erano in città ma la Slash gli mette a disposizione il produttore Mitchell Froom che al tempo è ancora un signor nessuno e non ci mette molto a capire di che pasta sono fatti i quattro. Li fa suonare per due mesi, soli e con altri musicisti di casa Slash,  estenuanti giorni di prove, riprove, breaks, rifacimenti, a cui partecipano anche Dave Alvin e Chris D. negli studi Sound Factory. Alla fine viene fuori The Longest Day, un album dal suono elettrico e chitarristico, con un tiro sferzante e ritornelli urlati alla maniera di Kinks e i Creedence. In poche parole Nervous and Shakey, il titolo che apre l’album ed esemplifica il loro “tutto o nulla”. E’ il 1984 e quel rock spiccio, crudo, che strizza l’occhio agli anni sessanta per l’appeal canzonettistico, è una precisa configurazione dell’American music con un sound urbano venato di rhythm and blues e rockabilly, inebriato da una attitudine punk. Roba in ritardo per gli anni settanta e fuori luogo nelle radio, nei video e nelle classifiche degli anni ottanta. Ma poco importa, c’è una tribù che li intercetta e respira quell’aria di innocente gioventù innamorata del rock n’roll pur coi dovuti rimandi a qualche loro concittadino, Jonathan Richman per quello che aveva fatto coi Modern Lovers, Peter Wolf durante e dopo la J.Geils Band.



Il trucco per fuggire all’anonimato lo suggeriscono i testi di Mary Don’t Change e Backseat Nothing  e soprattutto lo sferragliare delle chitarre, accompagnato da una sezione ritmica cattiva e dalle tastiere (lo stesso Mitchell Froom)che ogni tanto si fanno sentire con quel rumore da beat dei sixties. Qualche amara ballata, è il caso di Anything You Want  presagisce il futuro paesaggio di Boston, Mass., l’anno seguente. Superata qualche goffaggine da esordienti (Have You Forgotten) e appresa qualche infarinatura sulle modalità di registrazione, i Del Fuegos rincarano la dose, appoggiandosi ancora a Mitchell Froom che suona le tastiere, produce e si porta appresso il chitarrista James Ralston, già nella band di Tina Turner. Al tempo scrissi che Boston, Mass. è il miglior disco degli Stones degli anni ottanta e l’iperbole serve a capire come la novella del rock n’roll in certi momenti “bui” ha bisogno di comparse di secondo piano per mandare segnali di resistenza e non abbandonare la strada. Il fatto che per il sottoscritto i Del Fuegos fossero tutt’altro che delle comparse poco importa, non l’ho scritta io la storia ufficiale del rock, mi accontento di aver riempito i miei scaffali di dischi come i loro, necessari per continuare a vivere e divertirmi con la musica. In Boston, Mass. Dan Zanes canta prima col cuore in gola e poi col microfono, urla dal fondo delle backstreets una poesia bluastra da loser ma nelle ballate è come se una scheggia della musica di Springsteen fosse entrata e l’abbia riscaldata. E la band rolla il sound della giungla urbana con tenacia e determinazione, la batteria sta ancora chiedendo pietà tanto è stata pestata e le chitarre sono laser figlie del blues. Basta ascoltarsi l’iniziale Don’t Run Wild  per capire quante cassette degli Stones devono essersi ascoltati i quattro nello stereo del Van, viaggiando da Boston a Los Angeles. Ma è tutto l’album a funzionare, creando l’umore di una città di notte, gli asfalti lucidi di pioggia, le luci al neon dai riflessi giallastri, il silenzio delle strade secondarie, i fogli di giornale spazzati dal vento, le saracinesche abbassate, una libertà sognata con l’autoradio a tutto a volume e con la consapevolezza disincantata che l’alba non è poi così lontana. Rock catartico, ingentilito da una grande storia d’amore (I Still Want You) che entra in classifica, e mitizzato da una scenografia notturna degna di un noir.  A ballate strascicate e doloranti come Night On The Town  dove la voce di Dan Zanes spezza il cuore, e lo stesso succede in Coup de Ville e Fade To Blue (titoli che collegano idealmente Dream Syndicate, Rolling Stones, Mink De Ville, Springsteen e Van Morrison) si oppongono le velocità anfetaminiche di Hold Us Down, It’s Allright, Don’t Run Wild  in uno stile di rock urbano tipico della East-Coast, lo stesso espresso da Raindogs, Treat Her Right, Joe Grushecky, Joneses, Semi-Twang, BoDeans e in una versione black, il primo Barrence Whitfield. Nell’anno di Born In The Usa, dalle città della East Coast soffiava un rock forte, autorevole, romantico, come se Bruce avesse legittimato un mondo capace di opporsi alla musica di plastica con cui le radio e MTV inondavano l’etere. Lo stesso Springsteen in una pausa del suo tour raggiunse i Del Fuegos sul palco di un club in North Carolina per eseguire con loro Hang On Sloopy e Stand By Me. Capiterà anche di “peggio”, quando Bruce insieme a Nils Lofgren improvviserà in un backstage Backseat Nothing  e Mary Don’t Change, due canzoni di The Longest Day  ma tipico dello stile Del Fuegos, sarà non avere  sottomano un registratore per immortalare l’irripetibile jam.



Con due album alle spalle, il nome Del Fuegos comincia a suscitare interesse anche nei piani alti del rock, John Fogerty e Tom Petty si interessano a loro ma, nello spogliatoio, la squadra comincia a scricchiolare. Ritornano al Factory Sound Studios di Hollywood con Mitchell Froom e Tchad Blake, una coppia che di lì a poco avrebbe firmato dischi importanti, e per loro si scomodano nomi di spicco: il chitarrista di Presley, James Burton, si diverte con la chitarra wah-wah in A Town Called Love  ed il dobro in Long Slide(Far and Out), Merry Clayton ci mette i cori come faceva con i Rolling Stones, Alex Acuna porta le percussioni e i due vocalist di Ry Cooder, Bobby King e Willie Green Jr. danno una mano alla Clayton. In più Tom Petty regala la sua voce in I Can’t Take This Place e gli Heart Attack Horns aggiungono con la loro sezione d’ottoni una buona dose di Memphis sound. Il suono c’è, dal rock della banlieu di Boston, Mass. si passa ad un rock ancora urbano e chitarristico ma tinto di scuro R&B, il problema è che le canzoni non hanno lo stesso appeal e la stessa concretezza di quelle dell’album che lo ha preceduto. La copertina di Stand Up  è un preciso riferimento all’epoca degli Stones di Brian Jones, lo stesso Warren Zanes lo ricorda  nella foto con quella zazzera bionda ed il giubbetto di pelliccia bianca, e anche l sound lo conferma. Le danze cominciano con Wear It Like A Cape, negritudine a palla al pari di Long Slide, fiati in gran spolvero e sporcizia da Exile. A Town Called Love è tesa e notturna con un Burton ispiratissimo ed una Merry Clayton tornata ai tempi di Gimme Shelter, I Can’t Take This Place mischia pietre rotolanti e spezzacuori in un mezzo tempo perfetto per le highway, New Old World è funky e News From Nowhere  è il rauco e duro grido dell’ ultima spiaggia, vivo o morto. Che qualcosa non funzioni è però palese, non è tanto il R&B a fare acqua ma le ballate, come se portassero a galla il malumore interno. He Had A Lot To Drink Today è un maldestro tentativo di imitare Tom Waits con versi presi da Francis Scott Fitzgerald, Scratching at Your Door è stanca da morire, I’ll Sleep With You una love song tirata per i capelli e Name Names  un singolo destinato al fallimento.


Come affermò in seguito Dan Zanes “Stand Up è avaro di emozioni, ce ne siamo accorti troppo tardi e abbiamo dato per scontato che il pubblico ci seguisse comunque. C’era tensione tra me e mio fratello, che naturalmente si ripercuoteva su tutto il gruppo”. Fanno in tempo ad andare in tour con Tom Petty ma il destino è segnato, Warren Zanes se ne va e con lui il batterista Woody Geissman. Stand Up fu pubblicato nel 1987 e trascorse un anno prima che Dan Zanes e Tom Lloyd trovassero i sostituti. “Non ci interessavano due musicisti in affitto o due figure secondarie ma due veri Del Fuegos”. Il batterista Joe Donnelly proveniva da Boston e aveva suonato in diverse band locali, “voleva diventare un Del Fuegos cinque anni prima che lo chiamassimo”,  Adam Roth, newyorchese, si era impegnato in più miscugli, prima con Jim Carroll, poi con i Jive Five, col poeta John Giorno e con una band rockabilly. “Un vero casino, proprio l’uomo che io e Tom cercavamo”.


All’epoca di Stand Up le cose attorno ai Del Fuegos erano cambiate, molta dell’innocenza si era smarrita, le liriche del disco sono spesso fuori fuoco, appunti che non parlano di nulla”. Parole dette da Dan Zanes in un intervista rilasciata al sottoscritto nel 1990, prima di un infuocato concerto a Meolo, nell’entroterra veneziano. “Vivevamo su un pullman senza accorgersi di come giravano le cose intorno ma non rinnego quel disco, lo sbaglio è servito, ogni volta che fai un disco devi metterci il cuore, devi dare tutto alla musica”.   Il cuore batte forte in Smoking In The Fields, nuovo disco, nuova casa discografica e nuovo produttore, Dave Thoener, ingegnere del suono con la J.Geils Band. Non è la sola connessione con la storica band di Boston capitanata da Peter Wolf, il pianoforte di Seth Justman e l’armonica del funambolico Magic Dick ricamano nel disco un approccio ancora più stretto col soul e col suono Stax. E’ un disco dai toni duri e dai racconti caldi dove i fiati degli Heavy Metal Horns (tre sassofoni, due trombe ed un trombone) sono la miccia che fa esplodere le danze, dove ci sono gli arrangiamento d’archi in Part Of This Earth, nel quale Tom Lloyd suona il violoncello,  e le orchestrazioni nella struggente I’m Inside You che strizzano l’occhio  ad un Philly Sound senza sdolcinature. C’è la voce di Rick Danko nell’acustica Stand By You dal profilo country. Per molti Smoking In The Fields ( il titolo trae spunto da un verso di Friends Again, canzone dedicata al fratello, “ed è quello che assieme amavamo fare, fumare spinelli nei campi”)è il lavoro più riuscito dei Del Fuegos grazie alla sentita interpretazione degli stili che hanno dato anima, sangue e cuore al rock. Il soul, il blues, il rock n’roll, il rhythm and blues e quelle ballate che i Del Fuegos sapevano cantare con una disperazione da far accapponare la pelle, pur offrendo con la loro energia la speranza che ognuno potesse esaudire un sogno, vivere un amore, avere un futuro migliore. Anche qui canzoni come Down in Allen’s Mills, I’m Inside You, Breakaway , Part Of This Heart  non sono avare in quanto a commozione, mentre Headlights  e The Offer suonano come se la J.Geils Band fosse ancora in tour ad “aprire” per i Rolling Stones. Da parte loro Lost Weekend , No No Never  e Move with my Sister stemperano la rabbia in riff di chitarra quadrati ma mai banali, in aperture armoniche da grandi spazi ed un pulsare ritmico da pub-rock ad alto tasso di negritudine. Dan Zanes si riconferma un songwriter da strade blu, il sound è saturo ma non sovraccarico, fiati, archi, coloriture delle tastiere danno vigore a canzoni che esaltano l’umore stradaiolo di una delle più trascinanti band americane degli anni ottanta. Se si considera che l’album raggiunse il 139esimo posto di vendita nelle classifiche americane ed il singolo Move With My Sister  il ventiduesimo (Boston, Mass. era arrivato al 134esimo), si capisce perché l’anno dopo della pubblicazione di Smoking In The Fields, nel 1990, i Del Fuegos tolsero il disturbo. Con la sua solita ironia, Dan Zanes dichiarò “gli anni ottanta erano finiti e anche noi avevamo finito”. Nel giugno del 2011 la band si riunì per un paio di concerti al Paradise Rock di Boston per raccogliere fondi per Right Turn, il programma di riabilitazione ideato da Woody Geissman per assistere tossicodipendenti e malati mentali, nel febbraio dell’anno seguente i Del Fuegos si imbarcarono in tour che si concluse nel marzo del 2012 al Capital Centre of Arts di Concord, la città natale dei fratelli Zanes. Durante quel tour registrarono un Ep, Silver Star , troppo moderato per accendere il fuego di un tempo.



Dan Zanes, nel 1995, ha pubblicato un interessante disco solista, Cool Down Time, prodotto ancora da Mitchell Froom prima di dedicarsi a registrazioni per i bambini, il fratello Warren ha conseguito due master in Visual and Cultural Arts, è Vice Presidente di Educazione alla Rock and Roll Hall of Fame e ha realizzato nel 2002 l’album solista Memory Girls. Tom Lloyd si è laureato presso il California Institute of Technology nel 1999 e ha lasciato la musica, Adam Roth è morto di cancro nel 2015 e Joe Donnelly gira ancora nel sottobosco del rock n’roll.

 

MAURO ZAMBELLINI