venerdì 26 settembre 2008
Black Crowes > Warpoint
Sette anni dopo il mediocre Lions i Black Crowes tornano alle origini ripristinando un tumultuoso e sporco rock-blues sudista, così come ce lo hanno fatto amare nei loro dischi migliori, i primi tre tanto per intenderci. Abbandonate le infatuazioni glam e il ricorso ad un rock spettacolare da Mtv, perso definitivamente il bravo chitarrista Marc Ford, i Corvi Neri hanno ingaggiato il tastierista Adam McDougall e messo Luther Dickinson dei North Mississippi All Stars al posto di Ford. Di nuovo in sei con Chris e Rich Robinson, il batterista Steve Gorman ed il bassista Sven Pipien hanno lavorato duro, scegliendo Paul Stacey come produttore e infilandosi negli Allaire Studios, stato di New York ai piedi della Catskills Mountains, non molto lontano da Woodstock, per portare a termine un disco che non sconfessa le loro influenze e rimette in pista un rock n’roll vintage intriso di blues e R&B. Finiti i tempi delle major i Black Crowes hanno ideato una loro etichetta, la Silver Arrow e con la spavalderia ed il coraggio che li ha sempre contraddistinti sono tornati alle origini, al rock impiastrato di blues, di soul e di R&B con cui avevano aperto le danze, sciorinando chitarre e suoni sporchi, tastiere anni settanta ed una ritmica sordida da cantina che sembra direttamente estrapolata da Exile On Main Street. Il sound è quello anche se le canzoni non risultano ugualmente brillanti, manca loro un quid per essere veramente memorabili.
Nuova linfa al gruppo l’hanno portata le tastiere sotterranee ed honky-tonk di McDougall che in Goodbye Daughters Of The Revolution e in Wee Who See The Deep sembra fare il verso al lavoro fatto da Ian Stewart con gli Stones e la cinetica slide di Luther Dickinson, sempre più decisiva nel riversare sulle canzoni una copiosa dose di fango del Mississippi. Il risultato è un sound da juke joint che sa terribilmente di blues e di Faces, che occhieggia ai Led Zeppelin primo periodo in Movin’On Down The Line e che nell’iniziale Goodbye Daughters Of The Revolution col suo carico di ribellismo rispolvera il rock barricadiero di Street Fightin’ Man.
Gli Stones early seventies sono dappertutto in Warpoint, soprattutto nella abrasiva cover di God’s Got It di Reverend Charlie Jackson ma il dato che più risalta è la nuova vocazione balladiera dei Crowes che si consuma in splendide ballad quali Oh Josephine dal finale epico, nel semi folk di Locust Street e nella conclusiva Whoa Mule che con tabla, sitar e chitarre acustiche riprende la strada di un rock avulso da condizionamenti commerciali e solo rivolto ad un messaggio di fratellanza universale. Pacifisti, libertari e antiproibizionisti i Black Crowes sono una band fuori dal tempo e dalle mode, suonano come fossero nel 1971 e cantano con l’innocenza di Volunteers chiamando i loro sostenitori brothers and sisters. C’è bisogno di altro per amarli?
Mauro Zambellini (16 mar 2008)
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