Ormai ce n'è per tutti i gusti, basta
scegliere, il rock italiano NON cantato in italiano si è fatto adulto e maturo.
Vi confesso che tra i CD che più mi hanno soddisfatto in questi ultimi mesi, ci
sono proprio questi outsider e la mia non è la solita ruffianata
nazionalista ma l'impressione che finalmente, noi, una volta considerati
periferia dell'impero, ormai non abbiamo più nulla da invidiare a francesi, tedeschi, inglesi,
irlandesi, perfino americani. Almeno nel rock. L'Italia s'è desta? Forse si, a
guardare le canzoni dei Cheap Wine che finiscono nelle radio americane, i Red
Wine Serenaders testa di serie dell'European Blues Challenge a Tolosa il
prossimo marzo, Miami and The Groovers
in tour in Svezia, Daniele Tenca al Light of Day nel New Jersey, W.I.N.D. sempre più richiesti da
musicisti internazionali, Sacri Cuori band di supporto nei dischi di Dan Stuart
e Hugo Race, e chi più ne ha ne metta. Quindi il mio consiglio, anche se siete
anglofoni come me, è di lasciar perdere gli hamburger e farvi un classico e
vintage panino col salame. Senza salse e intrugli. D'altra parte lo shock non è
così forte, tutti questi cantano in inglese e quindi vi sembrerà che nulla è
cambiato nelle vostre abitudini. Provate, mi darete ragione, al posto di
sforzarvi a scoprire l'ultimo roots-rocker del New Hampshire, il bluesman in
agrodolce della Louisiana occidentale o il contadino in fregola che viene dagli
Appalachi, fate un giro a kilometro zero e provate ad ascoltare Based
On Lies dei Cheap Wine, Ma-Moo
Tones di Francesco Piu, Old Stories For Modern Times di Veronica Sbergia & Max De Bernardi, Tracks
From Ol'Station di The
Reverend and The Lady, l'omonimo AriannAntinori,
Good Things di Miami and The Groovers, Lake Pontchartrain di
Cesare Carugi, New Mind Revolution dei Nerves and Muscles, Takin' a Break di Paolo
Bonfanti, Wake Up Nation di
Daniele Tenca, , solo per citarne alcuni, vi troverete contenti e almeno per
quanto riguarda il rock ed il blues vi concilierete col nostro discutibile
paese.
giovedì 21 febbraio 2013
giovedì 7 febbraio 2013
LITTLE FEAT
COLOGNE
BRESCIANO 5 FEBBRAIO 2013
Cari vecchi
Feats, li vedi arrivare sul palco e ti accorgi che di tempo ne è passato
parecchio ed il tempo non aspetta proprio nessuno, nemmeno le rockstar. I
Little Feat non sono mai stati delle rockstar, neanche quando avevano il loro
leader Lowell George, ma un pezzo di storia del rock l'hanno sicuramente
scritto perché il loro Waiting For Columbus rimane tuttora
uno dei live album migliori della nostra musica e diversi altri titoli della
loro collezione meritano di entrare nella lista dei 100 dischi fondamentali del
rock. Inoltre e lo si è visto nel bel concerto
di Cologne Bresciano, loro sono depositari di uno stile che è unico perché
il loro mix di rock, blues, R&B, latin and mexican music, New Orleans
groove, country e jazz non assomiglia a nessun altro intruglio in circolazione sebbene siano in tanti a
cucinare gli stessi ingredienti. Nelle loro mani questo gumbo di american music è diventato uno degli "originali"
del rock dello scorso secolo, un polo di riferimento della jam music assieme ad
Allman e Dead. Anche se invecchiati suonano da Dio, Fred Tackett, un Feat della
seconda ora, è uno che con chitarra Fender e mandolino fa quello che vuole,
Bill Payne, l'unico Feat originario, intendendo quelli dei primi due album, è
il gigante che presenzia dietro a pianoforte, organo e tastiere, Kenny Gradney
da parte sua pompa un basso che unito alle percussioni di Sam Clayton, in
seconda linea con una tie-dye t-shirt che lo fa sembrare un Neville Brothers, e
alla batteria di Gabe Ford, dignitoso sostituto del famigerato drumming di
Richie Hayward, purtroppo scomparso nel 2010, formano una sezione ritmica da
mille e una notte, potente, dinamica, elastica, una macchina in grado di creare
un groove irresistibile dove evidente è la scuola di New Orleans (con il terzo
album Dixie Chicken furono tra i primi a portare la Big Easy nel
rock) più una serie di
infiltrazioni di ritmi latini e fluidità
jazzistiche. Colui che sembra messo meno bene, almeno dal punto di vista
fisico, è Paul Barrere, molto invecchiato e in prossimità di sottoporsi ad un
intervento chirurgo al fegato. Limita al minimo le parti cantate lasciandole
volentieri a Tackett e alla voce all
black di Clayton ma con la chitarra è sempre un maestro, non si tira
indietro e i duelli a fior di Fender con Tackett diventano l'elemento rock
dello show, un rincorrersi e dialogare che porta sul palco le scorribande del
southern-rock. I Little Feat suonano con disinvoltura e non-chalance ma
mostrano un tasso tecnico straordinario, giostrano stacchi e controritmi,
improvvisano come un combo, stemperano l'ortodossia blues in una fusione di
linguaggi che diventa la cifra stilistica di una band assolutamente originale,
una band che concede sia al corpo che alla mente e a tratti sa essere
psichedelica, come sottolinea la
colorata e caleidoscopica immagine lisergica che troneggia alle loro spalle.
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